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Il ponte sul Galaso

3/9/2014

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    I posti che mi hanno formato sono, pur se nella terra più arida d'Italia, la Puglia, fra due fiumi: il Gàlaso e il Galèso (esiste in Mediterraneo, o almeno dalle nostre parti, un radicale “g-l”, pre-greco, che significhi “fiume”, “acqua”?).
    I fiumi scorrono dalla sorgente alla foce e per questo sono metafora della vita; ma per me la costruzione della coscienza cominciò alla foce del Gàlaso, e il percorso dell'infanzia si concluse con un rito di passaggio nella sorgente del Galèso. All'incontrario, come la memoria. Naturalmente, con questa limpidezza lo vedo adesso, a distanza, guardando al me che fui, come fosse un altro.
    Il Gàlaso sfocia a Ginosa Marina, nel Tarantino, affiorando quattro chilometri a monte, dove lo zoccolo carsico della Murgia si abbassa per scendere nello Jonio. Eravamo poche decine di persone, a Ginosa Marina (allora chiamata Venticinque, dal numero di casello ferroviario), quando ero bambino, nel Paleolitico superiore: decine di chilometri di pineta a Est, decine a Ovest, qualche chilometro di pineta alle spalle, a Nord, interrotta da coltivi (specie carote, “i past'nache”), su terra salmastra che era stata palude e fu bonificata da mio nonno materno, di cui porto il nome. E davanti, a Sud, il mare, con una spiaggia profonda, che si alza in lente dune, su cui radi cespi s'infittiscono, sino all'infestante miseria (che però è grassa...), al sottobosco, al bosco.
    Alla foce, il Gàlaso rallenta, si allarga e si fa poco profondo: guadabile anche da un bambino. Ma io non lo feci mai, perché mi convinsi che il fiume segnasse la fine del mondo e tutto quello che vedevo dall'altra parte, sulla sponda destra, fosse immateriale, fatto di aria: piante, mare, radi uomini inclusi. Spiavo, giornate e giornate, affascinato e impaurito, quel mondo di nulla ma così simile, uguale al vero, per coglierne il segreto. Ho raccontato questa storia in "Elogio dell'errore".

    C'era un amico di mio padre che veniva a trovarci a casa, i pomeriggi d'estate e, mentre conversava con papà, sbucciava e ci porgeva fichi d'india che traeva da una vaschetta di latta, in cui erano stati messi a galleggiare, per nettarli dalle spine. Quell'uomo giungeva dall'altra riva, ma lo toccavi, non era apparenza. Così capii che le persone fatte di aria sulla sponda destra si materializzavano sulla sponda sinistra del Gàlaso; a produrre il cambio di stato (lasciando immutata la loro vera natura, si capisce: non  erano come noi) era il ponte sul Gàlaso, il cui attraversamento segnava il passaggio da un mondo a un altro.
    Avevo cinque anni, quando da Ginosa Marina ci trasferimmo a Taranto. E fu un trauma: io sapevo chi erano gli esseri d'aria, nel nostro villaggio: quelli che venivano dall'altra parte del fiume. Ma a Taranto? Fra tutta quella gente, in una città, come riconoscerli? Scrutavo, spiavo, cercando di non far scoprire che sapevo.
    Non ricordo quando questa idea mi abbandonò, si perse. Ma so quando superai il limite postomi dal fiume: ero appena adolescente e, dal rione Tamburi, dove ci eravamo stabiliti, noi ragazzini facevamo i bagni a Mar Piccolo. I più grandi, invece, segnavano la differenza di età e capacità, optando per la sorgente del Galèso, uno dei fiumi più piccoli del mondo: 900 metri di lunghezza, ma una portata enorme, quattromila litri al secondo (un angolo di paradiso ora violentato: le palme, la pineta, gli eucalipti; cantato dai maggiori poeti, dall'antichità a oggi). Il Galèso erompe gelido, dopo il lungo e ignoto percorso sotterraneo, l'acqua innervata da tremuli filetti come di ghiaccio, d'un colore elettrico.
    Andavamo a piedi, dai Tamburi al mare, al fiume. Si arrivava ansanti e sudati. E i “grandi” si sfidavano: il più audace è “colui che primamente” si tuffa accaldato nella sorgente. Choc termico che era costato la vita a qualcuno, si raccontava («Un amico di mio cugino...»). Altri ne vedemmo soccorsi, in difficoltà, a mordere l'aria.
    Noi piccolini commentavamo, fra ammirazione e giudizioso rimprovero (come da istruzioni, alle quali ci faceva comodo attenerci). Finché un giorno cacciai un urlo e mi buttai nella sorgente. Entrò in acqua un adolescente sudato; riemerse, con qualche momentaneo problema di respirazione, la promessa di un uomo. Per “quelli dei Tamburi”, era un rito di iniziazione.
    Circa venticinque anni dopo, tornai alla foce del Gàlaso. Fui colto da violenta, inspiegabile paura; cominciai a tremare sempre più forte e non capivo perché. Poi, mano a mano che mi calmavo, cominciò a riaffiorare il ricordo degli esseri d'aria, che avevo perduto.
    Iniziai, da lì, una ricerca. Dalla foce alla sorgente, all'indietro, come la memoria.

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PINO APRILE
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