Chi vive lontano lo sa. Chi vive dentro lo ignora. Un paradosso? No. La vita. Per capire bisogna ricordare. Lo sa bene Paolo. Partito poco più che adolescente e trasformato nel volgere di pochi decenni in brillante docente. Spesso si cerca di non tornare. Perché ripartire è penoso. Paolo sapeva, ma non esitò. Quella mattina alle ore sette e trentadue minuti primi, lasciava la frizione della sua automobile per lanciarsi sulle vie dei ricordi. Ritornava al suo borgo natio, nella sua Francavilla. Non compiva quel viaggio da 5 anni. Il precedente fu un viaggio triste. Salutare le spoglie mortali della propria madre era stato doloroso. Ma oggi è diverso. Perché tornare allora? Paolo si era posto questa domanda, e a dire il vero anche sua moglie gliel’aveva chiesto. Non seppe rispondere a se stesso. Figurarsi alla moglie. Ormai la decisione era presa. Si trattava di percorrere strade già conosciute. Sua moglie non ne volle sapere di accompagnarlo. Paolo ne fu contento. Aveva bisogno di solitudine. A breve arriverà la Pasqua, sarà primavera. Mentre nella sua mente si alternavano pensieri molesti a ricordi piacevoli, cominciò ad insinuarsi un nuovo atteggiamento. Come se stesse cambiando abito. Sentiva di essere sempre lo stesso, ma cominciava ad insinuarsi sempre di più una percezione diversa del mondo esterno. Faceva finta di nulla. Ma la sua impazienza cominciava a crescere. Schiacciare sull’acceleratore? Forse potrebbe essere una soluzione. Lo faccio. Autovelox. Accidenti. Riporta la velocità al limite. Si ferma ad un Autogrill. Ancora centosettantacinque kilometri all’arrivo. Una tappa del giro d’Italia. Ricorda quando insieme a suo padre guardava in televisione la corsa rosa. Altri tempi o altro io? Mah. Si reca in bagno. Si butta addosso un po’ d’acqua fredda. Esce. Prende un caffè. Guarda le sigarette. Ha smesso di fumare da otto anni. Lo assale una voglia irrefrenabile. Cerca di controllarsi. Esce. Rientra subito. Compra un pacchetto. Lo guarda a lungo nella sua mano. Esce. Lo apre. Sente l’odore pungente del tabacco. Cerca l’accendino. Non ce l’ha. E per forza non fuma più. Va in macchina usa l’accendisigari. Finalmente fuma. Non è come lo ricordava. Butta subito via la sigaretta. Riparte. Decide di non fermarsi più. La strada corre lenta davanti a lui. Tutto scorre. Anche il tempo. Osserva gli ulivi che crescono sempre di più man mano che la sua meta si avvicina. Arriva sul far della sera. Decide di andare subito a casa. A casa di chi? A casa sua, si risponde. In realtà non sa cosa lo attende. Sono 5 anni che non mette piede nel luogo che lo ha visto bambino prima, adolescente poi, e che ha salutato con una valigia in mano. Aveva annunciato il suo arrivo alla sorella che lo aveva rassicurato: avrebbe trovato la casa pulita. Mette la chiave nella toppa. Gira. Apre. Si ritrova in un ambiente familiare che però ormai non conosce più. Gli viene un capogiro. Si siede sulla poltrona che un tempo era di suo padre. Lascia i suoi bagagli al centro della stanza. Non sa cosa gli è preso. Una lacrima sgorga dai suoi occhi. Lo squillo del cellulare lo riporta in vita. La moglie vuole sapere se è giunto a destinazione. Lui la rassicura. Dopo la breve chiacchierata con la consorte ritorna cosciente. Mangia un panino che si era portato per il viaggio. È presto sono solo le otto. Fa una doccia e va a letto. Prende il suo libro. Crolla dal sonno. Si addormenta subito. Sogna come un bambino. L’indomani si sveglia all’alba. Sono le sei e zero minuti primi. Si alza. Prepara il caffè. Lo beve alla finestra. Osserva tutta un’umanità semplice al lavoro. Ne rimane estasiato. Decide di fare in fretta vuole uscire. Presto. Come quando era un ragazzo nelle domeniche che precedono la primavera, quando senti bussare alla tua porta le rondini. E poi, oggi è venerdì. Un venerdì speciale per Francavilla: il venerdì Santo. Nella sua mente si affollano ricordi. Esce. La sua casa è a ridosso del centro. Dove si erge la cupola più alta del Salento. Davanti la Piazza che è il Centro delle Terre d’Otranto. Osserva intorno a sé come se quello che guarda lo vedesse per la prima volta. Vantaggio dello straniero. Condanna dell’esule. Anche se inconsapevole. Passeggia. L’unico suono è il ticchettio dei suoi passi. Osserva la Basilica Minore nella sua maestosità, ma la sua attenzione è calamitata dalla Chiesa della Morte, centro del culto del Venerdì Santo. Qui durante l’anno riposano le statue che durante la serata attraverseranno le vie della città. La sua mente vola a quando da bambino andava a vedere di nascosto il volto di Gesù martoriato. In quel viso scorgeva dolore e terrore. Ricorda che ne era spaventato. Ma allo stesso tempo non riusciva a fare a meno di guardare. Mentre prosegue la sua passeggiata mattutina con il naso rivolto all’insù, quasi a voler sfidare il cielo, il suo corpo è scosso da un incontro inaspettato. I Pappamusci. Simbolo della città. Pellegrini scalzi e incappucciati che percorrono le vie di Francavilla andando a pregare sui sepolcri. Incredibilmente queste figure erano scomparse dall’orizzonte dei suoi ricordi. All’improvviso sgorga una sequenza incredibile di immagini. Quasi una emorragia di ricordi. Si ferma. Li osserva passare. Si rivede, proprio in quella strada, mano nella mano con suo nonno. L’anziano gli raccontava la storia dei Pappamusci. Lui spaventato si nascondeva dietro la sua gamba. Decide di proseguire ostinatamente la sua passeggiata. Entra nelle Chiese della città. In tutte sarebbe impossibile. Sono 21. Troppe per una mattinata. Ripercorre quelle più significative sulle vie dei ricordi. In ognuno dei luoghi che osservano i suoi occhi ritrova una parte di sé. Una parte che non credeva più di avere. La città si anima. Comincia la processione mattutina. Tanta gente assiepata lungo le strade. Ormai non conosce più nessuno. Osserva affascinato. Si rifugia in un bar. Prende un caffè. Di nuovo una voglia irrefrenabile di fumare. In tasca ritrova le sigarette. Ne prende una. Non ha l’accendino. Ferma un passante. La prima boccata è una rivelazione. La fuma per intero. Si sente stordito. È fermo. All’improvviso un suono lo ridesta. È il Perè. Una melodia antichissima di trombe che sottolinea il passaggio dei Pappamusci. Altri ricordi si accumulano. Decide che è arrivato il momento di pranzare. Si rituffa nel centro. Questa volta a solleticare la sua memoria sono gli odori. Profumi che fuoriescono dalle case. Entra in una Osteria. Pranza. Alle 15.00 ne esce. Decide di fare ritorno a casa. Un po’ di riposo prima della grande processione. Alle 18.30 esce nuovamente. Osserva le enormi croci disposte vicino alla Chiesa della Morte. La sua memoria galoppa di nuovo. Si rivede ancora una volta bambino con suo nonno ad accarezzare quel legno freddo. Tra poco, uomini incappucciati e scalzi trascineranno per le vie delle città queste pesanti testimonianze dell’amore di Cristo. Si posizioneranno tutti dietro alla statua che immortala Cristo alla Cascata - Dove mi vedesti? - Si racconta chiese la statua al suo autore. Si ferma, ha bisogno di calmarsi. Accende una sigaretta. Si rifugia in un bar. Si siede ad un tavolino. Un suono sordo richiama la sua attenzione. È la trènula. Un altro oceano di ricordi ancestrali lo travolge. Paga il conto. Esce osserva la processione nella sua magnificenza. I suoni che si alternano sono la trènula e lo stridere delle croci lungo la strada. Decide di tornare a casa. Prende il telefono. Chiama la moglie. Resta. Ha trovato il senso del suo viaggio nato per passione e terminato in se stesso. Ha ritrovato il senso. Per passione si vive. Per passione si arde. Per passione ritroviamo noi stessi. Senza passione moriamo ogni giorno. VINCENZO SARDIELLO www.inpuntadicravatta.com #vincenzosardiello #raccontiinpuntadicravatta #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
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1982. Quell’estate Barletta scottava come un ferro da stiro bollente, il caldo inzuppava le ossa e si stava soffocati come pulcini dentro una scatola di scarpe. Se provavi a tirare su la testa per respirare, il mondo appariva in una luce zafferano come uno scatto fuori fuoco. Paolo Rossi avrebbe infilato tre pappine al Brasile di Falcao e pertanto, le sbombardate dei ragazzi contro il portone della Cattedrale Maggiore, avevano tutti i nomi della nazionale e di quella indimenticabile stagione. Nel quartiere vecchio di Santa Maria, le donne della Marina comunicavano da un balcone all’altro infilzando le mollette nei panni stesi all’aria, si raccontavano i fatti loro e loro, così dicevano, mentre il profumo del ragù della domenica sbuffava da ogni pertugio come un treno a vapore. La povertà del quartiere in quegli anni cariava i sogni di chiunque, e l’eroina, proprio come l’acqua, si infilava dappertutto. I ‘uagnon si facevano nei vicoli della chiesa di Sant’Andrea tra il piscio dei gatti e il ronzio delle zanzare, collassavano con le spalle al muro del carcere mandamentale oppure a dorso nudo, sopra i basolati nei pressi delle scalinate. Stavano con il naso all’insù ad ammirare le stelle, ma visti da vicino erano soltanto merce avariata. Santa Maria era il regno dei pescatori e quelli del centro non si erano ancora comprati tutti gli appartamenti del borgo antico. Il Fornaricchio, scaldava tranquillamente le teglie di pasta al forno per il popolo con gli zoccoli e nessuno, proprio nessuno, si immaginava che trent’anni dopo, da quelle parti, qualcuno avrebbe aperto un sushi bar e sarebbe andato pure bene. Tra quelle sacche gengivali viveva Rino, quattordici anni a maggio di cui tre, passati a fare il ragazzo della carne per conto della macelleria Capasso. Come un Supersantos schizzava da una parte all’altra della città per sentirsi dire più o meno la stessa cosa, “Sali, terzo piano!”, o semplicemente, “scendo io, aspetta!” Consegnava così salsiccia di cavallo, filetto tagliato sottile e chissà quante spangelle nei condomini della Barletta City. L’obiettivo da raggiungere era sempre uguale e valeva tutta la sua libertà: la mancia! Tra i clienti di Capasso c’erano anche i genitori dei suoi compagni di scuola, quelli della terza B Giuseppe De Nittis, gente che apriva la porta e consegnava frettolosamente il resto senza una parola. Ma Rino se ne fotteva di tutti, lui correva e portava, portava e correva. “Signo’, a che piano?” E poi via a scorazzare con la sua bici senza freni lungo la litoranea di ponente in mezzo a pini marini, palme avvelenate e fogna rotta. Magro come un fil di ferro e nero nero come un vermetto, se ne stava dentro la sua divisa fissa: jeans tagliati corti del fratello grande e maglietta lisa. La bici invece puzzava di ruggine sgretolata, di usato, proprio come i suoi mocassini di due taglie più in là e dalle suole logore per le mille frenate coi piedi. Sotto le ruote, uno ad uno, i chilometri di lacrime controvento se ne andavano via veloci in una splendida passerella dinanzi al Paraticchio. Adorava rompere i coglioni a chiunque Rino, zompava il cappello ai vecchi e sputava ai rari turisti di passaggio. Ma la cosa che gli piaceva di più, era andare sul Braccio del Porto, tuffarsi dal Trabucco e restare con le mutande bagnate sugli scogli imporporati dal sole. Aveva gli esami di terza media quell’anno Rino, una meta raggiunta grazie all’influenza miracolosa della Madonna sotto al campanale, “quella con le mani alzate”, come diceva zia Rosaria, “quella che quando interviene, se interviene, lo fa in silenzio e si cuce poi la bocca!”Insieme alla Madonnina, una grossa mano a Rino era arrivata anche dal professor Spadaro, il quale non aveva mai smesso di stargli vicino e di passargli poesie. Erano versi che Rino fingeva di rifiutare ma che segretamente, riportava sulla carta della carne. Il poeta preferito dal professore era Bodini del quale Rino conosceva ogni verso a memoria, versi che Rino però, ripeteva a voce bassa, tanto per non farsi dare del ricchione dagli amici di scorribande. “Cade a pezzi a quest’ora nelle terre del sud un tramonto di bestia macellata, l’aria è piena di sangue”. Gli ricordavano il suo lavoro, forse per questo li amava così tanto. Si presentò agli esami in perfetto ritardo, con il look di sempre e il solito fare da bullo strafottente, infilò il culo stretto nel banco e con la penna poggiata sull’orecchio sinistro, si mise a fissare la commissione come si fissa un plotone d’esecuzione. Traccia: descrivete le bellezze storico artistiche della vostra città con precisi riferimenti e metafore. Partirono tutti tranne Rino. Il professor Spadaro allora, sfidò lo sguardo del ragazzo della carne come in un film western di Sergio Leone e sparò per primo, “muoviti, che aspetti!” Per Rino fu lo start. Svolgimento: Le bellezze storico artistiche della mia città sono assai. La cattedrale di Santa Maria Maggiore per esempio, è bianca bianca come un filetto di pollo arrostito, il gigante invece, Eraclio per capirci, è tutto di bronzo, durissimo come le ossa delle spangelle. Molto bella è pure la chiesa del Santo Sepolcro, so che apparteneva ai Templari. I Templari sono anche il nome del ristorante dove abbiamo festeggiato la comunione di mia sorella piccola. Davanti, la chiesa è un poco sporca devo dire, sembra lardo di colonnato affumicato. Infine sta palazzo della Marra, quello che abbiamo visto alla gita istruttiva: tiene il balcone al centro tutto riccioluto, assomiglia al macinato quando esce dalla macchinetta della salsiccia. Ma la cosa che mi piace di più della mia città è il tramonto, cade a pezzi ad una certa ora sulla terra del sud e sembra una bestia macellata. L’aria diventa piena di sangue. Fine. Fu una bocciatura senza appello quella che si beccò Rino, “cattivo gusto”, la sentenza della professoressa Sciancalepore, presidente di commissione che ignorò, per ignoranza, il fatto che quel figlio di puttana di Rino si fosse appropriato dei versi di Bodini senza nemmeno citarlo. Quell’anno però la scuola bocciò non soltanto Rino e le speranze del professor Spadaro, bocciò anche Bodini, di cui, evidentemente, non conosceva nemmeno l’esistenza. Ma la scuola è così, se non le assomigli ti respinge. Pochi giorni dopo, al pian terreno dell’istituto Giuseppe De Nittis di via Libertà, furono appesi ai muri i quadri per l’ammissione agli orali. Rino, in mezzo a quella calca, riuscì a leggere appena il suo NON AMMESSO, nient’altro. Si sentì perdere fiato, svuotato di ossa e muscoli, incapace di muovere qualunque arto e immobilizzato come un moscerino dentro colla bollente. La sera stessa il padre lo avrebbe stroppiato di mazzate col classico menù: cinghiate dalla parte della fibbia e anelli delle mani rivoltati. Quando la cosa accadde però, Rino trovò per ogni colpo, la forza di stamparsi addosso un sorriso malandrino e beffardo. I lividi in fondo, li stava spartendo con Bodini! TOMMY DIBARI NonHoTempoDaPerdere #tommydibari #nonhotempodaperdere #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
All’una Attilio si piegò in due sul terriccio bollente, accanto ai fichi d’India. Tossì e quasi vomitò le pillole che aveva appena infilato in gola. Un fumo azzurro e denso si innalzò dalla campagna, in direzione del mare, poi arrivarono le modelle. Il Suv dell’agenzia le aveva caricate all’aeroporto mezz’ora prima, per poi buttarsi sulla tangenziale e imboccare l’uscita per Molfetta. Sulla strada interna, in direzione di Terlizzi, Hilde si era sporta dal finestrino per sentire più forte l’odore di catrame. Era apparsa un’edicola sul bordo della carreggiata, una Madonna fiorita dai colori incendiari, un totem – pensò Hilde– nel deserto messicano. Il Suv aveva voltato a destra, abbandonando l’asfalto per barcollare incerto sul sentiero sconnesso e petroso che conduceva a Torre Marcello, nella contrada di Mino. Il sobbalzare dell’auto aveva scosso Sue e Lena dal breve sonno in cui si erano assopite. All’ingresso del casale, un cancello di ferro tenuto in piedi da un immenso muro a secco, il driver frenò di scatto e invitò le ragazze a scendere. Attilio si avvicinò continuando a tossire, il pugno sudato e grinzoso contro le labbra ritratte nel ceruleo del viso. Le osservò uscire una alla volta: il caschetto nero di Sue, le lentiggini ramate sulla pelle di Lena, il sole accecante dei capelli di Hilde. Tutte e tre pallide e prive di forme, a malapena maggiorenni. Era quello che aveva richiesto. «È un piacere conoscerla», fece Sue tendendogli la mano, «Siamo onorate di poter lavorare con lei». «Un grande onore», aggiunse Lena, togliendo gli occhiali scuri. Attilio fece un passo indietro, come a volerle inquadrare tutte e tre assieme, poi chiese: «Da quanto non dormite?». «Ventotto ore, come d’accordo». «Bene». Liquidò il driver e invitò le ragazze a seguirlo. «Sono malato», disse, «È evidente. Sono anche vecchio, ma la vecchiaia in sé non ha importanza». Questo posto, Torre Marcello, apparteneva a mio padre e prima di lui a mio nonno, quando non era altro che terra, ulivi e un cumulo di sassi dove conservare il raccolto. È esattamente quello che sto cercando di fare adesso. Le mie foto sono state esposte a New York, Londra, Parigi, Tokyo. Sono stato premiato, gratificato, conteso, omaggiato in ogni lingua esistente. Non ricordo nemmeno i nomi di tutti i luoghi in cui ho dormito. Ma ora che sta per finire, sono tornato. Non ho avuto scelta, è qualcosa che dovevo fare. Tornare. Riderete forse, ma c’è una specie di destino, di congiura, chiamatela come volete. Questo è l’ultimo servizio che faccio». Le ragazze rimasero immobili a fissarlo. Non lo capivano, forse non potevano. Erano parte di un mondo in cui tutto era ancora possibile. Tanto meglio, pensò Attilio, e distolse lo sguardo, poi sfiorò col suo quello di Hilde, dietro le altre, e allora si accorse di quegli occhi nordici, disumani, impastati col ghiaccio. Due rocce fredde in cui l' incomprensione assumeva le forme terribili del rifiuto. «Perché ha chiesto che non dormissimo da più di ventiquattr’ore?», domandò Sue accendendosi una sigaretta. «Vi ho pagato abbastanza». «Oh, sì», sbadigliò lei. «Mettiamola in questo modo: ho comprato il vostro sonno. Ora dovrete dormire per me. La villa è vostra. È vostro il giardino, il frutteto, il campo di ulivi oltre la recinzione. Vagate e addormentatevi dove volete. Da sole, insieme, come vi viene. Vi darò degli abiti bianchi e li indosserete, qualcosa d’impalpabile, di trasparente, i capelli sciolti. Dovrete cadere dal sonno, morire dal sonno, e io vi fotograferò allora, svenute, prima che venga sera». «Perché?»– chiese Hilde, e furono le sue sole parole – «Cosa ha bisogno di dimostrare?». Fu semplice per Sue e Lena addormentarsi nel torpore del pomeriggio. Attilio le sorprese supine accanto all’albero delle prugne, poggiate l’una sulle gambe dell’altra fra le spine dei fichi, stese sulle scale di pietra bianca alle porte del casale. Ogni foto che scattava sembrava allungargli il respiro, sollevarlo dal peso del corpo che muore, dalla paura del corpo che muore. Era questo che voleva. Sue e Lena erano così giovani e inermi, sembrava avessero disimparato il respiro. Attilio provò un brivido di eccitazione sessuale. Desiderava porre fine al proliferare inesausto di tutta quella bellezza, eternarla, guardare la morte in faccia prima che fosse lei a guardare lui, e fermarla. Fece per accarezzare la testa di Lena, i capelli sparsi come albicocche sulla pietra, quando si rese conto che il segreto di quell’eternità rubata dimorava altrove. Hilde era in cima alle scale e lo guardava, grave. Si mise a correre verso il muro di recinzione, poi in aperta campagna, scalza, sul terreno rosso degli ulivi. Attilio la seguì a fatica, col fiato corto. La perse di vista, per poi ritrovarla piegata nella cavità di un tronco millenario, a occhi chiusi. Il segreto era Hilde. Attilio pensò che se fosse riuscito a fotografarla in quell’istante – mentre immobile e stanca riparava la pelle bianca, cresciuta nel buio d’inverni senza fine, dal sole implacabile del Sud – solo allora si sarebbe potuto salvare. Impugnò la Canon con la mano che tremava, la puntò verso l’albero, ma non fece in tempo a inquadrarlo. Hilde spalancò gli occhi. «Non riesco a dormire. Non ci riesco. Mi dispiace». L’insonnia di Hilde si prolungò fino a sera. La ragazza vagò come uno spettro finché venne il buio e Attilio continuò a inseguirla, disperato. A volte, preso dalla stanchezza e dal caldo, si sedeva su di una panchina e mandava giù una pillola dopo averla leccata, come fosse zucchero. Dopo cena, le modelle si chiusero ognuna nella propria stanza. Hilde era in trappola, pensò Attilio, sentendola sbattere la porta in cima alle scale. Avrebbe solo dovuto aspettare la prima luce del giorno. Sarebbe rimasto in piedi a vegliare per non correre alcun rischio, poi, all’alba, avrebbe salito in silenzio i gradini, aggrappato alla ringhiera arancione. Sarebbe entrato nella camera di Hilde mentre lei ancora dormiva – la finestra spalancata, i raggi polverosi del mattino – e l’avrebbe immortalata, priva di sensi e vinta, per sempre. In quell’angolo di terra, lui l’avrebbe fatta sua. Sedette sulla poltrona, si versò del whisky da una vecchia bottiglia e aspettò, ma dovette trattarsi di una combinazione cattiva perché presto cadde in un sonno ottuso. Quando riaprì gli occhi erano quasi le cinque. Il sole cominciava a premere contro i vetri di Torre Marcello. Attilio infilò al collo la macchina fotografica e si precipitò al piano superiore. Hilde non c’era. Il letto stretto in ferro battuto, alto contro la parete scrostata, era vuoto e intonso. Le lenzuola bianche tirate sul cuscino e nessuna traccia di lei. Attilio tremò e guardò fuori dalla finestra, la distesa dei papaveri in fiamme. Poi si voltò. Vide le sue foto appese ai muri, foto dal valore inestimabile, incorniciate di nero ed esposte lì in fila come un crudele gioco di specchi. Le strappò dalle pareti, una alla volta, si mise a gettarle per terra, a calpestarle furioso, e più si abbatteva contro quel succedersi inesausto di memorie, più se ne sentiva circondato e oppresso, incapace di accettare la grandezza del proprio fallimento. Se ne accorse solo alla fine, quando i frammenti di vetro avevano coperto ogni angolo della stanza. Accanto all’armadio c’era una porta murata, una di quelle porte che forse da piccolo Attilio avrebbe aperto, ma che da quando era tornato non aveva avuto nemmeno la forza di notare. Era socchiusa. La spalancò e una scala ripidissima e buia lo condusse verso l’alto, verso un’altra porta nera. Fece molta fatica a salire fino in cima. Quando finalmente raggiunse la seconda porta, capì. La torre. Era lassù che avrebbe trovato Hilde. La vide stesa, bianca, inondata dal sole. Indossava la sottoveste a fiori e le sneakers, un braccio teso sopra la testa, l’altro a sfiorare le cosce nude. La campagna di Molfetta, dall’alto, brillava nel silenzio come un mare verde. Hilde dormiva. Attilio, accecato, rimase immobile ai piedi della ragazza. Impugnò la Canon privo di forze, poi la sfilò e la poggiò sul pavimento. Non poteva. La morte non era mai stata così tangibile. Eppure non sarebbe mai riuscito ad afferrarla, a fermare quel tempo, quel corpo, quella bellezza. Che importa, si disse, e avvertì un dolore al petto. Tutto ciò che desiderava era stendersi accanto a Hilde e chiudere gli occhi al contatto con la sua pelle fredda. Quando Hilde si svegliò era ormai l’una. Le voci di Sue e Lena chiamavano il suo nome dal giardino. Si stiracchiò e pettinò i capelli con le dita. Solo dopo si accorse di Attilio, immobile, rannicchiato come un bambino accanto a lei. Sorrise. Prese la Canon abbandonata sul pavimento e gli scattò una foto, inquadrandogli il viso. GIULIANA ALTAMURA CorpiDiGloria Marsilio #giulianaaltamura #corpidigloria #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
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