![]() 1 “U' giò uè fà app'ccià?”. La voce e il botto sul finestrino mi arrivano talmente all'improvviso da farmi saltare sul sedile. Pure la sigaretta un altro po' mi vola dalla bocca. Al semaforo di via Caldarola staranno quindici macchine incolonnate. Più la mia Seicento. Che poi non è mia. E' di mia madre. Ma a quella mica glie l'ho detto che la prendevo. Figurati. Da quando ho avuto il tamponamento quest'estate sulla complanare, è diventata petulante. Lo fa per farmi sentire in colpa, io lo so. Ma tanto mò ho imparato. Aspetto le sette, la faccio cenare, poi le accendo Radio Maria e non appena si addormenta, zitto zitto me ne esco. Perciò quando ho sentito quella voce mi sono preso uno spavento. Mica ché poteva essere lei che mi sgamava a fumare nella sua macchina. No, quella, poveretta, sta allettata. Non si può manco muovere per andare al bagno. Fortuna che ha me che la posso aiutare. Però lo stesso a sentire sbattere sul finestrino in quel modo, mi sono preso paura. Mi volto appena per vedere con la coda dell'occhio l'ombra che mi si è affiancata a chi appartiene. E' quasi buio, ma sotto il giallo dei lampioni vedo comunque due figure agitarsi su uno scooter. Che cazzo vogliono? Mi stanno attaccati. Mi aggiusto il cappellino a visiera sulla testa pelata e faccio finta di niente. “Auè, capellon'. E c' si 'nghiummat?”, sento gridare più forte. Guardo il semaforo. Ancora rosso. Una leggera pioggerellina sta iniziando a coprire il parabrezza. Accendo i tergicristalli. Ma quelli insistono. "Oh, maccaron', a te stong a disce...". Quello seduto dietro si continua a sganasciare dalle risate e sbatte pacche sulle spalle di quello che è alla guida. Poi un'esplosione sorda e una pioggia di vetri mi scoppia addosso. Il semaforo è diventato verde. Tutti ripartono. Quelli schiamazzano. Io sento il cuore che mi schizza in gola. Madò la macchina di mamma. Scendo. 2 “Và, fusce tr'mon'... Pass' che iè giall'”. Urlo tirando le maniche del giubbotto di Balotè mentre si mette a fare lo slalom fra le macchine che si vanno fermando al semaforo oramai rosso. Ma quello per tutta risposta inchioda, al posto di accelerare. Nella frenata gli frano addosso. Gli tiro una calata sulla nuca. “L' murt d' mamt'. Mo' ma da fà cadè”. E scoppiamo a ridere con le lacrime. E' da stamattina che stiamo a ridere. Mò, oggi stiamo stonati di brutto. Il fratello di Balotelli sta accavallato, se la fa con quelli di San Pasquale e tiene certa roba che te ne devi scappare. L'altro giorno a Japigia pure gli olandesi stavano da lui a comprala. Oh, gli olandesi, non so se mi spiego. Balotelli si chiama Nicola in realtà ma a Bari lo conoscono tutti come Balotè perché c'ha la pelle talmente scura che pare un negro. E poi è malamente, proprio come a Balotelli. “Oh, aspit. Di folla vai?'”mi fa. “Famm' app'ccià na sigaretta”. Si fruga nelle tasche. Niente. “A te 'u so dat'?”, fa sganasciandosi dalla ridarella dopo due secondi che mi fissa. C'ha gli occhi rossi rossi che pure se è sera pare che s'appicciano. Non ce la faccio a vederlo combinato così. Gli esplodo a ridere in faccia pure io. “Eh, rid 'mbacc' o' cazz!”, mi fa lui con le lacrime. “Uè dà l'accendino?”, prova a dirmi serio prima di scattare con la testa in avanti fermandosi solo a due centimetri dalla mia fronte “Mò ti 'a dà nu tuzz'”. Ricominciamo a spintonarci che un altro po' ci cappottiamo col motorino. “Oh, e non u' teng'”. Mi giro. Accanto a noi c'è una Seicento color merda. Il cristiano dentro sta fumando. “Auè”faccio a Balotelli, “Add’mann' a cud', sta a fum u vì?”. Balotelli si gira e bussa al vetro della macchina. “U' giò uè fà app'ccià'?”. Quello fa come se non ci vede. “Balotè, surd iè” faccio a sfottere, nell'orecchio a Nicola. Quello manco a dirlo subito si appiccia. “Auè, capellon' e c' si 'nghiummat?”, fa subito facendomi quasi pisciare sotto dalle risate. Quello dentro s'aggiusta il cappello e ci caca a spruzzo. “Oh, maccaron', a te stog a disc'...”. Balotelli già con la faccia impicciosa che non è più tanto da scherzare s'è abbassato per guardarlo bene dentro la macchina. Poi tira all'improvviso un cazzotto al vetro mandandolo in frantumi. Sento l'esplosione del finestrino che scoppia. Mudù, penso mentre la scossa di adrenalina mi arriva di botto dietro alle orecchie. Il cristiano col cappellino esce dalla macchina. 3 Mi vien da piangere. Sento i vetri in frantumi sotto le scarpe e l'aria fresca avvolgermi le narici. C'è odore di frittura che viene dai condomini vicini. Madò, e mò chi glielo deve andare a dire. Guardo il buco nel vetro e mi prendo la faccia tra le mani. Che abbiamo pure litigato stasera che quella è capa tosta e sta sempre a dire che a quarantadue anni mi vuol vedere sistemato, che mi devo trovare una brava femmina, un lavoro. See, che altro? Ho detto io, e se me ne vado io a te chi ti deve venire a pulire il sedere? Tua figlia che non t'ha mai acchiamendato in faccia?. Non l'avessi mai detto. S'è offesa e ha cominciato a dire che io a quella manco la devo nominare che tiene i guai suoi. Lei tiene i guai suoi?, ho detto. E i guai miei, mà? I guai miei chi cazzo se li deve piangere? Poi, per non far vedere che mi stavano a uscire le lacrime, ho preso e sono sceso. Che io poi una femmina l'avevo pure trovata. Carmela si chiamava. Faceva la barista al bar Iorio, quello pieno di rimmati che giocano alle slot. Ma mamma non tanto la poteva vedere. Diceva che non era seria a lavorare fino alla notte tarda, sempre in mezzo ai maschi. Che qualcosa prima o poi vedevo se non usciva fuori. Oh, mica glielo avevo detto a mamma che aveva avuto ragione. Che l'avevo sgamataun pomeriggio a fare la scocchiata con quell'avanzo di galera di Mincuccio. Non l'avevo portata più a casa e lei non m'aveva chiesto più niente. Così era finita la storia con Carmela. Ma mò... 'sti due trimoni, la macchina di mamma, vedi un poco alla madonna, vedi. 4 “Balotè, l' murt tu. C' cazz' si c'mbnat?” Faccio subito veleno pensando a tutta la roba che teniamo addosso. “Avessa chiamà la madama mò, cud”. Stavamo tanto belli e in grazia di dio oggi. Mocca a Balotelli e a quanto jè n'rvus. E l'ho fatto pure chiavare a bestia stamattina. Che la Rossa stava come alla cagna. Gnuc gnuc gnuc. Mò, uagliò che servizio che c'ha fatto. Forse che a lui l'aveva fatto fare subito e per quello gli era salita un poco la nervatura. Cud' fasce u' uà uà ma la ciola non è che la tiene grossa come a quella mia. Che a me la Rossa me l'ha detto che pure che lui è il boss, a chiavare sono meglio io. Mica però che a Balotelli glielo sono andato a dire. See. Quello capace che la prendeva alla Rossa e la sfraganava di mazzate, sana sana. E dopo pure a me. Ma mò, dico io occorreva a fà tutt' stu casin'?. Co tutta 'sta cazzo di roba addosso che c'abbiamo. N'cul alla razza so'! “Balotè. Sciamanin'. Fusce. Sint' a mè. Lassa perd' a cud. Mò appena diventa verde, piglia e scappiamo!” 5 “Uagnù e mò, come la mettiamo col finestrino?” Quello seduto davanti è alto e c'ha la faccia cattiva. Forse manco diciott'anni tiene. Ma questi sono addestrati come le bestie. C'ha la testa appuntita come quella di un dobermann, tutta rasata ai lati e la cresta come si usa mo'. Sopra due occhialoni da sole enormi bianchi. Sta fuori di brutto, da qua si vede. Non appena mi alluma si gonfia come un pavone. Sta per aprire quella fogna di bocca ma non glie ne do il tempo. La spranga che ho dietro il sedile l'ho presa prima di scendere, nascosta dietro l'avambraccio. Gliela cavo nell'occhio, così, dritto per dritto, e mò vediamo chi cazzo è il cattivo qua dentro. Ecco a che cosa serve mà, che ogni volta che viaggiavamo mi dovevi fare una testa così. E a che ti serve st'arnese mò? Vedi se ti dovesse fermare la polizia e te la trova nella macchina. Nella mia macchina. Ecco mà. A questo serve. Mò l'hai capito? E intanto sento la mia voce rimbombarmi nel petto e nelle tempie. “E mò? E mò? E mòòòò? T''è passata la voglia eh? T'è passaaata??”, glielo grido in testa, con tutto il fiato che c'ho in corpo. “Che la macchina non è mia... è di mia madre, si capit? E' di mia maaadreeee”.Quello dietro intanto con la coda dell'occhio l'ho visto schizzare via dal motorino e dalla mia vita come una zoccola di fogna e sparire sotto la pioggia. E intanto caccio la spranga da dentro l'occhio e gliela riconficco fino in fondo. Una, due, tre, cento volte. Sento la materia vischiosa che mi imbratta la mano, il polso, un unguento caldo come maionese che mi schizza in faccia. Ma io mò si che mi sento finalmente bene. Attorno gira tutto, le urla, le macchine che passano, e io sono un martello pneumatico, un fottuto, cazzutissimo stramaledettissimo martello compressore che annienta e spappola. Finché non sento il corpo di quello accartocciarsi come una marionetta floscia ai miei piedi e il polso farmi male. Butto la spranga per terra e m'infilo in macchina, il semaforo è rosso. Mille occhi mi scrutano, bocche spalancate, mani sulla labbra. Accelero e mi butto a capofitto nel flusso di macchine che attraversano la via, tra i clacson impazziti e le urla e le frenate. Ma io accelero e finalmente non sento più niente, non vedo più niente. Solo i bagliori delle luci che si accendono sulla sera che viene, quelle di un’indimenticabile serata che non tornerà mai più. ![]() RAFFAELLO FERRANTE raffaelloferrante.wordpress.com #raffaelloferrante #orecchiettechristmasstori #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
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![]() Campi Salentina, 15 Km a nord-ovest da Lecce, a metà strada fra Ionio e Adriatico, più vicina a Tunisi che a Milano. Mercoledì 17 agosto, le tre del pomeriggio. Il termometro fisso sui 45 gradi all’ombra. Asfalto molle, strade deserte, silenzio da catastrofe naturale. Per fortuna che l’aria condizionata l’avevano appena riparata. Poi squillò il telefono a incrinare l’immobilismo della controra. Rispose Paolini, 25 anni, appena arrivato da Bastia Umbra. «Prondo?» Cardascia sollevò un sopracciglio, sale e pepe al pari del resto della peluria. Paolini arrossì. E subito dopo assicurò «Arriviamo!» «Un omicidio» spiegò al suo superiore. E intanto tremava. In quel paesone di case bianche dell’entroterra salentino ci era arrivato quasi per punizione. Gliene avevano parlato malissimo e invece lui si era trovato bene: il mare vicino, l’olio buono, le belle ragazze. Nulla di cruento, in quei due mesi. Pareva quasi impossibile credere a una Campi al centro dei regolamenti di conti della Sacra corona unita, negli anni Novanta. «Omicidio?» Cardascia gli rimbalzò la parola, senza fare neanche il verso di alzarsi dalla sedia. Aveva 54 anni, di cui più di trenta passati nei carabinieri. «Sì. Ha chiamato un testimone oculare. Ha parlato di una ragazza nuda... accoltellata su un tetto». Malgrado il caldo, Cardascia rabbrividì. Poi scattò in piedi e: «Presto!» Erano passati vent’anni. Un’altra estate torrida. La ragazza era appena maggiorenne. Ora, forse, sarebbe stata moglie e madre. Se qualcuno, allora, non l’avesse sgozzata in mezzo ai panni stesi. L’auto filava veloce. Niente sirena: in giro non c’era nessuno da far spostare e il rumore avrebbe disturbato il sonno di onesti cittadini. Arrivarono in un pugno di minuti. Suonarono. La porta si aprì. «Professore!» esclamò Cardascia. Tommaso Maci, maestro elementare ormai in pensione, era quel che si dice una brava persona. Si era sposato giovane con Anna Bianco, ’na bona vagnona. Di figli non ne erano arrivati. Coppia unitissima: sempre insieme in chiesa la domenica e alla festa di san Pompilio. Lei era morta due anni prima. Da allora, il professore – come lo chiamavano in paese - non era stato più in sé. Il gran dolore, avevano pensato tutti. L’Alzheimer, avevano diagnosticato i medici. Una forma precoce, a poco più di sessant’anni, ma tant’è. «Venite: la sta ammazzando!» esclamò l’uomo. Aveva radi capelli ondulati troppo lunghi per la sua età, una camicia bianca lisa e macchiata, il viso solcato da venuzze rosse. «Si calmi» lo invitò Cardascia. «Andiamo!» esclamò invece Paolini. «Nu a capitu nienti!» gli ringhiò Cardascia. Poi gli fece segno che l’uomo sragionava. Ma quello insisteva, battendo il piede e indicando il retro. «Assecondiamolo» sussurrò alla fine Cardascia. I tre uomini attraversarono una casa fresca e buia, piena di tavolini polverosi, cuscini fiorati e foto di persone che non c’erano più. In una, loro due: Anna scarna e felice, Tommaso con baffetti spavaldi. Poi uscirono nel giardino. Muri di calce, luce accecante, qualche pianta assetata. Il maestro in pensione imboccò di slancio le scale che portavano “alle terrazze”. Una volta lì, Cardascia fissò l’orizzonte. Divisa in basso da porte e muretti, la città in alto era unita dai tetti. Si passava da uno all’altro, agevolmente. Lui stesso ricordava di averlo fatto più volte, da ragazzo, quando aveva dimenticato le chiavi. «Là». Il più giovane vide solo i tetti della casa accanto. Il più vecchio vide altro, con gli occhi della memoria. All’epoca era già carabiniere, ma nel comando di Lecce. Del delitto, però, se ne era parlato parecchio. La bella ragazza in topless, l’asciugamano colorato e poi uno di quei cartoni riflettenti per abbronzarsi di più. Poi dettagli: occhiali da sole, un libro. La gola squarciata. Era stata uccisa nel sonno, o nel torpore. Qualcuno si era avvicinato di soppiatto, con un coltello. «Eccolo, è là, lo vedete?» il maestro Maci indicò il punto esatto in cui “la milanese” era stata giustiziata, vent’anni prima. «Io non vedo niende» puntualizzò Paolini. Anche allora nessuno aveva visto né sentito niente. Tutti riposavano, in giro neanche una mosca. La ragazza viveva a Milano e passava lì le vacanze a casa di una zia (quel pomeriggio in visita a una parente). Aveva fama di essere un tipo piuttosto disinvolto. na bella fruscula si diceva in paese. All’epoca erano stati sospettati, interrogati e scagionati il cugino e un paio di filarini, tra Campi e Squinzano. Tutti i vicini erano stati sentiti come possibili testimoni. Tra di loro, anche il maestro Maci. Aveva detto che stava facendo la sua solita pennichella e la moglie aveva confermato. E aveva aggiunto: «Io non mi permetto, ma nei giorni prima, da queste parti, si erano visti degli albanesi...» Di loro si erano perse le tracce prima che i carabinieri potessero interrogarli. Per la maggior parte dei campioti, la milanese era stata ammazzata proprio da quei furastieri. Il maestro Maci sgranò gli occhi. Poi sembrò tornare in sé. «Scusatemi. Non c’è niente là». «Sarà colpa del caldo» buttò là Paolini, per smorzare l’imbarazzo. «Già, lo stesso caldo di allora. Un caldo da strapparsi la pelle di dosso» mormorò il maestro. Improvvisamente malfermo sulle gambe, si appoggiò ai due, per scendere le scale. La frescura della casa portò loro un immediato sollievo. «Perdonatemi: è questa malattia maledetta. Un po’sono qui e un po’ chissà...» Cardascia sospirò: sua suocera era stata uccisa dall’Alzheimer. Non che fosse morta, non ancora. Però, come diceva Maci, era altrove. Una teoria voleva che i malati tornassero a un’età in cui erano stati felici. E se quell’età era precedente alla nascita dei figli, neanche li riconoscevano. Così era capitato alla suocera, che ora la figlia la chiamava mamma. Cardascia non raccolse e ripensò alla “visione” di Maci. Forse aveva davvero visto qualcosa, dopo tutto. E ora la malattia glielo stava riportando alla memoria. «Professore, ma lei ha visto chi ha ucciso la stria?» «Chi, la milanese?» Cardascia annuì e aspettò. «Sì, l’ho visto». «Era un uomo?» Maci fece segno di sì con la testa. «Ce lo descrive?» L’anziano scosse la testa. «Non saprei da dove cominciare, con le parole. Ma con il disegno sono rimasto bravino. Il medico quasi non ci crede a come tengo ancora la penna. A scuola facevo fare tanti disegni ai miei bambini». La mano cominciò subito a correre veloce sul foglio bianco, abbozzando una forma con la biro nera. Paolini e Cardascia erano muti, alle sue spalle. Piano piano, il volto emerse. Era quello di un uomo con capelli ricci disciplinati dal gel, occhi scuri e baffi sottili. Cardascia escluse subito i sospettati d’allora. Quello nel disegno non era un ragazzo: aveva almeno quarant’anni. Poi i due capirono. «E’ un autoritratto» sussurrò il ragazzo, all’orecchio del suo superiore. Cardascia assentì, e chiese a Maci: «Dove ha visto quel volto, professore?» L’indice si alzò, tremante, in direzione della casa accanto. «Laggiù». Oltre i muri spessi, la scena di allora riprendeva di nuovo vita, nei loro occhi. I due carabinieri si scambiarono uno sguardo muto. «Perché lo ha fatto?» gli chiese allora Cardascia. Come se la domanda lo avesse svuotato dalle sue ultime energie, Maci si lasciò cadere su una sedia. Fu allora che Cardascia provò una grande rabbia. Non solo per quello che Maci aveva fatto allora. Ma perché considerasse la sua età più felice – e forse la sua memoria più dolce – quella in cui aveva massacrato la milanese. Forse non ne condivideva i comportamenti leggeri. Forse ci aveva provato con lei e ne era stato respinto. Quello non lo avrebbero probabilmente mai saputo. Ma, tutto sommato, era un dettaglio. Qualche ora dopo, quando la vicenda si trovava nel pieno del suo clamore, Paolini si affacciò nell’ufficio del suo capo. «Ha un momendo?» Nonostante il casino, Cardascia sorrise: trovava quell’accento divertente. «’ieni, trasi» lo invitò allora. Giocava in casa e poteva permettersi di parlare come cazzo voleva, lui. «Capirei la confessione, ma perché fingersi un testimone del delitto che ha commesso lui?» Cardascia, in principio, si limitò a un piccolo sospiro: il ragazzo non era intuitivo, ma compensava con lo scrupolo. Tra i vari mix, quello non era dei peggiori. «Ma lui non ha fatto finta!» Paolini scosse la testa. «Ma è assurdo: come fa ad aver visto se stesso che uccideva la ragazza?» Aveva un vantaggio, Cardascia, conosceva la scena del crimine. Quindi volle mettere Paolini al suo livello. E gli raccontò che cosa venne trovato sul tetto accanto alla ragazza accoltellata. Nessuna traccia dell’arma, ma vari oggetti. E Paolini ancora non ci arrivava. «Non hai capito qual è la chiave di tutto?» gli domandò alla fine Cardascia, con un italiano da telefilm poliziesco. Paolini sospirò e scosse ancora la testa. E poi tentò: «Tracce di Dna?» Cardascia sbuffò. «All’epoca non si parlava di Dna. All’epoca i casi si risolvevano con le indagini e la logica!» Breve silenzio, tra i due. «Il cartone argentato» rivelò Cardascia. «Eh?» «Massì, quello che la ragazza usava per abbronzarsi più velocemente». Paolini incurvò le labbra a manifestare una totale ignoranza. «Non va più di moda fra voi ragazzi? Forse oggi si usa solo per non far riscaldare la macchina». Un lampo di comprensione illuminò il volto di Paolini. «Capisci? Maci si è avvicinato alla ragazza per ucciderla e si è visto riflesso in quel cartone. Poi l’ha uccisa. Nel tempo, la malattia – e forse anche il rimorso – ha riportato a galla quel ricordo, e quell’immagine». «Questo vuol dire che magari, mentre faceva quell’identikit, non si rendeva conto di incolpare se stesso?» Cardascia annuì. «Che storia. Vado subito a scriverlo su Twitter!» Cardascia cercò di fermarlo. Ma era tardi. Per Twitter e per molto altro. Fine. ![]() LUCIA TILDE INGROSSO www.luciatildeingrosso.it #luciatildeingrosso #anozzecoldelitto #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook ![]() Ecco il nuovo barattolo. Aldo sale in piedi sul letto e ripone il vasetto sulla lunga mensola. Lo sistema tra decine di altri contenitori tutti uguali e sistemati in fila ordinata. Stac-Staaaaac. Si sente un suono vibrare tra le sottili pareti di vetro del recipiente. Il bambino attacca in bella vista un’etichetta rossa: “Occhi neri”. — Cataldo, vieni a mangiare. — Un attimo, ma’. Arrivo subito. — Stai perdendo ancora tempo con quei barattoli? — No, ma’. — Vieni che la cena si fredda. — Ma papà non è tornato, ma’. — Non tornerà, stasera. In fabbrica c’è assemblea. Vieni a mangiare. Il bambino scende dal letto. Guarda un’ultima volta i suoi barattoli e corre in cucina. Si lava le mani e si siede a tavola. Aldo è piccolo, ma molto preciso e ubbidiente. — Mamma, ma papà rischia di perdere il lavoro? — E che ne vuoi capire tu, che hai dieci anni. — Le maestre ne hanno parlato a scuola. La mamma abbassa la testa nel piatto e perde lo sguardo tra gli spaghetti al sugo, quando finisce Cataldo è lì a guardarla dritta negli occhi, con la forchetta rimasta a mezz’aria. — Aldino, non ti preoccupare. C’è stato un brutto sequestro della magistratura e la proprietà minaccia licenziamenti e mobilità all’Ilva, ma i Riva non li affonda nessuno. Bisognerà stringere i denti per un po’ e poi passata la buriana loro torneranno a produrre come prima e più di prima e noi a cenare a un orario normale...tutti insieme. Cataldo non fa più domande, finisce il suo piatto di spaghetti, aiuta la mamma a sparecchiare la tavola e aspetta per asciugare i piatti. Lei poi si accende una sigaretta e si piazza davanti alla tv e lui torna in camera sua. I barattoli sono divisi in due file. Sulla prima linea le etichette rosse. Lungo la seconda quelle blu. Cataldo si mette il pigiama. Poi apre un barattolo. Strach. Ssssstracccch. E lo richiude. Sull’etichetta si legge: “Corde di canapa”. Un altro. Toc. Toc. Sssstooc. “Troccola”. Uiu. Uiu. Uiiiiiiu. “Gabbiani”. Flll. Flll. Flll. “Papaveri”. Sclash. Sclash. Scaaaalsh. “Onde”. Ole. Yiuppi. Yeah. Uahhh. “Bambini” Stac. Stac. Stac. “Occhi neri”. E Cataldo, che ha la mania della precisione, aggiunge sull’etichetta: “Cozze”. Vrrr. Vrrrr. Vrrrr. “Libellula piccola”. Cataldo continua ad aprire e chiudere i suoi barattoli. Solo quelli con le etichette rosse, però. Quelli con le etichette blu, li scansa, li evita. Sulle etichette blu si legge: “Telegiornale”. “Manifestazione”. “Macchine”. “Motore”. “Caldaia”. “Forno”. “Parole”. “Fumo”. “Paura”. “Lacrime”. “Mamma”. — Perché su quel barattolo c’è scritto lacrime? Cataldo si volta di scatto. È suo padre. È tornato a casa. E il piccolo gli va incontro sulla soglia della sua camera. — Sei stanco pa’? — Un po’. — Sei triste? — Un po’. — Ma perderai il lavoro? — Credo di no, ma tu non ti devi preoccupare sei solo un bambino. Il papà di Cataldo è un ragazzo. Può avere poco più di trent’anni. Capelli ricci e faccia abbronzata. È un operaio specializzato dell’Ilva. È entrato in azienda cinque anni fa, quando suo padre, il nonno del piccolo Cataldo, è andato in pensione. E anche Cataldo, quando il mese scorso la maestra di Italiano gli ha chiesto di scrivere un tema dal titolo Che farai da grande, ha scritto:“L’operaio Ilva, come il nonno e papà”. Anche se a Cataldo la grande industria che produce acciaio fa molta paura. La maestra a scuola ha spiegato a tutti cosa è l’inquinamento e quali sono i rischi per la salute, ha usato una frase che fa davvero fifa: “Emergenza sanitaria”. Ma a Cataldo l’Ilva fa venire la tremarella soprattutto perché faceva paura a sua nonna Maria. — Non saremo mai ricchi, ma papà ha uno stipendio certo ogni fine mese e tu, piccolo mio, non ti devi preoccupare di niente. Il nostro padrone è molto forte e anche se sui giornali leggi che è tutto bloccato, non è vero. Noi produciamo come prima e più di prima. L’Ilva non si ferma mai. Il papà abbraccia Cataldo, la sua piccola testa, le sue piccole mani, le sue guance paffute e lo mette a letto. Gli rimbocca le coperte, proprio come si vede che i papà fanno nei film. — Non hai risposto alla mia domanda, però? Il papà prende in mano il barattolo con la scritta azzurra:“Lacrime”. Lo apre. Non succede niente. E lo richiude. — Papà, lo sai che è un segreto. — Sì, un segreto tuo e di nonna Maria. — Bravo. — La nonna era una mezza matta, piccolo mio. — A me la nonna piaceva e poi gliel’ho promesso. Il papà spegne la luce e Cataldo affonda la testa nel cuscino. In cucina sente i suoi genitori prima parlare un po’, poi darsi un bacio ...e una porta chiudersi. Poi più nulla. Quando in casa non sente più rumori Cataldo si alza in piedi sul letto e guarda la sua collezione. Il primo barattolo glielo ha regalato nonna Maria, poco prima di morire. Sopra c’è una scritta rossa: “Fresie”. Sono il suo fiore preferito. - Aldo, piccolo Aldo mio, questa città era una città allegra, colorata, viva. Quando nonna era una bambina come te c’erano i pescatori che ogni venerdì sera tornavano in porto con le barche cariche di pesce e si faceva festa, si cenava tutti insieme e si beveva vino primitivo. Mangiavamo pagnottelle e merluzzo fresco come il mare. E c’erano gli allevamenti di cozze, quelle piccole, nere e pelose che ci hanno resi famosi in tutto il mondo. C’erano gli artigiani e i pastori. Noi eravamo una famiglia di contadini. Coltivavamo pomodori e carciofi, avevamo le galline e pure una capra. L’aria era sottile e pulita e si sentivano i profumi di ogni cosa. Aldo adorava ascoltare i racconti della nonna. Passava insieme a lei lunghi pomeriggi, soprattutto l’estate quando prendevano il “15” per andare a mare a Lido Azzurro e poi si facevano l’ultimo tratto, dalla stazione casa, a piedi. - Ma poi sono arrivati i camini e tutto e cambiato. La nonna non chiamava mai l’Ilva con il suo nome, diceva sempre i “camini”. Come chiamava la polvere nera che si poggiava ogni sera sui balconi e sui panni stesi ad asciugare semplicemente “il minerale”. La nonna si è ammalata di “un brutto male”, come tutti lo hanno chiamato. Aldo non ha capito molto. Sa solo che un’estate la nonna non lo ha accompagnato più a mare, a settembre gli ha regalato il barattolo e a dicembre è morta. — Taranto è una città piena di suoni e di voci. Raccogli tutte le voci di Taranto e conservale, perché presto spariranno. E prima delle altre spariranno le più belle. Gli ha detto la nonna, quando gli ha affidato il barattolo delle “Fresie”. Aldo ha iniziato la sua collezione quando aveva otto anni. Ha diviso i suoni belli da quelli che gli fanno paura. Etichette rosse ed etichette blu. All’inizio i suoni con le etichette rosse erano molti di più. Ma ora, stanno diminuendo e aumentano le etichette blu. Sono tutti suoni legati ai camini: “fiammata”, “lavoro”, “sirena”, “marcatempo”, “manifestazione”, “blocco stradale”, “elettrocardiogramma”, “ecografia”, “studio medico”, “busta paga”. Spesso quando suo padre va al lavoro Aldo gli infila un barattolo nello zaino, con il coperchio aperto, e la sera lo recupera di nascosto, sente il rumore che è finito nel barattolo e lo etichetta. È riuscito così a catalogare rumori molto preziosi. Aldo prende il barattolo “Fresie” e lo poggia sul cuscino. Lo apre un po’. Sottile esce la voce della sua nonna. — Conserva le voci della Taranto bella. Aldo chiude il barattolo e si addormenta. Domani vuole prendere il bus numero 15 ed andare al mare, per catturare il suono del tramonto, quello a strisce gialle e rosse che solo Taranto ha. * Questo racconto è dedicato a Maria Carmen Morese del Goethe Institut, ad Alessandra Eramo e ai cinque artisti berlinesi che sono venuti a Taranto nell’ottobre 2013 per raccogliere i suoni della città e trasformarli in un percorso artistico dal nome “Correnti seduttive”. A loro che mi hanno insegnato ad ascoltare la voce di Taranto. ![]() CRISTINA ZAGARIA www.cristinazagaria.it #cristinazagaria #veleno #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook ![]() I posti che mi hanno formato sono, pur se nella terra più arida d'Italia, la Puglia, fra due fiumi: il Gàlaso e il Galèso (esiste in Mediterraneo, o almeno dalle nostre parti, un radicale “g-l”, pre-greco, che significhi “fiume”, “acqua”?). I fiumi scorrono dalla sorgente alla foce e per questo sono metafora della vita; ma per me la costruzione della coscienza cominciò alla foce del Gàlaso, e il percorso dell'infanzia si concluse con un rito di passaggio nella sorgente del Galèso. All'incontrario, come la memoria. Naturalmente, con questa limpidezza lo vedo adesso, a distanza, guardando al me che fui, come fosse un altro. Il Gàlaso sfocia a Ginosa Marina, nel Tarantino, affiorando quattro chilometri a monte, dove lo zoccolo carsico della Murgia si abbassa per scendere nello Jonio. Eravamo poche decine di persone, a Ginosa Marina (allora chiamata Venticinque, dal numero di casello ferroviario), quando ero bambino, nel Paleolitico superiore: decine di chilometri di pineta a Est, decine a Ovest, qualche chilometro di pineta alle spalle, a Nord, interrotta da coltivi (specie carote, “i past'nache”), su terra salmastra che era stata palude e fu bonificata da mio nonno materno, di cui porto il nome. E davanti, a Sud, il mare, con una spiaggia profonda, che si alza in lente dune, su cui radi cespi s'infittiscono, sino all'infestante miseria (che però è grassa...), al sottobosco, al bosco. Alla foce, il Gàlaso rallenta, si allarga e si fa poco profondo: guadabile anche da un bambino. Ma io non lo feci mai, perché mi convinsi che il fiume segnasse la fine del mondo e tutto quello che vedevo dall'altra parte, sulla sponda destra, fosse immateriale, fatto di aria: piante, mare, radi uomini inclusi. Spiavo, giornate e giornate, affascinato e impaurito, quel mondo di nulla ma così simile, uguale al vero, per coglierne il segreto. Ho raccontato questa storia in "Elogio dell'errore". C'era un amico di mio padre che veniva a trovarci a casa, i pomeriggi d'estate e, mentre conversava con papà, sbucciava e ci porgeva fichi d'india che traeva da una vaschetta di latta, in cui erano stati messi a galleggiare, per nettarli dalle spine. Quell'uomo giungeva dall'altra riva, ma lo toccavi, non era apparenza. Così capii che le persone fatte di aria sulla sponda destra si materializzavano sulla sponda sinistra del Gàlaso; a produrre il cambio di stato (lasciando immutata la loro vera natura, si capisce: non erano come noi) era il ponte sul Gàlaso, il cui attraversamento segnava il passaggio da un mondo a un altro. Avevo cinque anni, quando da Ginosa Marina ci trasferimmo a Taranto. E fu un trauma: io sapevo chi erano gli esseri d'aria, nel nostro villaggio: quelli che venivano dall'altra parte del fiume. Ma a Taranto? Fra tutta quella gente, in una città, come riconoscerli? Scrutavo, spiavo, cercando di non far scoprire che sapevo. Non ricordo quando questa idea mi abbandonò, si perse. Ma so quando superai il limite postomi dal fiume: ero appena adolescente e, dal rione Tamburi, dove ci eravamo stabiliti, noi ragazzini facevamo i bagni a Mar Piccolo. I più grandi, invece, segnavano la differenza di età e capacità, optando per la sorgente del Galèso, uno dei fiumi più piccoli del mondo: 900 metri di lunghezza, ma una portata enorme, quattromila litri al secondo (un angolo di paradiso ora violentato: le palme, la pineta, gli eucalipti; cantato dai maggiori poeti, dall'antichità a oggi). Il Galèso erompe gelido, dopo il lungo e ignoto percorso sotterraneo, l'acqua innervata da tremuli filetti come di ghiaccio, d'un colore elettrico. Andavamo a piedi, dai Tamburi al mare, al fiume. Si arrivava ansanti e sudati. E i “grandi” si sfidavano: il più audace è “colui che primamente” si tuffa accaldato nella sorgente. Choc termico che era costato la vita a qualcuno, si raccontava («Un amico di mio cugino...»). Altri ne vedemmo soccorsi, in difficoltà, a mordere l'aria. Noi piccolini commentavamo, fra ammirazione e giudizioso rimprovero (come da istruzioni, alle quali ci faceva comodo attenerci). Finché un giorno cacciai un urlo e mi buttai nella sorgente. Entrò in acqua un adolescente sudato; riemerse, con qualche momentaneo problema di respirazione, la promessa di un uomo. Per “quelli dei Tamburi”, era un rito di iniziazione. Circa venticinque anni dopo, tornai alla foce del Gàlaso. Fui colto da violenta, inspiegabile paura; cominciai a tremare sempre più forte e non capivo perché. Poi, mano a mano che mi calmavo, cominciò a riaffiorare il ricordo degli esseri d'aria, che avevo perduto. Iniziai, da lì, una ricerca. Dalla foce alla sorgente, all'indietro, come la memoria. ![]() PINO APRILE www.pinoaprile.it #pinoaprile #terroni #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
![]() Saranno stati sessanta gradi. Forse settanta. Di certo l’aria, quella mattina, era rarefatta. Il sole, entrava dalle fessure e si andava a posare, o meglio a spiaccicare, proprio lì, sul tuo volto. Dolce e invadente, di sicuro prepotente. Ti giri dalla parte opposta, con un movimento acrobatico inverti la posizione della testa con quella dei piedi. Assaggi un sorso d’ombra finché l’istinto di sopravvivenza ti costringe ad uscire da quella tenda. Ti stiracchi, guardi i volti dei tuoi amici, cerchi una giustificazione convincente. Che non trovi. “Ma come cazzo farai a dormire la dentro? Ti avrei svegliato a pugni per il nervoso” “Che ore sono?” chiedi con innocenza, eludendo la risposta. “Le undici e mezza. E io sono sveglio dalle 7” risponde Francesco. “Mattutino” “Coglione” non alza nemmeno lo sguardo, intento com’è a inzuppare biscotti nel latteecaffè. “Ho provato a resistere, ma l’aria là dentro è rarefatta, tu non sei umano”. “Vado a farmi una doccia”. Ogni anno la stessa storia: il sole non si sposta mai da lì. Se c’è una cosa di cui puoi andare certo è che se vai nello stesso posto per cinque anni di fila il sole sorgerà alla stessa ora, nello stesso punto e con la stessa intensità dell’anno precedente. E altresì che voi, campeggiatori improvvisati (e sì, perché improvvisati si nasce), monterete una tenda nel punto più assolato del globo. Ritorni assonnato e bagnato, ma già fresco, pronto per sentire l’ebbrezza di una nuova giornata. “Dovremmo spostare la tenda” quello di Francesco sembra un ordine, più che un consiglio. “Magari più tardi, andiamo a mare prima” “Non torneremo mai e stasera non ci sarà il sole” “Tra un paio d’ore torniamo. Promesso” Sembri aver convinto Francesco, un po’ meno te. Imbracci la chitarra e ti avvii verso la spiaggia. Ognuno di voi porta qualcosa con sé: chi un pallone, chi uno strumento musicale, chi una bottiglia di Peroni. Le ragazze vi guardano, magari per via di accessori discutibili. A sinistra c’è l’accampamento dei tedeschi, a destra quello dei polacchi, una ragazzina ti sorride e stasera le chiederai di ballare con te. Se solo riuscissi a strapparle un bacio. Pensieri pudici, in fondo. Davanti a te le case bianche di Peschici. La bellezza, un po’ tracotante, di una città affacciata sul mare. Non vi dite niente, perché non c’è bisogno di dire nulla davanti a tanto fascino. Ti lasci sedurre dai tornanti che dal mare portano in paese. Li hai percorsi in macchina e a piedi, salite e discese, cosa non si fa per una ragazza. Hai venti anni e nulla può intaccare la tua felicità. Non in quel posto almeno. Non al Parco degli Ulivi. Non a Peschici. Per arrivare in spiaggia devi attraversare la strada e passare attraverso un sentiero polveroso e assolato, ma il caldo è solo l’ultimo gradito ostacolo, quello che rende ancora più bello il primo tuffo della giornata. E il desiderio di accelerare il passo verso il mare cresce. Occupate uno spazio a caso. Niente ombrelloni, niente sedie, niente lettini. Qualcuno non tira fuori neanche il telo dallo zaino. Il vostro paradiso è fatto di baci rubati e labbra salate. Di palloni e pallonate, di panini farciti fino all’impossibile. Prosciutto, provolone, melanzane e pomodori secchi sott’olio del Gargano, grazie. Posi la chitarra sulla sabbia come un moderno Re Artù, controlli che l’accordatura sia a posto passando le dita sul capotasto misisolrelami e via, correndo, verso l’acqua. Uno, due, tre balzi sicuri, poi lasciare che siano le onde a farti inciampare dolcemente sull’onda che arriva. L’acqua non è fredda, ti protegge e ti accoglie; ti rassicura come quelle case bianche sulla destra. Sollevi la testa e la giri in direzione di posti conosciuti: la pizzeria La Vampa, Derby, il vicolo che porta da Mario, l’enoteca degli artisti. Decidi in quel preciso momento che Peschici sarà il tuo posto nel mondo, quello dove un giorno comprerai una casa. Lo prometti ben sapendo che le promesse valgono anche a vent’anni. Chiudi gli occhi e ti lasci accarezzare da quel vento così cortese. Pensi, e ne sei sicuro, che il clima perfetto esista. Non nella tua tenda ovviamente. “Te la senti” chiedi, ancora bagnato, a Francesco. “No, ma non mi sveglio anche domani alle sette per colpa tua”. “Veramente sei stato tu a dire di montarla lì perché stavolta eri sicuro, Copernico” “E sì, perché tanto a te che te ne frega, tu dormi pure sui chianconi” Ripercorrete il sentiero, stavolta con le case bianche a sinistra e gli ulivi a destra. Cercate di portare i vostri pensieri all’ombra prima di arrivare nel punto più torrido del campeggio: la vostra piazzola. Smontate la tenda con la sicurezza di chi dovrebbe poi rimontarla con la stessa autorevolezza da campeggiatore esperto. E invece no: un ferro di troppo, un laccio legato male e un picchetto che non ne vuole proprio sapere di andare giù nel terreno. Inizi a martellare tirando i fili di quella che sarebbe stata la vostra casa per le successive due settimane. Un picchetto qua, un altro là, un sorriso ad una bella straniera, una bestemmia al faidate. Dovevate metterci mezz’ora, se ne vanno tre ore. E avanzano sempre un picchetto e un bastone di ferro, chissà perché. “Saranno di riserva” dice Francesco per liquidare la questione “Sì, sarà così” lo assecondi, ben sapendo che nessuno mette dei ferri e dei picchetti di riserva nelle tende. Ma Peschici è lì che vi guarda e vi aspetta per raccontarvi un’altra storia. Lasciate il martello per terra e riprendete la strada per il mare. Il giorno è ancora lungo e la felicità è lì, a pochi metri da voi. Pensi a come sarebbe bello se avanzasse anche un po’ di questa felicità. Quella dei tuoi vent’anni a Peschici. ![]() CRISTIANO CARRIERO cristianocarriero.me #cristianocarriero #domanino #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
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