Il fatto che io sia pugliese non deve trarre in inganno. Non sono un fanatico delle orecchiette con le cime di rape, non ho la dispensa piena di taralli e friselle, non ballo la pizzica, non tifo per Cassano e soprattutto non bevo litri di Negramaro dalla mattina alla sera, anche se il vino rosso in casa mia non manca mai: Nero di Troia, rigorosamente in frigo. Perché a casa mia il vino non si degusta. Disseta. Almeno tre volte l’anno lascio Milano e torno alla base, solitamente per le ricorrenze da calendario: Natale, Pasqua e le feste dei Santi Patroni (a Ginosa ne abbiamo due, i Santi Medici e la Madonna del Rosario). Inoltre, da bravo figlio del mare, scendo a casa anche d'estate, ad agosto, per 3 settimane buone. Mi faccio una ventina di giorni a base di mangiate, letture e giri con i pochi amici rimasti al paese. Che da Ginosa, quelli della mia generazione, sono partiti tutti. Di lavoro non ce n'è e Miroglio e Natuzzi hanno deciso bene di andarsene all'estero per confezionare il più autentico made in Italy. Ogni anno però cerco di fare una capatina a casa anche per il compleanno di mio padre. Perché per noi meridionali è così: quando ci si allontana da casa il cordone ombelicale non si spezza ma si allunga. Così anche stavolta approfitto di un weekend, prenoto un Easyjet sottocosto e me ne torno in patria. Stessa trafila di sempre: sveglia alle 4 del mattino, mi doccio, mi vesto, prendo il taxi, vado a Cadorna, Malpensa Express, Terminal 1, autobus per il Terminal 2, check in, metal detector, imbarco, allaccio le cinture, decollo, il pilota guida senza mani, atterro a Bari, navetta per la stazione centrale, treno per Castellaneta e lì, in stazione, finalmente alle 11 e 20 riabbraccio mio padre che da anni mi fa anche da taxi privato per Ginosa. Ce ne andiamo al paese, intatto. Che poi, intatto. Parte del centro storico è collassato su se stesso e le alluvioni hanno devastato la gravina. In compenso, ristoranti e pizzerie si moltiplicano per il corso, attorno alla villa, vicino piazza Nusco, giù all'orologio. A Ginosa manca il lavoro, ma una buona diavola doppia mozzarella la trovi praticamente ovunque. A casa ci attende mamma che mi vede, al solito, sciupato. Faccio una prima scorpacciata di piselli, mozzarelle, una bevuta generosa di Aglianico locale, torta al cioccolato e un risciacquo abbondante con quel vino liquoroso che abbiamo preso a Todi l'anno scorso nella nostra scampagnata di Pasqua. I miei stanno bene. Sempre un po' acciaccati per l'insolenza dell'età, ma tutto sommato li vedo sereni. Parliamo un po' del più e del meno, del mio lavoro, di come si sta a Milano. La mia stanza è identica da quando l’ho lasciata. Anzitutto il poster della discoteca Pushca strappato a Londra nel 2000 dopo una gloriosa serata di capodanno a base di alcol e distruzione al Ministry of Sound. Sugli scaffali bianchi, poi, la mia intera collezione di vinili consumati in mille feste e mille programmi radiofonici, la collezione di Topolino e tutti i miei libri spolpati controvoglia nella gloriosa facoltà di Lingue e Letterature Straniere di Bari. La sera mio papà prende la pizza con doppia mozzarella e salamino piccante, quello buono delle mie parti. Vado a letto stanco ma soddisfatto. Mi sveglio tardi, rincoglionito dal viaggio. Son già tutti pronti. Il pranzo ci aspetta. Nemmeno il tempo di fare gli auguri a mio padre che si parte subito per una masseria poco dopo il Girifalco, a metà strada tra Ginosa e Ginosa Marina. Passiamo a prendere le due zie e ci avviamo verso il locale, seguiti dalla macchina di mio cognato, con a bordo mia sorella e i tre nipotini che per comodità chiamerò Adolescenza (la maggiore), Teppista (il medio) e Timidezza (la piccola). Anzitutto bisogna chiarire un punto secondo me fondamentale: per noi meridionali in generale, pugliesi in particolare, i banchetti non sono semplici pranzi, sono veri e propri sequestri di persona. Solitamente si rimane seduti finché non viene la morte a dirti “guarda che è la tua ora”. Per cui mi preparo psicologicamente e mi butto nella mischia. Mentre Teppista e Timidezza (che insieme non fanno 10 anni) si accontentano delle loro porzioni di patatine fritte, noi altri veniamo sommersi da un diluvio di pesce. Iniziamo: frittata di bianchetti, merluzzetti fritti, insalata di cozze e vongole, insalata di mare, polipi alla luciana, calamaretti saltati, carpaccio di alici e salmone, cozze gratinate, seppioline e ceci, una seconda ondata di cozze, vongole al pomodorino e altro carpaccio di pesce per concludere. E questo è solo l'antipasto. Mentre il mio stomaco inscena un primo sit-in di protesta, con tanto di bengala e razzetti puntati contro il colon, Teppista e Timidezza si avvicinano per conoscermi meglio. Non li vedo mai. A volte dimenticano persino di avere uno zio. Ci mettiamo alla finestra a guardare il mare limpido che scintilla luce, mentre le ganasce dei miei continuano a macinare in sottofondo. Zio, mi fa Timidezza, perché quel gattino sta li fuori a guardare il mare? Le ribalto la domanda. Secondo te aspetta gli amici o cerca qualcosa da mangiare? Mi guarda dubbiosa, con gli occhioni spalancati e non risponde. Secondo me sta lì e basta, sbotta dopo qualche secondo di silenzio. Zio, fa Teppista, secondo me mo arriva il trattore e sfascia tutto, pure il gatto. Perché il gatto vedi, è scemo, non si accorge nemmeno che viene la macchina. E registro tutto col telefonino per non dimenticare queste perle di saggezza. Arrivano i primi, a buffet: carbonara di mare, pappardelle con vongole fresche, risotto alla pescatora, spaghetti alla marinara, spaghetti allo scoglio, riso patate e cozze (in una teglia a parte), pennette al salmone e crema di zucchine. E per chi volesse favorire ci portano anche un po' della padella avanzata dal tavolo accanto: spaghetti tonno pomodori e olive. Lo stomaco invoca in ginocchio un cocktail a base di Citrosodina e Maalox, ma siamo solo ai primi per cui è meglio tener duro in attesa che arrivi il resto. A un certo punto mia zia se ne esce con la tragedia di Yara. Adolescenza, capirai, non vedeva l'ora. Parte una disquisizione al limite dello scientifico sul processo di putrefazione dei corpi e sulla decomposizione, ma più in generale. Mia zia inizia a parlare di nonni riesumati dalle bare, l'altra mia zia attacca con la sua lista di conoscenti defunti ritrovati ancora intatti dopo anni di sonno tombale. Su tutti lo sguardo severo di mia mamma che, da fan sfegatata di Chi l'ha visto?, ne sa sicuramente più lei della Sciarelli. Ma Dio c'è. A riportarci nel regno dei vivi ci pensano i camerieri con un ricco buffet di secondi: alici fritte dorate, calamari ripieni, gamberoni, cotolette di pesce spada, filetti di merluzzo, involtini di sogliola, polpettine di pesce. Per chi non ne avesse ancora abbastanza, polpettine di tonno, spigola (per tre) con patate e un delicatissimo tonno panato nel sesamo. Il mio fegato è invece panato nel calcestruzzo. Ho nello stomaco il carnevale di Rio e il 3-2-1 di capodanno nelle budella. A questo punto non serve nemmeno il Mister Muscolo. Ci vuole direttamente l'azoto liquido. E il conto. France', fa mio padre, guidi tu? Ho guardato in cielo e ho pregato il Signore. La sera rimaniamo immobili davanti alla tv. Inebetiti. La Littizzetto fa le sue battute ma noi nemmeno le capiamo. O forse i nostri muscoli intorpiditi si rifiutano persino di ridere. Vado a letto un filo appesantito e sogno delle cose che Tim Burton ci fa una trilogia. Poche scomode ore di sonno e arriva la mattina del lunedì. Si torna a Milano. Ginosa l’ho vista poco e niente, ma tutte le volte è così. Ormai conosco meglio l’aeroporto di Bari che il Poggio o le case nuove dalle parti della Asl. Preparo la valigia e saluto i miei. Me li abbraccio come sempre. Loro, malinconici, mi fissano con quegli occhi lucidi sempre sul punto di esplodere. Prendo lo zaino e mi avvio per le scale. Nemmeno al quarto gradino sento la voce di mia madre. E mi raccomando France’! Mangia!
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Nel paese c'è una lingua di fuoco e acciaio che le arde gli occhi, ha preso l'abitudine di portare con sé una bottiglietta di acqua borica e un pacchetto di garzine sterili. Le tira fuori dalla borsa comprata al mercato che fanno il sabato mattina in via Pier Giovanni Rizzo, se le passa sugli occhi quando le bruciano. Una mattina alla fine delle lezioni quando la sirena suona per l'ultima volta il professore di matematica e scienze le chiede se un giorno voglia raggiungerlo a casa sua per cena e che porti suo figlio Marco che è nella classe del professore e che se anche la scuola è cominciata solo da due mesi, “io li riconosco subito gli allievi attenti e volenterosi”, così le dice e lei, Carla la bidella delle medie Dante Alighieri se ne compiace, annuisce e abbassa gli occhi che sono due tagli verdi sulla pelle bruna, che sono torrenti seccati dal troppo esondare, li abbassa per un attimo sulla formica del banco da scuola che è tutta scritta e graffiata, il banco che è il suo posto tra i bagni e l'ingresso principale, “e suo figlio, se lo faccia dire, è uno di questi” conclude il professore di matematica e scienze il cui cavallo dei pantaloni, per come la vede Carla, la bidella, è sempre troppo basso e l'orlo gli va a finire sempre sotto le scarpe conferendogli un'aria trasandata che però non le dispiace. Come di qualcuno che uscendo di casa al mattino si dimentichi sempre qualcosa e un sentimento di tenerezza e protezione guadagna millimetri lungo le pareti del cranio della donna. La Panda nera è una scatola con i sedili di tela del colore della terra arida. A ogni cambio di marcia il polmone di metallo compie tre movimenti a cui Marco seduto al fianco di suo madre presta molta attenzione inarcando le sopracciglia, nel primo il polmone inspira tirando a sé la sequela di anni che hanno visto Marco rendersi conto che per giocare con il Vic 20 sarebbe dovuto andare a casa del suo amico M. perché quando a Natale ha chiesto ai suoi genitori un videogioco quello che si è trovato tra le mani è stato nient'altro che un affarino nero con un volante piantato nel centro nel cui interno correva un nastro di plastica sul quale erano disegnate delle sagome di automobili da Formula Uno, nel secondo movimento il polmone della scatola nera trattiene il fiato mentre la Panda attraversa il ponte che porta alla spiaggia di Campo di Mare e sotto di loro scivola la statale Brindisi-Lecce le cui carreggiate sono separate da arbusti rigogliosi di oleandro rosa, su un libro di scienze Marco ha letto che le foglie dell'oleandro hanno delle proprietà tossiche. Dalla sommità del ponte si vede la striscia di mare e sulla destra verso Brindisi la torre della centrale a carbone, quest'estate un gruppo di attivisti vi si è arrampicato fino in cima e vi ha scritto sopra con la vernice nera STUPID. Quando la madre gli sta accanto e stanno camminando lungo la riva di questo grigio mare meridionale, Marco tira fuori dallo zaino Invicta la macchina fotografica e prende la mira in direzione di un tronco bianco di una decina di metri steso obliquo sulla spiaggia molto vicino a quelle che i ragazzi della zona e anche lui chiamano le rupi, che sono un'alta e lunga parete di terra rossa che ha visto in innumerabili notti degli anni ottanta, da lontano, come i contrabbandieri abbandonassero in mare i loro carichi di Marlboro fatti arrivare qui dall'Albania e le loro sagome nere ritte sugli scafi, a tre, a quattro, sembrassero quasi poetiche. Della cena in casa del professore Marco e sua madre hanno parlato a lungo ridendo assieme seduti sul divano mentre guardavano i VHS dei film di Hitchcock e la luce della luna stendeva il suo glabro chiarore sopra la torre della piazza e sopra il resto del paese, dal palazzetto dello sport la cui costruzione era iniziata cinque anni prima e il cui completamento non si sarebbe mai visto perché le spinte che regolano le azioni da queste parti si vanno a perdere forza maggiore nel labirinto degli incartamenti comunali oliati da cospicue concessioni di denaro o di contro dalla loro sottrazione, da quella struttura di cemento che di notte ma anche di giorno pare abitata dai fantasmi quindi, alla masseria dell'ultimo pastore rimasto nel paese, un brutto affare d'uomo denunciato dalla figlia alle forze dell'ordine per percosse, agli inizi di luglio è finito sul Quotidiano di Brindisi perché dieci capre sottrattesi al suo controllo hanno pensato di porre fine ai loro giorni facendosi macellare dall'intercity Milano Lecce. A Marco il professore piace, mentre mangiavano lo sformato di patate avrebbe voluto avere a portata di mano la sua agendina per disegnarvi tutte le inclinazioni che assumevano le sopracciglia rade e fulve dell'uomo così attento a non perdersi nemmeno una di tutte quelle sfumature, accelerazioni, rallentamenti, pause e incrinature della voce della donna che gli stava di fronte e gli raccontava di come suo marito fosse stato tranciato, le gambe, la striscia rossa di sangue lunga venti metri, le scarpa destra mai ritrovata, la cinghia dei pantaloni, saltata via e rimasta intatta e questa cosa Carla non è mai riuscita a spiegarsela, ucciso da uno sconosciuto ubriaco in una sera di primavera. Quando scendono dal ponte che porta al mare, il polmone di metallo lascia andare fuori l'aria, sopra di loro il cielo è piatto, grigio e senza nuvole, tra non molto pioverà. E' successo appena l'estate scorsa, a Campo di Mare Marco ha conosciuto una ragazza di una città del nord che gli soffiava nelle orecchie con la bocca, gli diceva che dove sta lei le persone non vivono così tutte attaccate le une alle altre, che non sarebbe nemmeno immaginabile una cosa del genere, che gli avrebbe scritto e si sarebbero ancora detti delle cose sui pescatori che staccavano coi denti pezzi di polpo vivo, che vi avrebbero costruito attorno delle storie comiche o del terrore. La ragazza che vive nella città del nord non gli ha ancora scritto, la bidella Carla tiene entrambe le mani sul volante, si volta un attimo per guardare suo figlio, lo vede preso dai suoi pensieri, lo zaino colorato dell'Invicta sulle gambe, pensa, “fallo crescere”. Il mare adesso è più vicino, la luce è lattiginosa e s'infrange sul parabrezza, la bidella Carla solleva la mano sinistra dal volante, l'avvicina a sé, sul cruscotto c'è una busta chiusa, dentro ci sono i biglietti che il professore di matematica e scienze ha comprato per lei e per Marco, sono per il concerto di Vasco Rossi che viene allo stadio di Via del Mare, a Lecce. Per la prima volta da quando suo marito è morto Carla sente di poter nuovamente accogliere dentro di sé il seme della rinascita che la vita pare porgerle, con le dita della mano sinistra si sistema lentamente, trasognata, una sottile ciocca di capelli chiari dietro il piccolo orecchio, sorride, ma in un modo impercettibile, si dice “fallo crescere”.
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Ci sono luoghi senza importanza che non appaiono neppure nelle carte geografiche. Villaggi, contrade, frazioni o piccole località di mare abitate solo in estate. Dove ci capiti solo perché ti sei perso o hai finito la benzina. Entità trascurabili, soprattutto per le amministrazioni da cui dipendono: niente residenti, niente voti. Facile. Eppure per molti di noi rappresentano i luoghi dell'anima. Un buen retiro – a volte solo mentale - dove andare a far riposare i pensieri. In molti casi rimandano a certe estati dell’infanzia, a quella che è stata l’età della felicità. A volte invece li trovi per caso, guidando senza meta in cerca di certi perché. Il mio paradiso personale è a 25 km da Bari, a pochi passi dal blu dipinto di blu, un attimo prima di Polignano a mare. Si chiama Cozze, il mare mio. Cozze mare d’inverno è uno dei luoghi più silenziosi del mondo. Una cinquantina d’abitanti in tutto, poi solo gatti solitari e fruscio di onde mosse dal maestrale. Pochi pescatori, silenziosi anche quelli. Muti anzi, come il pesce che aspettano. La spiaggia è lunga e rocciosa, ognuno ha il suo angolo. C’è come un codice non scritto. Chi viene qui ama star solo, nessuno s’azzarda a disturbare anche se ti conosce da tempo. Siamo sempre gli stessi da anni, pensionati con le sdraio, poeti in cerca di ispirazione, amanti clandestini, sognatori come me. Eppure non ci siamo mai parlati. Basta un gesto del capo, un lampeggiare di fari. Ci si capisce così. Talvolta un pescatore ti allunga un polipetto appena arricciato, un riccio aperto, una tellina da succhiare. Tu ricambi con un sorriso. Allunghi un tarallino, un bicchier d’acqua, senza parlare. Nient’altro. D’estate cambia tutto, il mare si punteggia di barche, i bar sulla spiaggia si affollano, si accendono i juke box. E noi che ci passiamo l’estate da più di quarant’anni – sempre meno in verità, ma sempre più romantici - siamo quasi a disagio in mezzo alla gente. Si passa da cinquanta a cinquemila, e ci vuole tutta la pazienza. Organizziamo una resistenza tutta nostra, tenendoci stretti, baciandoci ogni volta che ci incontriamo per strada o sulla spiaggia. Restiamo attaccati al nostro scoglio e alle abitudini come le cozze nere, e da qui non ce ne vogliamo andare. Che i venticinque anni dell’usucapione sono passati da un pezzo e questo posto ormai ci appartiene per legge. Facciamo riunioni, ripercorriamo piccole storie di un tempo che fu per tenerci legati, ci incontriamo a cadenze regolari a mangiare focaccia e gamberetti crudi, per festeggiare il ritorno di qualcuno di noi. O salutare un altro che è partito per sempre ma in questo mare vuole restare, come cenere che un giorno diventerà conchiglia. Perché da certi luoghi non te ne vai mai, e i bambini che erano continuano ad abitare qui per sempre. E allora li vedi passare trent’anni dopo, con le moto grosse o con i suv, da soli o con la famiglia, con la barba o senza capelli, in cerca di quelli che hanno preferito restare. Attaccati col viso dietro cancelli che non gli appartengono più, o ad aspettare le Madonne che arrivano dal mare. Che poi vista senza sogni, questa Cozze non è questo granché. Il mare sì, ma le architetture sono un guazzabuglio senza senso, il litorale non è curato, il parcheggio è selvaggio, quando c’è. Prendi il nome che fa schifo per esempio, anzi è cozzalo proprio e fa arricciare il naso a quei viveur che se ne vanno a mare da Capitolo in giù. E allora meglio sarebbe cambiarlo dico io, o nobilitarlo addirittura. Chenesò Mitile, o Mitilos meglio ancora, che farebbe tanto Grecia. Tanto sempre Cozze vuol dire. Così ci metterebbero sulla cartina e forse pure sui cataloghi delle le agenzie. E chissà magari quelli famosi verrebbero a sposarsi qui, o a girarci un film. Indiani, principi, o forse George Clooney. Porterebbero i soldi, il sindaco aggiusterebbe le strade… Ma noi, noi che veniamo a Cozze da sempre, e che solo qui riusciamo a volare, noi non ci ritorneremmo più. E ce ne andremmo in Grecia per davvero.
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Poeta. Non è che un giorno ti svegli e dici “papà, voglio fare il poeta!”. Non è proprio come dire “papà, voglio fare il falegname, l’astronauta, il pensionato, il pompiere!”. No. Non è che accade così. Anche perché tuo padre t’avrebbe risposto “che cazzo dici, figlio! Questa città, San Severo, non è fatta per i poeti! O diventi ladro o diventi avvocato. O diventi un avvocato che entra in politica così provi a fare tutte e due le cose senza fartene accorgere!”. No. Non funziona proprio così. Anche perché a San Severo c’è un avvocato ogni 5 abitanti e non tutti sono delinquenti. È sempre tutto abbastanza complesso. No, non funziona così. E infatti forse funziona che prendi i tuoi sensi e parlo di olfatto, palato, tatto, udito, vista, ci aggiungi un’anima dannatamente condannata alla malinconia, quella dolce che non t’avvelena mai, ma che crea dipendenza, proprio quella roba che ti condanna alla speranza, mescoli bene e ci nutri la coscienza. S’inizia così, credo. A rotolare l’anima sui basolati di pietra lavica vesuviana. Come inizia il suonatore Jones, come inizia il bombarolo, come inizia la costruzione di un amore, come inizia il vento. E tu che sei una macchina fotografica, attraverso i tuoi filtri, i tuoi sensi, scatti foto. Scatti foto sui dettagli. Quelli impercettibili. E senza macchina fotografica, ma con le parole. S’inizia così. Per istinto di sopravvivenza. Davanti alla facciata della chiesa di San Lorenzo. Per partigianeria. Inizia una mattina che mentre te ne vai in giro per le strade della tua città, questa San Severo un po’ barocca un po’ gattopardiana, ti guardi attorno e cerchi di capire dove diavolo sei da anni. E perché. E ti chiedi che ruolo vuoi giocare. Il ladro? L’avvocato? O il politico? Ogni volta che si vota per le amministrative i candidati a consigliere comunale sono cinquecento, seicento. Una roba così. Una massa enorme di persone che non cambia mai niente. Un po’ per demeriti propri, un po’ perché la città è arroccata sulle proprie posizioni. Poi capisci che esistono altre strade. Capisci che puoi anche fare il ladro, puoi anche fare l’avvocato, ma tutto quello ti serve soltanto per ricaricare la tua tessera alimentare. Perché la macchina è molto più grande di te. E tu sei misera cosa. E l’unica cosa buona che ti resta da fare è essere te stesso. Sempre e comunque. Costi quel che costi. E fai il vento che spazza via quello che non sei. Mi volete ingranaggio?! Va bene! Ma se permettete ingrano a modo mio. La coscienza è la clitoride. L’anima ci gioca. I sensi sono attrezzi di lavoro, dell’amante. L’amante della vita. La mia, ma anche la vostra. È vero! Sì, è vero! A volte la coscienza e l’anima si scambiano i ruoli. Ma resta amore. E puoi farlo anche con un abbraccio. Puoi farlo anche con gli occhi. Puoi farlo con una pacca sulla spalla. O con una carezza. Puoi farlo facendo la spesa. Puoi farlo chiudendo un rubinetto mentre ti lavi i denti. Puoi farlo con le parole. Puoi farlo comunque solo in un modo. Con rispetto. Rispetto per l’altro. Perché l’altro è sempre cosa delicata da maneggiare con cura. E l’amore puoi farlo anche dicendo all’altro “non voglio fare l’amore con te”. O ancora “ho una gran voglia di fare l’amore con te, ma rispetto le precedenze, mi metto in fila, attendo quel che c’è da attendere. Cinque minuti. Due settimane. Nove mesi. Sette anni. Una vita, o due”. Anima e coscienza. Per non parlare di quello che fai con i fratelli e con le sorelle e t’importa una sega del legame di sangue, perché può anche non esserci, perché un fratello può essere anche chi fugge la morte e la trova ingoiando lamette e bulloni in un centro di permanenza temporanea. C’è poi qualcuno che l’amore lo fa anche con le parole. Roba da segaioli. Ma ce n’è e ce n’è tanti. I più bravi, e questi non sono mai loro stessi a dirlo, ad autodefinirsi tali, sono poeti. Non è che lo decidi, di essere poeta. Lo diventi. E, per giunta, te lo fanno notare gli altri. - Ehi! Sai che sei un poeta?! - Ma dai! ‘Cazzo dici?! Mi scappano troppi cazzi per essere poeta! - No, è che ci sai fare con le parole. - Ah, quello può essere. Riesco a metterle in fila. A farci collanine per quando ti trasferirai in Svezia. A farci diamanti che non potrò mai regalare alle mie donne. Certo, quello sì. - No, è che oltre a saperci fare con le parole, a metterle in fila, come dici tu, riesci anche a scuotere le coscienze, o le anime, o i cuori o le maniglie o quel che ti pare. Insomma, sei un terremoto. - Ah, dici quello?! Ma sai, quello non è proprio essere poeti. Quello è essere soprattutto se stessi, provare a esserlo, almeno. È che ho una gran voglia di strusciarmi addosso al tuo mondo, di passare per le tue dita, di sapere attraverso il contatto con te, lettore, amante sconosciuto, che esisto e che sto facendo meglio che posso il mio mestiere di vivere. - Non si direbbe, poeta. Sei il vento che spazza via l’aria stagnante. - Lo so. A volte anche non voler fare l’amore è un modo per fare l’amore. Perché sei roba delicata. Lo sei tu. Lo sono io. E lo è chi ci circonda. Siamo tutti robe delicate messe in relazione da equilibri che si evolvono. - Sono un po’ confuso. Mi hai confuso. Credo d’aver capito, ma non ho capito bene. - Lo so. Non credere. È che sei finito in questa storia quasi per caso. Per gioco. Tutti siamo finiti in questa storia quasi per gioco. Il fatto è che le storie servono per il futuro. E tutti abbiamo una gran fame di storie. Ci nutriamo di storie, ma qualche volta ci dimentichiamo che la storia siamo noi. Questione di tempo. Comunque. Cinque minuti. Due settimane. Nove mesi. Sette anni. Una vita, o due. Solo che sei a San Severo. Qua, dopo i terremoti, le facciate delle chiese vengono rifatte con le stesse pietre, le stesse pietre messe un po’ a cazzo. Sarà per questo che mi scappano sempre troppi cazzi. Poeta, bah! A San Severo se sei un poeta sei anche il matto, quello che lo trovi sotto l’arco della neve, dove c’era una volta un’edicola che vendeva caramelle ai bambini. Io sto là di solito, a custodire le radici dell’albero della libertà piantato nel 1799. Sto quasi sempre là a sventolare quella bandiera. Perché a me piace pensarmi vento. Il vento della sera, quello che prepara il giorno che deve ancora venire.
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“Mena, Signor To’, che domani arriva la truppa.” L’ironia è un piatto che va servito freddo. E lo si può assaporare con soddisfazione anche in perfetta solitudine. Dunque. La truppa sarebbe la troupe. La troupe cinematografica che domani arriverà qui al Castelletto, la vecchia residenza di famiglia che da qualche anno ho trasformato in un resort per milanesi in foia da Salento. “Signor To’”, invece, è Tonio Colazzo, uomo tozzo e grezzo, a cui però la vecchiaia ha almeno donato un fondo di dolcezza negli occhi. La sua Hostaria del Paradiso, ristorante pugliese di ispirazione slowfood (così dice lui agli avventori, quando si lamentano della lentezza del servizio) deve la sua sopravvivenza agli ospiti del Castelletto, che io mando a mangiare lì. Posso quindi dire che Colazzo è un mio dipendente, non in senso contrattuale, ma perché dipende da me. Trent’anni fa, invece fui io, Federico Nugnes Peluso, a essere per breve tempo un suo dipendente, in quel caso in senso stretto (ma anche allora, di contratti, nemmeno l’ombra). Ero uno studentello universitario viziato, e per qualche settimana feci il ragazzo di fatica al suo Hotel Paradise, uno sgraziato cubo di cemento, una specie di inconsapevole monumento all’insipienza turistica di quei tempi. Allora fu Colazzo a dirmi “Mena, che mo arriva la truppa.” Da qui l’ironia. La mia vita iniziò a cambiare proprio allora, in quel memorabile settembre dell’82, quando il cinema per la prima volta arrivò a Sprusciano. Molti anni dopo – qualche mese fa – il cinema è tornato a Sprusciano sotto forma di due “location manager” che – previo appuntamento telefonico – si sono presentati al Castelletto a bordo di una monovolume scura. “In questo paese hanno già girato un film, molti anni fa. Si chiamava 13 sotto il lenzuolo” dissi. Ma loro non diedero segno di ricordarsene, né mostrarono interesse. Ebbi la tentazione di insistere, di raccontare che razza di film era quello, di Lino Banfi, Johnny il Mostro e tutti gli altri. Ma poi avrei dovuto spiegare come e perché Morena Dani, quel pezzo di fica che attraversava la pellicola più nuda che vestita, era diventata mia moglie. E magari avrei dovuto parlare anche di quel tredici al Totocalcio su cui i miei compaesani non avevano mai saputo la verità. Così lasciai perdere. Ma poi, che pretendevo? Quelli erano tempi in cui la Puglia ancora puzzava, e il cinema pure. Cosa se ne potevano fregare quei due ragazzotti, coi loro mocassini e le loro camicie bianche fresche di aria condizionata? “Il film che dobbiamo girare è tratto dal romanzo di un autore pugliese” mi dissero, “uno di queste parti”. Fecero anche il suo nome, che lì per lì mi sembrò familiare, ma ora mi è passato di mente. “Il suo resort ci piace perché è un esempio di architettura tradizionale pugliese pressoché perfetto” aggiunsero. “Perfettamente falsificato” pensai io senza dirlo, ricordando quanti soldi e quanta fatica mi era costato ristrutturare quel posto perché sembrasse antico e autentico, ma al contempo confortevole come i miei ospiti pretendono. E per farli contenti mi tocca anche recitare la parte del campagnolo un po’ naïf, io che un tralcio di vite non l’ho mai tagliato in vita mia e che i soldi li ho fatti con certe operazioni immobiliari e con la borsa. “Però il paese non è gran che” risposi allora. “Le scene in paese le giriamo altrove” mi spiegarono. “Questa zona ci interessa per il mare”. Pensai che il cinema era finzione, ma che anche la mia vita, quanto a falsità, non scherzava. Mi chiesero di accompagnarli nei sopralluoghi sulla costa. Li portai all’Italiana Carburanti, la pompa di benzina col baretto dove da ragazzi io e Donato ci bevevamo delle Raffo pensose. All’altro lato della strada c’era una fila di alberi, una spiaggia e poi il mare, e oltre il mare si vedeva la città, lunga lunga, che riposava fra mare e mare. I due confabularono a bassa voce. Colsi distintamente solo la parola “postmoderno”. Poi uno indicò a sinistra, dove la città cedeva il passo all’immensa zona industriale e disse con tono stentoreo “Questo va tutto via!” Non mi stupii troppo: di film girati in Puglia, negli ultimi anni, ne avevo visti parecchi, e sapevo che il più delle volte la mia terra ne usciva fuori un po’ troppo idealizzata. Non c’era niente di male, in fondo. Non è di un cinema più realistico che si sente il bisogno qui, ma di una realtà più presentabile. Poi, i “location manager” si fecero accompagnare all’Isola SoLitaria, il lido più esclusivo della zona. “Arriva la truppa?” Tonio Colazzo mostra segni di umanità. È nervoso per l’imminente picco di lavoro ed eccitato dalla prospettiva di buoni incassi. Ma al di là di tutto, si vede che il ricordo della prima truppa, di quello sgangherato film girato nel suo albergo più di trent’anni fa, un po’ lo intenerisce. “Vi ricordate, Signor To’?” lo incoraggio. “Le risate…” risponde lui. Che allora era sempre incazzato. Ma si sa, le cose vanno così, e il tempo, oltre agli occhi, addolcisce anche i ricordi. “Secondo voi era meglio allora o era meglio mo?” gli chiedo, offrendo una sponda al suo prevedibile qualunquismo. Ma lui, in parte, mi sorprende: “Federì, che ti debbo dire… Prima eravamo giovani, mo siamo vecchi”. “Tenete ragione, Signor To’” rido. Troppo spesso disprezziamo ciò che ci sta intorno, senza accorgerci che a peggiorare siamo noi. Sia come sia, meno male che c’è sempre il cinema. Domani arriva la truppa, e io mi sento ancora giovane. GIULIANO PAVONE www.giulianopavone.it #giulianopavone #13sottoillenzuolo #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
Si stonavano col fumo dell’Americano, dentro una Charleston rossa e nera con la cappotta sbrindellata e il motore dal fiato sempre più corto. D’estate come d’inverno, l’appuntamento era alle tre in punto in via Giovanni Pascoli,davanti all’Istituto delle Suore Discepole di Gesù Eucaristico. Chi arrivava in ritardo pagava pegno: caffè e stravecchi al bar di Esaù, il posto più fieramente equivoco di San Pietro, sordido ricovero per alienati di ogni sesso ed età. Il rito cominciava così, ogni pomeriggio, e andava avanti da quelli che Mimino avrebbe definito “I Tempi dello Sviluppo”, cioè più o meno da quando i tre avevano messo un po’ di pelo e i discorsi sul magnete che hanno le donne in mezzo alle gambe erano diventati profondi quanto quelli intorno ai superpoteri di Sócrates e Karl-Heinz Rummenigge. L’Americano – barba e capelli rossicci pettinati indietro, esangue e scavato dall’ero fino alle ossa - si chiamava Franco ed era del rione Crucicchia. Poche parole e contanti sull’unghia, custodiva le leccornie nelle tasche del suo giubbotto di jeans logoro, annerito da mille battaglie. A sentire il rude bramino Esaù, quello era un esemplare di tossico viaggiatore che aveva visto le strade di San Francisco e i giardini botanici di Calcutta, le montagne dell'Alto Atlante e i buchi del culo degli asini selvatici mongoli. «Mica come voi, che con quel rottame lì è tanto se arrivate a Mesagne.» L’Americano si portava dietro un tascabile ingiallito senza copertina. L’Americano diceva che quello era il suo libro preferito, scritto da un tizio che si chiamava Kilgore Trout. L’Americano aveva introdotto Mimino, Vito e Luciano alle meraviglie dello sciroppo per la tosse miscelato con acqua Sangemini e tre dita di Stravecchio Branca. Poi erano arrivati l’Olio Santissimo di Charas, il Libano Rosso, lo Sputnik del Marocco e altre ghiottonerie per giovani marmotte psiconaute. La prima volta con l’olio, Vito era entrato in contatto telepatico con Mister Volare che, dall’eremo sotto il sole africano di Lampedusa, gli aveva espresso il suo più cocente rammarico: perché la bonanima di Sid Vicious aveva omaggiato Sinatra e Modugno invece no? «Mister Volare» aveva farfugliato dopo una pausa stupita. «Cioè, non posso crederci... è stato un onore, cazzo... il più grande cantante della storia ha scelto me per mandare il suo messaggio al mondo!» La sera dopo, passata da un pezzo l’ora di cena, avevano parcheggiato la Charleston tra due cumuli di immondizia, in un vicoletto buio dietro il vecchio mercato coperto. «Accendino e cartine, please.» ordinò Mimino. «Prego, Monsieur. Desidera altro?» «La tua bocca a cuoricino su ‘sta fava, servo!» Indicando l’insegna malridotta della Macelleria Caraballo, Luciano se ne era uscito con la storia che proprio lì, prima che la famiglia di Nunzio Caraballo aprisse la sua bottega nel 1959, c’era stato un bordello rinomato in tutta la provincia: «Crocerossine, sapunare, lattare canaglie, vacche pezzate... tutta carnazza di prima scelta», aveva aggiunto con un ghigno. «All’epoca mio nonno si era fatto l’abbonamento.» «Tuo nonno andava a puttane?» «Regolare.» «E tua nonna che diceva?» «Vito, tu tieni il cervello lesionato, senti a me. Ti pare che quando rincasava mio nonno prendeva da parte la vecchia e si metteva a raccontarle le zompate che si era fatto?» «Ah, no?» «Le parlava della campagna e punto. Al massimo un culacchio scappato di bocca al cugino arciprete.» Mimino tirò una boccata avida dalla tromba, trattenne il fumo nei polmoni e scosse la testa. «Bella pezza il reverendo. Dice che ci aveva la femmina a Sandonaci, divorziata e comunista.» «Lu santu puercu!» Un rombo greve spense la chiacchierata. Luciano si era messo a trafficare con l’autoradio, in cerca di una stazione con un po’ di musica decente. Saltava da una frequenza all’altra, imprecando per tutta quella disco music da ricchioni alternata a folk tuturanese. Stornelli, quadriglie e canti di protesta in vernacolo lo mandavano in depressione. Il fumo più verde ed esageratamente onesto del cosmo invece si sposava bene con le canzoni dei Doors o di Santana. Al massimo con Hotel California degli Eagles, un grande pezzo su un fattone che vagava nel deserto e poi non si sa come si ritrovava a dormire a casa del diavolo. Onnedarkdesert-haiuei, cuul-uindinmaieir... «Fermo, Lucià... spegni un secondo.» «Che è?» «La fessa te mammata.», sibilò Mimino. A un cenno di Vito, che nel frattempo aveva puntato il naso contro il finestrino del passeggero, i due compari tacquero di colpo. Un riverbero blu elettrico invase l’abitacolo. In quell’istante il cielo tuonò ancora. Il botto fece sussultare la vettura. Sembrava il fragore di una marea crescente, il ruggito sguaiato di un mostro giapponese alto quanto un palazzo di dieci piani. Alto, grosso e con le palle girate. «Guardate là.» «Dove?» «In... cielo.» L’astronave si stagliava maestosa sopra le terrazze, quasi sfiorava le estremità delle antenne tv che a quell’ora diffondevano in molte case Colpo Grosso, con Umberto Smaila e le ragazze ananas, fragola, mandarino, limone, kiwi, ciliegia e mirtillo. Era enorme, la sua sagoma oscurava cielo e stelle. La fusoliera recava i segni di scontri interstellari all’ultimo raggio fotonico. Larghi bozzi erano la testimonianza di una mischia recente con uno scroscio di meteoriti a sud-est di Venere. Era smisurata. Sembrava fatta di porfido e acciaio. Un'astronave da film di fantascienza. Su San Pietro Vernotico. «Metti in moto, Mimino. Gira la chiave e squagliamoci.» supplicò Vito, occhi sbarrati e capelli dritti in testa. «Aspe’...» «Oh, sto parlando con te.» «Ma non mi cacare il cazzo!» Luciano pareva imbambolato, perso chissà dove. Davanti a loro si era alzata una bruma rossastra che sembrava fatta di puntini luminescenti. Bagliori irregolari piovevano dalla pancia dell’astronave e si riflettevano sulla tappezzeria della Charleston. Dalla foschia emerse una figura spettrale, avvolta in un mantello di raso color sorbetto al pistacchio squagliato. La videro alzare le braccia al cielo, i palmi giunti in atteggiamento di solenne preghiera, e bofonchiare qualcosa che non riuscirono a comprendere. L’Americano. Era lui, nessun dubbio in proposito. Mimino aprì lo sportello e mise un piede fuori. Piano, con cautela. Quello lì aveva un’aria da pazzo. «Franco, ma che suc... » «Chiamatemi l’Astronauta Errante.», disse l’uomo col mantello. «Ci hai una Marlboro?» Mimino scrollò la testa con decisione: «Mi spiace, finite.» «Vabbe’. Ma lasciate che vi dica una cosa, fratelli: Kilgore Trout aveva ragione.» «Eh?» «L'universo è grande, è forse il luogo più grande che ci sia. E ci sono pianeti dove noi non siamo mai andati.» «Fran... » «L’Errante. Io sono l’Astronauta Errante, tenetelo bene a mente.» L’Americano si voltò e, senza aggiungere altro, scomparve nella nebbiolina puntiforme. Quando il veicolo spaziale divenne una capocchia di spillo nel cielo circondata da lampi blu, fu la voce di Vito a ridestare gli altri due. «Em-mmiiin-chia, vagnù!» Aveva la faccia stravolta, e un ciuffo di capelli bianchi nuovo di zecca che gli pendeva sul naso a patata. Mimino si fece il segno della croce e rientrò in macchina mentre Luciano estraeva meccanicamente dalla tasca il nécessaire per un’ultima canna. «È tutto sbagliato», biascicò leccando la cartina. «Tutto profondamente sbagliato.» Un mese più tardi, anche i tre amigos partirono per non fare più ritorno al paese natìo. Scapparono insieme, direzione Haarlemmerstraat, Amsterdam. E, contro ogni sfavorevole pronostico di Esaù, la vecchia Charleston resse egregiamente per qualcosa come 2091.8 chilometri. NINO G. D'ATTIS Pagina "GrandiSorelle" #ninogdattis #grandisorelle #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
- Ogni giorno quella vecchia passa da qui, si porta dietro il borsone colorato, una sediolina da regista tutta scassata e si ferma vicino alla riva Sara segue l’indice puntato di Marco, arrivando a inquadrare una donnina rattrappita, con un costume intero blu scuro e una cuffietta di gomma con i fiori d’altri tempi sul capo rinsecchito come il resto. - Non si dice vecchia, si dice anziana - Giovane non è, il concetto è lo stesso. E’ più di là che di qua e secondo me è pazza - Secondo me sei scemo - Vuoi una birra? Certo, la birra. Insieme a serata, Facebook, lampada, è una delle parole in uso del suo amico. Come Baby Mia e le sue poche frasi, così è Marco. I piedi immersi nella sabbia calda e soffice di Marina di Pulsano, Sara cerca di non pensarci, come sempre ormai. Le giornate si trascinano lente e uguali, ad aggiungersi solo qualche affanno, non c’è futuro nella sua testa, troppo nulla, troppa paura. Marco è uno degli amici di una vita, uno di quelli che frequenta quando la necessità di non pensare diventa più forte. Per lo stesso motivo quel pomeriggio è a mare, nella splendida spiaggia di Lido Silvana a blaterare con lui del niente e a guardare una vecchina strampalata. - Andiamo via? Ormai il sole non abbronza più, inutile restare - Già perché a mare si va per abbronzarsi - E certo! Dai andiamo così riusciamo a riposare prima di uscire stasera - Vai tu, io resto ancora un po’ - Ok nonna, ci sentiamo dopo Niente di meglio che gustarsi da sola quel tramonto, il sole rosso che affonda nel mare e lascia una scia dorata, lussuriosa, con le onde che finiscono a carezzare il bagnasciuga. Un martedì pomeriggio di settembre come tanti, la spiaggia si libera dei patiti dell’abbronzatura e restano lì una giovane donna e una vecchina. Sara non può fare a meno di guardare con curiosità quel culo floscio che si alza dalla sedia rossa strappata da un lato, a pericolo che si ammazza quella nonnetta dal capo fiorato. Con le gambette magre cammina a scatti verso la riva, bagna i piedi doloranti di un cammino che si trascina da anni e punta due occhi acquosi verso Sara - Ei tu, che vuoi? - Dice a me? - Si a te. Non vedo altri qui. E’ andato via quel coglione del tuo ragazzo? Sarò anche vecchia ma non sorda - Mi scusi signora, non...non è il mio ragazzo - Però è un coglione? - No, cioè sì, a volte... Ride Sara, ride la vecchia, che si avvicina alla borsa verde improbabile e prende una bottiglia di Lemonsoda. - Vuoi una limonata? - No grazie non si preoccupi - Ho i bicchieri puliti, quelli di plastica Si sente imbarazzata Sara, per levarsi di dosso la tristezza dice sì, si alza e va verso la vecchia, prende il bicchiere e brindano con una Lemonsoda - Piacere Florinda - Piacere Sara - Come la piccola principessa. Che ci fai qui tutta sola? - Niente. Guardo il mare - E ti sembra poco? Qui a Pulsano abbiamo le spiagge più belle del mondo. Che fai nella vita? - Aspetto - Cosa aspetti? - Che qualcosa arrivi... un lavoro vero, un amore vero, un figlio un giorno... una vita insomma - E lo aspetti qui tutta sola? - No. Lo aspetto in compagnia di buoni a nulla come il tipo di prima. La solitudine mi fa paura. Ma non aspetterò ancora tanto in questa città che non mi merita. Voglio partire - Dove vuoi andare? - Australia, Polonia... tutto è possibile, lontano da qui comunque - Povera sciocca – la vecchia posa il bicchiere e prende un quaderno logoro come tutto il resto dalla sua borsa. Ignora Sara e la sua rabbia che sale dopo un insulto caduto da quella che fino a qualche secondo prima le era sembrata una dolce nonnina. - Come si permette? - Mi permetto perché lo sei sciocca. Toh, guarda qua io vado a riposare questi poveri piedi nell’acqua. Povere orecchie mie, cosa mi tocca sentire Sara è scossa dai nervi, tra le mani il quaderno con la copertina blu consumata. Il vento lo apre e si ritrova davanti ad una ragazza con un sorriso impertinente, strizzata in un costume intero fiorato, con occhi chiari che la scrutano tra i quadretti del foglio. Il bianco e nero della foto mostra un mare da film d’altri tempi, bello da togliere il fiato. Sotto una didascalia “Marina di Pulsano/primo amore/bagliore”. Quella ragazza torna in un’altra immagine, dietro di lei una Chiesa “Chiesa Santa Maria La Nova/grotta di Lourdes/a Pulsano son stata miracolata”. Altra Chiesa, stessa protagonista, stessi abiti. “Chiesa della Confraternita del Purgatorio/venerdì santo/processione dei Misteri/mistero del mio amore”. Sara sposta lo sguardo sulle gambe vecchie ad ammollo e le riconosce nei tempi migliori delle foto di quell’assurdo quaderno. Un’altra Chiesa fedelmente bianca anche nei colori di allora, lei, la stessa, mostra l’anulare, forse c’è un anello, dettaglio che la tecnologia di un tempo non restituisce “Chiesa del Ss.mo Crocifisso/bianco/amore puro”. Sara chiude il quaderno, ha fretta di andare, via dai ricordi nostalgici che puzzano delle case dei nonni soli nelle giornate d’estate. - Dove vai? Non vuoi sapere come va a finire? La sua voce ad un tratto è dolce e infantile. - Non c’è un inizio, cosa deve finire? - Appunto – con un gesto frettoloso le indica di proseguire Pur di non tornare a casa con lo scrupolo della nonnetta Sara torna a sfogliare le pagine. La foto mostra solo la mano, l’anello nuziale in primo piano, da sfondo l´orologio da torre “Il nostro tempo”. La giovane ride in abito da sposa, dietro il castello “Castello De Falconibus/la favola/la principessa è stata trovata”. Torna la spiaggia, la ragazzetta dalle gambe tozze e secca ha la testa fasciata da un fazzoletto, dietro una torre “Torre Castelluccia/non servono difese se c’è amore/non servono difese se c’è mare”. L’ultima foto e Sara ha un tuffo al cuore “Molino Scoppetta/ti aspetto amore mio”. Racconta un tempo in cui quel posto viveva, nessun interesse culturale, solo gente che lavorava. - Adesso devo andare, si è fatto tardi - Aspetta. Hai capito? - Non saprei, cosa c’è da capire? Sara lo sente, Sara lo sa, Sara vuole solo non pensare. - Leggi questa – le indica una lettera ingiallita dal tempo “Caro amore mio, esiste un paradiso che non sia questo mare? La sabbia soffice, l’acqua cristallina, le tue labbra salate. In questo piccolo mondo mi perderei, in te mi sono persa. Per sempre tua, Florinda” - La storia è questa: ci siamo innamorati. Io non ho esitato un attimo a seguirlo qui a Pulsano (sai sono del Nord io), ci siamo sposati, amati, neanche un figlio questo stupido ventre sterile. Lui amava fotografarmi. Un giorno guardando quelle foto mi disse ‘sai Florì, fai risplendere Pulsano come se fosse la più bella’. Qualche anno d’amore ci concesse il Signore, poi lui andò a miglior vita. Io non ho mai pensato di andare via, anche se la mia famiglia fece pressioni per farmi tornare ‘che ci fai là tutta sola, neanche un figlio’. Io ormai ero innamorata. Ma tu che vuoi andar via, tu la vedi quanto è bella? Che la mia carne vecchia non si stacca da questo mondo per restare ancora un po’ qui a guardare l’immenso di questo mare”. Sara guarda quegli occhi acquosi, umidi di vitalità che lei sembra aver perso. Guarda il mare, la sua terra, ripercorre con gli occhi dell’amore le sue strade, nello stomaco si sente il fuoco. - Mi fai una foto con quell’aggeggio? Sara ormai non si chiede più perché, il suo iPhone con le orecchie da coniglio inquadra una vecchia in posa nel mare splendido e clic. - Tieni finiscilo tu questo - Ma no signora è suo, tenga - Finiscilo tu, io non ho più il tempo Sara torna a casa, il quaderno scotta, anche la fronte, ha la febbre. Il giorno dopo Marco la chiama per andare a mare, lei è nel letto e non ha voglia di rispondere. Un messaggio arriva sul telefono “Sai Sarè, la vecchia pazza è morta. L’hanno trovata sulla riva, piena di alghe e conchiglie, con una faccia da beota”. Sara si alza dal letto, va a stampare la foto di Florinda, non stampa dai tempi del rullino. Quella vecchia pazza è bella su quella carta lucida, intorno a lei un mare azzurro. Sara la attacca sul quaderno all’ultima pagina. “Pulsano 2014/Amore mio torno da te/Amore mio mai me ne andrò”. ALESSANDRA MACCHITELLA chegenerediblog.wordpress.com #alessandramacchitella #donnetralerighe #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
Rivedersi dopo oltre vent’anni con amici che non hai più cercato. Di giorno basterebbero pochi minuti per un saluto di circostanza, ma di notte è un’altra cosa. Di notte Bari può catturare e trasformarsi in un irreale cinema della memoria” G.Carofiglio Il campanello squillò, una, due volte. Viola guardò l’orologio sulla parete, le 23,30. Uscì sul terrazzino, l’aria era ancora umida di pioggia, mista all’aroma dei gelsomini che si arrampicavano al muro antico, pieno di crepe, dove avevano dimora le piante di capperi. -Fabio, che ci fai qui a quest’ora?- -Scendi, c’è uno scoop che ti prendi la prima pagina.- -Ma, piove, è tardi- protestò lei. -Muoviti, vuoi fare la giornalista? Ecco impara che le notizie non ti arrivano alle nove del mattino sulla scrivania.- Viola rientrò, prese una felpa che si buttò sulle spalle e scese. -Dai sali.- Fabio le allungò il casco. -Ma dove dobbiamo andare?- -Monopoli, Marco ha avuto una soffiata, stasera arriva un carico da mille e una notte.- -E tu con quello in testa te ne devi venire?- lo apostrofò Viola alludendo al cappello Panama che Fabio indossava. La città era stranamente vuota per colpa del temporale, la strada scivolava via veloce e l’asfalto liquido assorbiva le luci dei lampioni. Alla Vela giocavano a carte. Il grande teatro se ne stava nero e triste, come un eroe vinto. Il Dona Flor chiuso. Da tanto tempo. Restava l’aroma di un Alexander sulle labbra. Cacao al posto di noce moscata. Così li preparava Fabio. Perché a lei piaceva non troppo speziato. Sul lungomare Viola osservava il profilo di Bari distesa alle sue spalle, in quel bagliore argenteo, tra la cattedrale e il faro. Un cartellone pubblicizzava il programma estivo all’Arena dei Riciclotteri. Il mare era inchiostro nero, stranamente tranquillo, al di là dei frangiflutti. -Perché Marco non ci ha aspettati?- domandò lei, alzando la visiera del casco. -Perché Mal herba sta con quelli, fa l’infiltrato- rispose Fabio allungandole la Polaroid -Tieni questa- aggiunse. Viola chiuse un attimo gli occhi, nell’incoscienza dei loro vent’anni, di chi pensa che la vita sia un gioco, una partita a monopoli, un poker e che in qualche modo fossero capaci di giocare anche la morte. Gli anni delle telefonate dalle cabine pubbliche, quando non c’erano cellulari e macchinette digitali. Nella polverosa biblioteca di Santa Teresa dei Maschi scovarono quei bizzarri soprannomi, mesi prima, quando lei e Marco iniziarono a collaborare con un giornale locale. Marco era Mal herba, Fabio Mal Tempo e Viola Scarciofola. Le vie della città vecchia, il dedalo, un intricato labirinto che per non perderti dovevi esserci nato, e Fabio lì era cresciuto, tra il sagrato di San Nicola e il porto, tra le leggende che erano favole per far star buoni i piccoli, come l’isola di Monte Rosso o la “cape du turche”, finita sotto il balcone di una casa di Strada Quercia numero 10. La città vecchia, di gente semplice e forte, di donne che facevano le orecchiette, vicino al castello, sotto l’Arco Basso, e l’uomo del ghiaccio, che con il motore, la sera portava secchi congelati agli ambulanti abusivi che vendevano la Peroni sul lungomare e Finella che friggeva le sgagliozze e il sale brillava sulle fette di polenta fritta. La città vecchia di chiese e di santi, di Madonne agli angoli del cuore. E le sere d’inverno ai tavoli del Maltese si raccontavano storie, racconti, leggende. Come bugie di pescatori e sogni sul pentagramma, lenzuoli in sanscrito. La strada correva via veloce. Torre Incina. Zona Polignano-Monopoli. La torre se ne stava silenziosa al limitare della baia, arrivarono a piedi attraverso un campo di erbacce alte, in equilibrio precario tra la notte e le cicale. -Vedi?- bisbigliò Fabio indicando un punto impreciso nel buio. -Cosa?- -Ecco.- Una luce sulla spiaggia rispondeva a un codice, una luce flebile sul mare. Poi avvenne tutto velocemente, un motoscafo, le casse di sigarette di contrabbando e tante persone, mezzi blindati, come sul set di un film. Improvvise, venute dal nulla sirene spiegate, forze dell’ordine, qualche sparo. -Scatta, scatta- diceva concitato Fabio. -Andiamo, via, corri.- -E Mal herba?- -Corri, sa badare a se stesso.- La corsa nella notte con il cuore in gola, le stoppie che ferivano le gambe nude. Cadere e rialzarsi. Poi la corsa a ritroso. Rientrati in città fermi da Cesare. I ragazzi compravano i cornetti. Le due del mattino. -E Marco?- chiese ancora Viola. -Abbi fede- rispose Fabio. Seduti sui gradini della chiesa a scrivere l’articolo, tra briciole e zucchero sulle guance. Le tre. Il rumore di una motocicletta. -Mal herba- dissero in coro. Marco si tolse il casco era fradicio, si era buttato in mare nel caos generale. Si abbracciarono. -Ragazzi ma una sigaretta ora me la fumerei.- Scoppiarono a ridere, mentre portavano al giornale il loro scoop. Poi un passaggio ponte con un traghetto per la Grecia e urlare in faccia al mare che avevano vent’anni, e l’azzardo alla vita l’avevano fatto, corteggiando la morte. Vent’anni dopo, un cartellone pubblicitario annunciava il programma estivo all’Arena dei Riciclotteri, alla Vela si giocava ancora a carte, e al Maltese ci si raccontavano storie, racconti e leggende. Nella città vecchia il piano Urban aveva dato vita alla movida notturna, tra locali e pub, e i giovani scendevano dalla “town” di Poggiofranco per incontrarsi. Viola entrò nel locale rinato vicino al grande teatro. Anch’esso risorto. -Posso avere un Alexander con il cacao?- domandò a un cameriere. -Devo chiedere- l’uomo si allontanò e lo vide parlare con un altro uomo vicino al bancone, che alzò lo sguardo su di lei, scosse la testa e sorrise. Viola si avvicinò. -Mi hanno fatto una soffiata- disse abbracciando Fabio. -E, immagino quale giornalista sarà stato- rispose lui. Marco si avvicinò: -Avete da accendere?- Poi la notte se li portò via, seduti sui gradini di una chiesa, tra briciole e zucchero, la loro storia personale da raccontare di quella notte. Seduti alla Taverna del Maltese. Mai stanchi di ricordare. -Sapete dove vorrei andare?- disse Marco. -Alla Torre?- disse Fabio. Pochi minuti dopo erano sulla strada, l’aria entrava dai finestrini, un vento caldo che accarezzava la pelle di Viola. Mezz’ora sulla 16 bis. Restarono per un po’ seduti sulla spiaggia a guardare le onde. L’alba era ancora lontana. -Facciamo il bagno- disse Viola. Il tempo era un’equazione fatta tra la vita passata e quella futura. In equilibrio perfetto quell’attimo di presente. Vent’anni dopo. E alla radio una canzone ... Serenella coi soldi cravatte, vestiti, dei fiori e una vespa per correre insieme al mare. Al mare di questa città alle onde, agli spruzzi che escono fuori dalle nostre fontane. E se c'è un pò di vento, ti bagnerai, mentre aspetti me al nostro caffè. A. Minghi CRISTINA CARDONE www.lasignoradellapioggia.blogspot.com #cristinacardone #brichét #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
Quando arrivò a Galugnano Ahmed aveva solo dieci anni. Era partito dal Marocco, con la madre e il fratello maggiore Said, a bordo di una navicella che cadeva a pezzi. La sua è una storia come tante, una dura realtà di gente che s’è quasi ammazzata per approdare nel Bel Paese. Partire un bel giorno a cercare fortuna. Partire e forse non tornare mai più. Suo padre era morto poco più che adolescente, e da allora l’intero peso della famiglia gravava sulle spalle di sua madre Naima, una bambina pure lei. Ma Naima era morta in mare, insieme a tanti altri sventurati, quel maledetto giorno in cui s’imbarcarono. Così Ahmed e Said erano rimasti soli, i parenti tutti lontanissimi, gli amici poco più che un ricordo. La prima volta che c’incontrammo, io mi presentai con tono ufficiale, come fossi un ambasciatore: «Piacere, il mio nome è Mario Lazzi», tanto che Luigi, mio cognato, uno molto giovanile, mi prese in giro: «Ma chi minchia è che parla così! Non stai alla televisione». I due ragazzini mi guardarono fiduciosi. Said serio serio. Ahmed mi sorrise. La prima cosa che Ahmed vide, prima che all’orizzonte gli si parasse il mio paesucolo, fu la minuscola murgia galugnanese, che qui chiamiamo Li Caggiuni. Brullo e pallido, il piccolo rilievo apparve brulicante di vita a quel bambino venuto dal deserto. Me lo confidò Said in una delle sue rare concessioni alla chiacchiera. Sì, per Said il solo riferire qualcosa all’insaputa del fratello, fosse anche un’innocua bazzecola, era quantomeno inopportuno. Adesso Ahmed ha venticinque anni, e Li Caggiuni sono la sua seconda casa. Ahmed di mestiere fa il venditore ambulante di vestiti. Insieme a Said si sveglia all’alba per caricare il furgoncino e partire poco prima delle sei. Delle volte mi capita di passare a piedi davanti a casa loro, e allora sento i due fratelli intonare cantilene che a me paiono preghiere. Hanno voci profonde e suadenti, che mi portano alla mente certe litanie di stampo ferrettiano. Altre volte trovo Ahmed sulla porta. Mi fa segno e mi dice: «Ciao amico, come sta oggi il cuore?». Già, mi domando io, come sta oggi il mio cuore? Me la cavo con un «Tutto a posto», e lui mi sorride. Mi viene da pensare se sia poi così ingenuo da non capire che la mia è solo una frase di circostanza. Ma di tempo per scervellarmi con queste pippe mentali non ne ho. Qui siamo sempre di corsa, ché bisogna portare a casa la pagnotta. Anch’io faccio l’ambulante, però non vendo vestiti come Ahmed. Io c’ho un alimentari. Vendo salami, mortadelle, olive, sarde, cose così. Sistemo la mia bancarella al centro di Piazza Vittorio Emanuele ogni santo mercoledì. Il mercoledì è il giorno che tocca al mio paese, ché non sto nel basso Salento. Giorno ricco, si fa per dire. Ahmed e Said piazzano la loro bancarella di fianco alla mia. Said è sempre serio, Ahmed mi sorride. Devo essere sincero: più di una volta avrei voluto dirgli “Che cazzo c’hai da ridere!”, ma mi sono trattenuto. Non per educazione, no. Avevo capito – anche se non volevo accettarlo– che lui era felice così, con quel pochissimo che aveva. Allora guardavo in basso. Miravo al basolato, che nel punto dove mi piazzavo io con la mia baracca si trasformava in un bel gallo. Lo stemma di Galugnano. E proprio il gallo fissavo, un po’ stranito. Io non ero felice con quel poco che avevo. Io volevo di più. Mi sembrava una cosa giusta volere di più. Una cosa per la quale il fior fiore dei comunisti di mezzo mondo s’era spaccato il culo. Ma adesso è tutta un’altra cosa. Adesso non va bene un cazzo di niente. Tutti a volere tutto per loro stessi, altro che Comunismo. Io per primo. Lo confesso. E confesso che almeno una volta ho pensato – sì una merda di volta l’ho pensato – che Ahmed e Said m’avessero rubato la piazza. Che idea stronza! Loro vendono vestiti e io salami. Due cose che non c’entrano una mazza. Eppure l’ho pensato. E me ne vergogno. Dopo quella volta, però, non l’ho più pensata una cosa tanto fiacca e leghista. Ahmed e Said sono diventati amici miei. Ma amici amici, non tanto per dire. Ahmed l’ho perfino portato avanti nella lista civica “Noi per voi”. Lista che pendeva a sinistra, ovviamente. E qualche voto l’ha pure preso, ché a Galugnano sta simpatico a molti. Nonostante i soliti facinorosi. E nonostante suo fratello ripetesse a manetta di voler costruire una moschea di fianco alla chiesa dell’Annunziata. «Quisti su’ pacci» commentò Angiolino, fruttivendolo. Pure lui ambulante. Non poteva concepire, nemmeno col pensiero, che all’Annunziata si accostasse una qualsiasi altra costruzione. «Era meju fazzanu le strade» sbottò Tommaso, il meccanico, indicando una ad una le buche sull’asfalto. Ma poi la storia di Ahmed assessore si risolse nel nulla, e buonanotte ai suonatori. La vita di Ahmed è divisa tra la piazza, Li Caggiuni e la Scaliddhra, una discesa dalla pendenza pazzesca in direzione della vecchia strada per Caprarica. Quando non caccia fuori la bancarella coi vestiti, Ahmed fa il bracciante a ore. Sempre al lavoro. Sempre. Almeno io, per mangiare, faccio una cosa sola. E quando smonto tutto e torno dal lavoro, a casa ci sto al massimo un’ora. Vado al bar e mi bevo un paio di bicchierini. Almeno questo. Sennò uno che campa a fare! Verso le cinque del pomeriggio Ahmed è di ritorno dalla Scaliddhra. A quell’ora io sono al bar. Lui mi vede da lontano e mi fa un cenno con la mano, sempre sorridente. Poi urla per tre volte al mio indirizzo «Mario, Mario, Mario», quasi cantando. Ecco, penso, il sorriso di Ahmed vale tutta una vitaccia. E vale tutto un paese. GIANLUCA CONTE glucaconte.blogspot.it #gianlucaconte #caniacerbi #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
Chi vive lontano lo sa. Chi vive dentro lo ignora. Un paradosso? No. La vita. Per capire bisogna ricordare. Lo sa bene Paolo. Partito poco più che adolescente e trasformato nel volgere di pochi decenni in brillante docente. Spesso si cerca di non tornare. Perché ripartire è penoso. Paolo sapeva, ma non esitò. Quella mattina alle ore sette e trentadue minuti primi, lasciava la frizione della sua automobile per lanciarsi sulle vie dei ricordi. Ritornava al suo borgo natio, nella sua Francavilla. Non compiva quel viaggio da 5 anni. Il precedente fu un viaggio triste. Salutare le spoglie mortali della propria madre era stato doloroso. Ma oggi è diverso. Perché tornare allora? Paolo si era posto questa domanda, e a dire il vero anche sua moglie gliel’aveva chiesto. Non seppe rispondere a se stesso. Figurarsi alla moglie. Ormai la decisione era presa. Si trattava di percorrere strade già conosciute. Sua moglie non ne volle sapere di accompagnarlo. Paolo ne fu contento. Aveva bisogno di solitudine. A breve arriverà la Pasqua, sarà primavera. Mentre nella sua mente si alternavano pensieri molesti a ricordi piacevoli, cominciò ad insinuarsi un nuovo atteggiamento. Come se stesse cambiando abito. Sentiva di essere sempre lo stesso, ma cominciava ad insinuarsi sempre di più una percezione diversa del mondo esterno. Faceva finta di nulla. Ma la sua impazienza cominciava a crescere. Schiacciare sull’acceleratore? Forse potrebbe essere una soluzione. Lo faccio. Autovelox. Accidenti. Riporta la velocità al limite. Si ferma ad un Autogrill. Ancora centosettantacinque kilometri all’arrivo. Una tappa del giro d’Italia. Ricorda quando insieme a suo padre guardava in televisione la corsa rosa. Altri tempi o altro io? Mah. Si reca in bagno. Si butta addosso un po’ d’acqua fredda. Esce. Prende un caffè. Guarda le sigarette. Ha smesso di fumare da otto anni. Lo assale una voglia irrefrenabile. Cerca di controllarsi. Esce. Rientra subito. Compra un pacchetto. Lo guarda a lungo nella sua mano. Esce. Lo apre. Sente l’odore pungente del tabacco. Cerca l’accendino. Non ce l’ha. E per forza non fuma più. Va in macchina usa l’accendisigari. Finalmente fuma. Non è come lo ricordava. Butta subito via la sigaretta. Riparte. Decide di non fermarsi più. La strada corre lenta davanti a lui. Tutto scorre. Anche il tempo. Osserva gli ulivi che crescono sempre di più man mano che la sua meta si avvicina. Arriva sul far della sera. Decide di andare subito a casa. A casa di chi? A casa sua, si risponde. In realtà non sa cosa lo attende. Sono 5 anni che non mette piede nel luogo che lo ha visto bambino prima, adolescente poi, e che ha salutato con una valigia in mano. Aveva annunciato il suo arrivo alla sorella che lo aveva rassicurato: avrebbe trovato la casa pulita. Mette la chiave nella toppa. Gira. Apre. Si ritrova in un ambiente familiare che però ormai non conosce più. Gli viene un capogiro. Si siede sulla poltrona che un tempo era di suo padre. Lascia i suoi bagagli al centro della stanza. Non sa cosa gli è preso. Una lacrima sgorga dai suoi occhi. Lo squillo del cellulare lo riporta in vita. La moglie vuole sapere se è giunto a destinazione. Lui la rassicura. Dopo la breve chiacchierata con la consorte ritorna cosciente. Mangia un panino che si era portato per il viaggio. È presto sono solo le otto. Fa una doccia e va a letto. Prende il suo libro. Crolla dal sonno. Si addormenta subito. Sogna come un bambino. L’indomani si sveglia all’alba. Sono le sei e zero minuti primi. Si alza. Prepara il caffè. Lo beve alla finestra. Osserva tutta un’umanità semplice al lavoro. Ne rimane estasiato. Decide di fare in fretta vuole uscire. Presto. Come quando era un ragazzo nelle domeniche che precedono la primavera, quando senti bussare alla tua porta le rondini. E poi, oggi è venerdì. Un venerdì speciale per Francavilla: il venerdì Santo. Nella sua mente si affollano ricordi. Esce. La sua casa è a ridosso del centro. Dove si erge la cupola più alta del Salento. Davanti la Piazza che è il Centro delle Terre d’Otranto. Osserva intorno a sé come se quello che guarda lo vedesse per la prima volta. Vantaggio dello straniero. Condanna dell’esule. Anche se inconsapevole. Passeggia. L’unico suono è il ticchettio dei suoi passi. Osserva la Basilica Minore nella sua maestosità, ma la sua attenzione è calamitata dalla Chiesa della Morte, centro del culto del Venerdì Santo. Qui durante l’anno riposano le statue che durante la serata attraverseranno le vie della città. La sua mente vola a quando da bambino andava a vedere di nascosto il volto di Gesù martoriato. In quel viso scorgeva dolore e terrore. Ricorda che ne era spaventato. Ma allo stesso tempo non riusciva a fare a meno di guardare. Mentre prosegue la sua passeggiata mattutina con il naso rivolto all’insù, quasi a voler sfidare il cielo, il suo corpo è scosso da un incontro inaspettato. I Pappamusci. Simbolo della città. Pellegrini scalzi e incappucciati che percorrono le vie di Francavilla andando a pregare sui sepolcri. Incredibilmente queste figure erano scomparse dall’orizzonte dei suoi ricordi. All’improvviso sgorga una sequenza incredibile di immagini. Quasi una emorragia di ricordi. Si ferma. Li osserva passare. Si rivede, proprio in quella strada, mano nella mano con suo nonno. L’anziano gli raccontava la storia dei Pappamusci. Lui spaventato si nascondeva dietro la sua gamba. Decide di proseguire ostinatamente la sua passeggiata. Entra nelle Chiese della città. In tutte sarebbe impossibile. Sono 21. Troppe per una mattinata. Ripercorre quelle più significative sulle vie dei ricordi. In ognuno dei luoghi che osservano i suoi occhi ritrova una parte di sé. Una parte che non credeva più di avere. La città si anima. Comincia la processione mattutina. Tanta gente assiepata lungo le strade. Ormai non conosce più nessuno. Osserva affascinato. Si rifugia in un bar. Prende un caffè. Di nuovo una voglia irrefrenabile di fumare. In tasca ritrova le sigarette. Ne prende una. Non ha l’accendino. Ferma un passante. La prima boccata è una rivelazione. La fuma per intero. Si sente stordito. È fermo. All’improvviso un suono lo ridesta. È il Perè. Una melodia antichissima di trombe che sottolinea il passaggio dei Pappamusci. Altri ricordi si accumulano. Decide che è arrivato il momento di pranzare. Si rituffa nel centro. Questa volta a solleticare la sua memoria sono gli odori. Profumi che fuoriescono dalle case. Entra in una Osteria. Pranza. Alle 15.00 ne esce. Decide di fare ritorno a casa. Un po’ di riposo prima della grande processione. Alle 18.30 esce nuovamente. Osserva le enormi croci disposte vicino alla Chiesa della Morte. La sua memoria galoppa di nuovo. Si rivede ancora una volta bambino con suo nonno ad accarezzare quel legno freddo. Tra poco, uomini incappucciati e scalzi trascineranno per le vie delle città queste pesanti testimonianze dell’amore di Cristo. Si posizioneranno tutti dietro alla statua che immortala Cristo alla Cascata - Dove mi vedesti? - Si racconta chiese la statua al suo autore. Si ferma, ha bisogno di calmarsi. Accende una sigaretta. Si rifugia in un bar. Si siede ad un tavolino. Un suono sordo richiama la sua attenzione. È la trènula. Un altro oceano di ricordi ancestrali lo travolge. Paga il conto. Esce osserva la processione nella sua magnificenza. I suoni che si alternano sono la trènula e lo stridere delle croci lungo la strada. Decide di tornare a casa. Prende il telefono. Chiama la moglie. Resta. Ha trovato il senso del suo viaggio nato per passione e terminato in se stesso. Ha ritrovato il senso. Per passione si vive. Per passione si arde. Per passione ritroviamo noi stessi. Senza passione moriamo ogni giorno. VINCENZO SARDIELLO www.inpuntadicravatta.com #vincenzosardiello #raccontiinpuntadicravatta #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
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