Il fatto che io sia pugliese non deve trarre in inganno. Non sono un fanatico delle orecchiette con le cime di rape, non ho la dispensa piena di taralli e friselle, non ballo la pizzica, non tifo per Cassano e soprattutto non bevo litri di Negramaro dalla mattina alla sera, anche se il vino rosso in casa mia non manca mai: Nero di Troia, rigorosamente in frigo. Perché a casa mia il vino non si degusta. Disseta. Almeno tre volte l’anno lascio Milano e torno alla base, solitamente per le ricorrenze da calendario: Natale, Pasqua e le feste dei Santi Patroni (a Ginosa ne abbiamo due, i Santi Medici e la Madonna del Rosario). Inoltre, da bravo figlio del mare, scendo a casa anche d'estate, ad agosto, per 3 settimane buone. Mi faccio una ventina di giorni a base di mangiate, letture e giri con i pochi amici rimasti al paese. Che da Ginosa, quelli della mia generazione, sono partiti tutti. Di lavoro non ce n'è e Miroglio e Natuzzi hanno deciso bene di andarsene all'estero per confezionare il più autentico made in Italy. Ogni anno però cerco di fare una capatina a casa anche per il compleanno di mio padre. Perché per noi meridionali è così: quando ci si allontana da casa il cordone ombelicale non si spezza ma si allunga. Così anche stavolta approfitto di un weekend, prenoto un Easyjet sottocosto e me ne torno in patria. Stessa trafila di sempre: sveglia alle 4 del mattino, mi doccio, mi vesto, prendo il taxi, vado a Cadorna, Malpensa Express, Terminal 1, autobus per il Terminal 2, check in, metal detector, imbarco, allaccio le cinture, decollo, il pilota guida senza mani, atterro a Bari, navetta per la stazione centrale, treno per Castellaneta e lì, in stazione, finalmente alle 11 e 20 riabbraccio mio padre che da anni mi fa anche da taxi privato per Ginosa. Ce ne andiamo al paese, intatto. Che poi, intatto. Parte del centro storico è collassato su se stesso e le alluvioni hanno devastato la gravina. In compenso, ristoranti e pizzerie si moltiplicano per il corso, attorno alla villa, vicino piazza Nusco, giù all'orologio. A Ginosa manca il lavoro, ma una buona diavola doppia mozzarella la trovi praticamente ovunque. A casa ci attende mamma che mi vede, al solito, sciupato. Faccio una prima scorpacciata di piselli, mozzarelle, una bevuta generosa di Aglianico locale, torta al cioccolato e un risciacquo abbondante con quel vino liquoroso che abbiamo preso a Todi l'anno scorso nella nostra scampagnata di Pasqua. I miei stanno bene. Sempre un po' acciaccati per l'insolenza dell'età, ma tutto sommato li vedo sereni. Parliamo un po' del più e del meno, del mio lavoro, di come si sta a Milano. La mia stanza è identica da quando l’ho lasciata. Anzitutto il poster della discoteca Pushca strappato a Londra nel 2000 dopo una gloriosa serata di capodanno a base di alcol e distruzione al Ministry of Sound. Sugli scaffali bianchi, poi, la mia intera collezione di vinili consumati in mille feste e mille programmi radiofonici, la collezione di Topolino e tutti i miei libri spolpati controvoglia nella gloriosa facoltà di Lingue e Letterature Straniere di Bari. La sera mio papà prende la pizza con doppia mozzarella e salamino piccante, quello buono delle mie parti. Vado a letto stanco ma soddisfatto. Mi sveglio tardi, rincoglionito dal viaggio. Son già tutti pronti. Il pranzo ci aspetta. Nemmeno il tempo di fare gli auguri a mio padre che si parte subito per una masseria poco dopo il Girifalco, a metà strada tra Ginosa e Ginosa Marina. Passiamo a prendere le due zie e ci avviamo verso il locale, seguiti dalla macchina di mio cognato, con a bordo mia sorella e i tre nipotini che per comodità chiamerò Adolescenza (la maggiore), Teppista (il medio) e Timidezza (la piccola). Anzitutto bisogna chiarire un punto secondo me fondamentale: per noi meridionali in generale, pugliesi in particolare, i banchetti non sono semplici pranzi, sono veri e propri sequestri di persona. Solitamente si rimane seduti finché non viene la morte a dirti “guarda che è la tua ora”. Per cui mi preparo psicologicamente e mi butto nella mischia. Mentre Teppista e Timidezza (che insieme non fanno 10 anni) si accontentano delle loro porzioni di patatine fritte, noi altri veniamo sommersi da un diluvio di pesce. Iniziamo: frittata di bianchetti, merluzzetti fritti, insalata di cozze e vongole, insalata di mare, polipi alla luciana, calamaretti saltati, carpaccio di alici e salmone, cozze gratinate, seppioline e ceci, una seconda ondata di cozze, vongole al pomodorino e altro carpaccio di pesce per concludere. E questo è solo l'antipasto. Mentre il mio stomaco inscena un primo sit-in di protesta, con tanto di bengala e razzetti puntati contro il colon, Teppista e Timidezza si avvicinano per conoscermi meglio. Non li vedo mai. A volte dimenticano persino di avere uno zio. Ci mettiamo alla finestra a guardare il mare limpido che scintilla luce, mentre le ganasce dei miei continuano a macinare in sottofondo. Zio, mi fa Timidezza, perché quel gattino sta li fuori a guardare il mare? Le ribalto la domanda. Secondo te aspetta gli amici o cerca qualcosa da mangiare? Mi guarda dubbiosa, con gli occhioni spalancati e non risponde. Secondo me sta lì e basta, sbotta dopo qualche secondo di silenzio. Zio, fa Teppista, secondo me mo arriva il trattore e sfascia tutto, pure il gatto. Perché il gatto vedi, è scemo, non si accorge nemmeno che viene la macchina. E registro tutto col telefonino per non dimenticare queste perle di saggezza. Arrivano i primi, a buffet: carbonara di mare, pappardelle con vongole fresche, risotto alla pescatora, spaghetti alla marinara, spaghetti allo scoglio, riso patate e cozze (in una teglia a parte), pennette al salmone e crema di zucchine. E per chi volesse favorire ci portano anche un po' della padella avanzata dal tavolo accanto: spaghetti tonno pomodori e olive. Lo stomaco invoca in ginocchio un cocktail a base di Citrosodina e Maalox, ma siamo solo ai primi per cui è meglio tener duro in attesa che arrivi il resto. A un certo punto mia zia se ne esce con la tragedia di Yara. Adolescenza, capirai, non vedeva l'ora. Parte una disquisizione al limite dello scientifico sul processo di putrefazione dei corpi e sulla decomposizione, ma più in generale. Mia zia inizia a parlare di nonni riesumati dalle bare, l'altra mia zia attacca con la sua lista di conoscenti defunti ritrovati ancora intatti dopo anni di sonno tombale. Su tutti lo sguardo severo di mia mamma che, da fan sfegatata di Chi l'ha visto?, ne sa sicuramente più lei della Sciarelli. Ma Dio c'è. A riportarci nel regno dei vivi ci pensano i camerieri con un ricco buffet di secondi: alici fritte dorate, calamari ripieni, gamberoni, cotolette di pesce spada, filetti di merluzzo, involtini di sogliola, polpettine di pesce. Per chi non ne avesse ancora abbastanza, polpettine di tonno, spigola (per tre) con patate e un delicatissimo tonno panato nel sesamo. Il mio fegato è invece panato nel calcestruzzo. Ho nello stomaco il carnevale di Rio e il 3-2-1 di capodanno nelle budella. A questo punto non serve nemmeno il Mister Muscolo. Ci vuole direttamente l'azoto liquido. E il conto. France', fa mio padre, guidi tu? Ho guardato in cielo e ho pregato il Signore. La sera rimaniamo immobili davanti alla tv. Inebetiti. La Littizzetto fa le sue battute ma noi nemmeno le capiamo. O forse i nostri muscoli intorpiditi si rifiutano persino di ridere. Vado a letto un filo appesantito e sogno delle cose che Tim Burton ci fa una trilogia. Poche scomode ore di sonno e arriva la mattina del lunedì. Si torna a Milano. Ginosa l’ho vista poco e niente, ma tutte le volte è così. Ormai conosco meglio l’aeroporto di Bari che il Poggio o le case nuove dalle parti della Asl. Preparo la valigia e saluto i miei. Me li abbraccio come sempre. Loro, malinconici, mi fissano con quegli occhi lucidi sempre sul punto di esplodere. Prendo lo zaino e mi avvio per le scale. Nemmeno al quarto gradino sento la voce di mia madre. E mi raccomando France’! Mangia!
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Nel paese c'è una lingua di fuoco e acciaio che le arde gli occhi, ha preso l'abitudine di portare con sé una bottiglietta di acqua borica e un pacchetto di garzine sterili. Le tira fuori dalla borsa comprata al mercato che fanno il sabato mattina in via Pier Giovanni Rizzo, se le passa sugli occhi quando le bruciano. Una mattina alla fine delle lezioni quando la sirena suona per l'ultima volta il professore di matematica e scienze le chiede se un giorno voglia raggiungerlo a casa sua per cena e che porti suo figlio Marco che è nella classe del professore e che se anche la scuola è cominciata solo da due mesi, “io li riconosco subito gli allievi attenti e volenterosi”, così le dice e lei, Carla la bidella delle medie Dante Alighieri se ne compiace, annuisce e abbassa gli occhi che sono due tagli verdi sulla pelle bruna, che sono torrenti seccati dal troppo esondare, li abbassa per un attimo sulla formica del banco da scuola che è tutta scritta e graffiata, il banco che è il suo posto tra i bagni e l'ingresso principale, “e suo figlio, se lo faccia dire, è uno di questi” conclude il professore di matematica e scienze il cui cavallo dei pantaloni, per come la vede Carla, la bidella, è sempre troppo basso e l'orlo gli va a finire sempre sotto le scarpe conferendogli un'aria trasandata che però non le dispiace. Come di qualcuno che uscendo di casa al mattino si dimentichi sempre qualcosa e un sentimento di tenerezza e protezione guadagna millimetri lungo le pareti del cranio della donna. La Panda nera è una scatola con i sedili di tela del colore della terra arida. A ogni cambio di marcia il polmone di metallo compie tre movimenti a cui Marco seduto al fianco di suo madre presta molta attenzione inarcando le sopracciglia, nel primo il polmone inspira tirando a sé la sequela di anni che hanno visto Marco rendersi conto che per giocare con il Vic 20 sarebbe dovuto andare a casa del suo amico M. perché quando a Natale ha chiesto ai suoi genitori un videogioco quello che si è trovato tra le mani è stato nient'altro che un affarino nero con un volante piantato nel centro nel cui interno correva un nastro di plastica sul quale erano disegnate delle sagome di automobili da Formula Uno, nel secondo movimento il polmone della scatola nera trattiene il fiato mentre la Panda attraversa il ponte che porta alla spiaggia di Campo di Mare e sotto di loro scivola la statale Brindisi-Lecce le cui carreggiate sono separate da arbusti rigogliosi di oleandro rosa, su un libro di scienze Marco ha letto che le foglie dell'oleandro hanno delle proprietà tossiche. Dalla sommità del ponte si vede la striscia di mare e sulla destra verso Brindisi la torre della centrale a carbone, quest'estate un gruppo di attivisti vi si è arrampicato fino in cima e vi ha scritto sopra con la vernice nera STUPID. Quando la madre gli sta accanto e stanno camminando lungo la riva di questo grigio mare meridionale, Marco tira fuori dallo zaino Invicta la macchina fotografica e prende la mira in direzione di un tronco bianco di una decina di metri steso obliquo sulla spiaggia molto vicino a quelle che i ragazzi della zona e anche lui chiamano le rupi, che sono un'alta e lunga parete di terra rossa che ha visto in innumerabili notti degli anni ottanta, da lontano, come i contrabbandieri abbandonassero in mare i loro carichi di Marlboro fatti arrivare qui dall'Albania e le loro sagome nere ritte sugli scafi, a tre, a quattro, sembrassero quasi poetiche. Della cena in casa del professore Marco e sua madre hanno parlato a lungo ridendo assieme seduti sul divano mentre guardavano i VHS dei film di Hitchcock e la luce della luna stendeva il suo glabro chiarore sopra la torre della piazza e sopra il resto del paese, dal palazzetto dello sport la cui costruzione era iniziata cinque anni prima e il cui completamento non si sarebbe mai visto perché le spinte che regolano le azioni da queste parti si vanno a perdere forza maggiore nel labirinto degli incartamenti comunali oliati da cospicue concessioni di denaro o di contro dalla loro sottrazione, da quella struttura di cemento che di notte ma anche di giorno pare abitata dai fantasmi quindi, alla masseria dell'ultimo pastore rimasto nel paese, un brutto affare d'uomo denunciato dalla figlia alle forze dell'ordine per percosse, agli inizi di luglio è finito sul Quotidiano di Brindisi perché dieci capre sottrattesi al suo controllo hanno pensato di porre fine ai loro giorni facendosi macellare dall'intercity Milano Lecce. A Marco il professore piace, mentre mangiavano lo sformato di patate avrebbe voluto avere a portata di mano la sua agendina per disegnarvi tutte le inclinazioni che assumevano le sopracciglia rade e fulve dell'uomo così attento a non perdersi nemmeno una di tutte quelle sfumature, accelerazioni, rallentamenti, pause e incrinature della voce della donna che gli stava di fronte e gli raccontava di come suo marito fosse stato tranciato, le gambe, la striscia rossa di sangue lunga venti metri, le scarpa destra mai ritrovata, la cinghia dei pantaloni, saltata via e rimasta intatta e questa cosa Carla non è mai riuscita a spiegarsela, ucciso da uno sconosciuto ubriaco in una sera di primavera. Quando scendono dal ponte che porta al mare, il polmone di metallo lascia andare fuori l'aria, sopra di loro il cielo è piatto, grigio e senza nuvole, tra non molto pioverà. E' successo appena l'estate scorsa, a Campo di Mare Marco ha conosciuto una ragazza di una città del nord che gli soffiava nelle orecchie con la bocca, gli diceva che dove sta lei le persone non vivono così tutte attaccate le une alle altre, che non sarebbe nemmeno immaginabile una cosa del genere, che gli avrebbe scritto e si sarebbero ancora detti delle cose sui pescatori che staccavano coi denti pezzi di polpo vivo, che vi avrebbero costruito attorno delle storie comiche o del terrore. La ragazza che vive nella città del nord non gli ha ancora scritto, la bidella Carla tiene entrambe le mani sul volante, si volta un attimo per guardare suo figlio, lo vede preso dai suoi pensieri, lo zaino colorato dell'Invicta sulle gambe, pensa, “fallo crescere”. Il mare adesso è più vicino, la luce è lattiginosa e s'infrange sul parabrezza, la bidella Carla solleva la mano sinistra dal volante, l'avvicina a sé, sul cruscotto c'è una busta chiusa, dentro ci sono i biglietti che il professore di matematica e scienze ha comprato per lei e per Marco, sono per il concerto di Vasco Rossi che viene allo stadio di Via del Mare, a Lecce. Per la prima volta da quando suo marito è morto Carla sente di poter nuovamente accogliere dentro di sé il seme della rinascita che la vita pare porgerle, con le dita della mano sinistra si sistema lentamente, trasognata, una sottile ciocca di capelli chiari dietro il piccolo orecchio, sorride, ma in un modo impercettibile, si dice “fallo crescere”.
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Ci sono luoghi senza importanza che non appaiono neppure nelle carte geografiche. Villaggi, contrade, frazioni o piccole località di mare abitate solo in estate. Dove ci capiti solo perché ti sei perso o hai finito la benzina. Entità trascurabili, soprattutto per le amministrazioni da cui dipendono: niente residenti, niente voti. Facile. Eppure per molti di noi rappresentano i luoghi dell'anima. Un buen retiro – a volte solo mentale - dove andare a far riposare i pensieri. In molti casi rimandano a certe estati dell’infanzia, a quella che è stata l’età della felicità. A volte invece li trovi per caso, guidando senza meta in cerca di certi perché. Il mio paradiso personale è a 25 km da Bari, a pochi passi dal blu dipinto di blu, un attimo prima di Polignano a mare. Si chiama Cozze, il mare mio. Cozze mare d’inverno è uno dei luoghi più silenziosi del mondo. Una cinquantina d’abitanti in tutto, poi solo gatti solitari e fruscio di onde mosse dal maestrale. Pochi pescatori, silenziosi anche quelli. Muti anzi, come il pesce che aspettano. La spiaggia è lunga e rocciosa, ognuno ha il suo angolo. C’è come un codice non scritto. Chi viene qui ama star solo, nessuno s’azzarda a disturbare anche se ti conosce da tempo. Siamo sempre gli stessi da anni, pensionati con le sdraio, poeti in cerca di ispirazione, amanti clandestini, sognatori come me. Eppure non ci siamo mai parlati. Basta un gesto del capo, un lampeggiare di fari. Ci si capisce così. Talvolta un pescatore ti allunga un polipetto appena arricciato, un riccio aperto, una tellina da succhiare. Tu ricambi con un sorriso. Allunghi un tarallino, un bicchier d’acqua, senza parlare. Nient’altro. D’estate cambia tutto, il mare si punteggia di barche, i bar sulla spiaggia si affollano, si accendono i juke box. E noi che ci passiamo l’estate da più di quarant’anni – sempre meno in verità, ma sempre più romantici - siamo quasi a disagio in mezzo alla gente. Si passa da cinquanta a cinquemila, e ci vuole tutta la pazienza. Organizziamo una resistenza tutta nostra, tenendoci stretti, baciandoci ogni volta che ci incontriamo per strada o sulla spiaggia. Restiamo attaccati al nostro scoglio e alle abitudini come le cozze nere, e da qui non ce ne vogliamo andare. Che i venticinque anni dell’usucapione sono passati da un pezzo e questo posto ormai ci appartiene per legge. Facciamo riunioni, ripercorriamo piccole storie di un tempo che fu per tenerci legati, ci incontriamo a cadenze regolari a mangiare focaccia e gamberetti crudi, per festeggiare il ritorno di qualcuno di noi. O salutare un altro che è partito per sempre ma in questo mare vuole restare, come cenere che un giorno diventerà conchiglia. Perché da certi luoghi non te ne vai mai, e i bambini che erano continuano ad abitare qui per sempre. E allora li vedi passare trent’anni dopo, con le moto grosse o con i suv, da soli o con la famiglia, con la barba o senza capelli, in cerca di quelli che hanno preferito restare. Attaccati col viso dietro cancelli che non gli appartengono più, o ad aspettare le Madonne che arrivano dal mare. Che poi vista senza sogni, questa Cozze non è questo granché. Il mare sì, ma le architetture sono un guazzabuglio senza senso, il litorale non è curato, il parcheggio è selvaggio, quando c’è. Prendi il nome che fa schifo per esempio, anzi è cozzalo proprio e fa arricciare il naso a quei viveur che se ne vanno a mare da Capitolo in giù. E allora meglio sarebbe cambiarlo dico io, o nobilitarlo addirittura. Chenesò Mitile, o Mitilos meglio ancora, che farebbe tanto Grecia. Tanto sempre Cozze vuol dire. Così ci metterebbero sulla cartina e forse pure sui cataloghi delle le agenzie. E chissà magari quelli famosi verrebbero a sposarsi qui, o a girarci un film. Indiani, principi, o forse George Clooney. Porterebbero i soldi, il sindaco aggiusterebbe le strade… Ma noi, noi che veniamo a Cozze da sempre, e che solo qui riusciamo a volare, noi non ci ritorneremmo più. E ce ne andremmo in Grecia per davvero.
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