Quando arrivò a Galugnano Ahmed aveva solo dieci anni. Era partito dal Marocco, con la madre e il fratello maggiore Said, a bordo di una navicella che cadeva a pezzi. La sua è una storia come tante, una dura realtà di gente che s’è quasi ammazzata per approdare nel Bel Paese. Partire un bel giorno a cercare fortuna. Partire e forse non tornare mai più. Suo padre era morto poco più che adolescente, e da allora l’intero peso della famiglia gravava sulle spalle di sua madre Naima, una bambina pure lei. Ma Naima era morta in mare, insieme a tanti altri sventurati, quel maledetto giorno in cui s’imbarcarono. Così Ahmed e Said erano rimasti soli, i parenti tutti lontanissimi, gli amici poco più che un ricordo. La prima volta che c’incontrammo, io mi presentai con tono ufficiale, come fossi un ambasciatore: «Piacere, il mio nome è Mario Lazzi», tanto che Luigi, mio cognato, uno molto giovanile, mi prese in giro: «Ma chi minchia è che parla così! Non stai alla televisione». I due ragazzini mi guardarono fiduciosi. Said serio serio. Ahmed mi sorrise. La prima cosa che Ahmed vide, prima che all’orizzonte gli si parasse il mio paesucolo, fu la minuscola murgia galugnanese, che qui chiamiamo Li Caggiuni. Brullo e pallido, il piccolo rilievo apparve brulicante di vita a quel bambino venuto dal deserto. Me lo confidò Said in una delle sue rare concessioni alla chiacchiera. Sì, per Said il solo riferire qualcosa all’insaputa del fratello, fosse anche un’innocua bazzecola, era quantomeno inopportuno. Adesso Ahmed ha venticinque anni, e Li Caggiuni sono la sua seconda casa. Ahmed di mestiere fa il venditore ambulante di vestiti. Insieme a Said si sveglia all’alba per caricare il furgoncino e partire poco prima delle sei. Delle volte mi capita di passare a piedi davanti a casa loro, e allora sento i due fratelli intonare cantilene che a me paiono preghiere. Hanno voci profonde e suadenti, che mi portano alla mente certe litanie di stampo ferrettiano. Altre volte trovo Ahmed sulla porta. Mi fa segno e mi dice: «Ciao amico, come sta oggi il cuore?». Già, mi domando io, come sta oggi il mio cuore? Me la cavo con un «Tutto a posto», e lui mi sorride. Mi viene da pensare se sia poi così ingenuo da non capire che la mia è solo una frase di circostanza. Ma di tempo per scervellarmi con queste pippe mentali non ne ho. Qui siamo sempre di corsa, ché bisogna portare a casa la pagnotta. Anch’io faccio l’ambulante, però non vendo vestiti come Ahmed. Io c’ho un alimentari. Vendo salami, mortadelle, olive, sarde, cose così. Sistemo la mia bancarella al centro di Piazza Vittorio Emanuele ogni santo mercoledì. Il mercoledì è il giorno che tocca al mio paese, ché non sto nel basso Salento. Giorno ricco, si fa per dire. Ahmed e Said piazzano la loro bancarella di fianco alla mia. Said è sempre serio, Ahmed mi sorride. Devo essere sincero: più di una volta avrei voluto dirgli “Che cazzo c’hai da ridere!”, ma mi sono trattenuto. Non per educazione, no. Avevo capito – anche se non volevo accettarlo– che lui era felice così, con quel pochissimo che aveva. Allora guardavo in basso. Miravo al basolato, che nel punto dove mi piazzavo io con la mia baracca si trasformava in un bel gallo. Lo stemma di Galugnano. E proprio il gallo fissavo, un po’ stranito. Io non ero felice con quel poco che avevo. Io volevo di più. Mi sembrava una cosa giusta volere di più. Una cosa per la quale il fior fiore dei comunisti di mezzo mondo s’era spaccato il culo. Ma adesso è tutta un’altra cosa. Adesso non va bene un cazzo di niente. Tutti a volere tutto per loro stessi, altro che Comunismo. Io per primo. Lo confesso. E confesso che almeno una volta ho pensato – sì una merda di volta l’ho pensato – che Ahmed e Said m’avessero rubato la piazza. Che idea stronza! Loro vendono vestiti e io salami. Due cose che non c’entrano una mazza. Eppure l’ho pensato. E me ne vergogno. Dopo quella volta, però, non l’ho più pensata una cosa tanto fiacca e leghista. Ahmed e Said sono diventati amici miei. Ma amici amici, non tanto per dire. Ahmed l’ho perfino portato avanti nella lista civica “Noi per voi”. Lista che pendeva a sinistra, ovviamente. E qualche voto l’ha pure preso, ché a Galugnano sta simpatico a molti. Nonostante i soliti facinorosi. E nonostante suo fratello ripetesse a manetta di voler costruire una moschea di fianco alla chiesa dell’Annunziata. «Quisti su’ pacci» commentò Angiolino, fruttivendolo. Pure lui ambulante. Non poteva concepire, nemmeno col pensiero, che all’Annunziata si accostasse una qualsiasi altra costruzione. «Era meju fazzanu le strade» sbottò Tommaso, il meccanico, indicando una ad una le buche sull’asfalto. Ma poi la storia di Ahmed assessore si risolse nel nulla, e buonanotte ai suonatori. La vita di Ahmed è divisa tra la piazza, Li Caggiuni e la Scaliddhra, una discesa dalla pendenza pazzesca in direzione della vecchia strada per Caprarica. Quando non caccia fuori la bancarella coi vestiti, Ahmed fa il bracciante a ore. Sempre al lavoro. Sempre. Almeno io, per mangiare, faccio una cosa sola. E quando smonto tutto e torno dal lavoro, a casa ci sto al massimo un’ora. Vado al bar e mi bevo un paio di bicchierini. Almeno questo. Sennò uno che campa a fare! Verso le cinque del pomeriggio Ahmed è di ritorno dalla Scaliddhra. A quell’ora io sono al bar. Lui mi vede da lontano e mi fa un cenno con la mano, sempre sorridente. Poi urla per tre volte al mio indirizzo «Mario, Mario, Mario», quasi cantando. Ecco, penso, il sorriso di Ahmed vale tutta una vitaccia. E vale tutto un paese. GIANLUCA CONTE glucaconte.blogspot.it #gianlucaconte #caniacerbi #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
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Campi Salentina, 15 Km a nord-ovest da Lecce, a metà strada fra Ionio e Adriatico, più vicina a Tunisi che a Milano. Mercoledì 17 agosto, le tre del pomeriggio. Il termometro fisso sui 45 gradi all’ombra. Asfalto molle, strade deserte, silenzio da catastrofe naturale. Per fortuna che l’aria condizionata l’avevano appena riparata. Poi squillò il telefono a incrinare l’immobilismo della controra. Rispose Paolini, 25 anni, appena arrivato da Bastia Umbra. «Prondo?» Cardascia sollevò un sopracciglio, sale e pepe al pari del resto della peluria. Paolini arrossì. E subito dopo assicurò «Arriviamo!» «Un omicidio» spiegò al suo superiore. E intanto tremava. In quel paesone di case bianche dell’entroterra salentino ci era arrivato quasi per punizione. Gliene avevano parlato malissimo e invece lui si era trovato bene: il mare vicino, l’olio buono, le belle ragazze. Nulla di cruento, in quei due mesi. Pareva quasi impossibile credere a una Campi al centro dei regolamenti di conti della Sacra corona unita, negli anni Novanta. «Omicidio?» Cardascia gli rimbalzò la parola, senza fare neanche il verso di alzarsi dalla sedia. Aveva 54 anni, di cui più di trenta passati nei carabinieri. «Sì. Ha chiamato un testimone oculare. Ha parlato di una ragazza nuda... accoltellata su un tetto». Malgrado il caldo, Cardascia rabbrividì. Poi scattò in piedi e: «Presto!» Erano passati vent’anni. Un’altra estate torrida. La ragazza era appena maggiorenne. Ora, forse, sarebbe stata moglie e madre. Se qualcuno, allora, non l’avesse sgozzata in mezzo ai panni stesi. L’auto filava veloce. Niente sirena: in giro non c’era nessuno da far spostare e il rumore avrebbe disturbato il sonno di onesti cittadini. Arrivarono in un pugno di minuti. Suonarono. La porta si aprì. «Professore!» esclamò Cardascia. Tommaso Maci, maestro elementare ormai in pensione, era quel che si dice una brava persona. Si era sposato giovane con Anna Bianco, ’na bona vagnona. Di figli non ne erano arrivati. Coppia unitissima: sempre insieme in chiesa la domenica e alla festa di san Pompilio. Lei era morta due anni prima. Da allora, il professore – come lo chiamavano in paese - non era stato più in sé. Il gran dolore, avevano pensato tutti. L’Alzheimer, avevano diagnosticato i medici. Una forma precoce, a poco più di sessant’anni, ma tant’è. «Venite: la sta ammazzando!» esclamò l’uomo. Aveva radi capelli ondulati troppo lunghi per la sua età, una camicia bianca lisa e macchiata, il viso solcato da venuzze rosse. «Si calmi» lo invitò Cardascia. «Andiamo!» esclamò invece Paolini. «Nu a capitu nienti!» gli ringhiò Cardascia. Poi gli fece segno che l’uomo sragionava. Ma quello insisteva, battendo il piede e indicando il retro. «Assecondiamolo» sussurrò alla fine Cardascia. I tre uomini attraversarono una casa fresca e buia, piena di tavolini polverosi, cuscini fiorati e foto di persone che non c’erano più. In una, loro due: Anna scarna e felice, Tommaso con baffetti spavaldi. Poi uscirono nel giardino. Muri di calce, luce accecante, qualche pianta assetata. Il maestro in pensione imboccò di slancio le scale che portavano “alle terrazze”. Una volta lì, Cardascia fissò l’orizzonte. Divisa in basso da porte e muretti, la città in alto era unita dai tetti. Si passava da uno all’altro, agevolmente. Lui stesso ricordava di averlo fatto più volte, da ragazzo, quando aveva dimenticato le chiavi. «Là». Il più giovane vide solo i tetti della casa accanto. Il più vecchio vide altro, con gli occhi della memoria. All’epoca era già carabiniere, ma nel comando di Lecce. Del delitto, però, se ne era parlato parecchio. La bella ragazza in topless, l’asciugamano colorato e poi uno di quei cartoni riflettenti per abbronzarsi di più. Poi dettagli: occhiali da sole, un libro. La gola squarciata. Era stata uccisa nel sonno, o nel torpore. Qualcuno si era avvicinato di soppiatto, con un coltello. «Eccolo, è là, lo vedete?» il maestro Maci indicò il punto esatto in cui “la milanese” era stata giustiziata, vent’anni prima. «Io non vedo niende» puntualizzò Paolini. Anche allora nessuno aveva visto né sentito niente. Tutti riposavano, in giro neanche una mosca. La ragazza viveva a Milano e passava lì le vacanze a casa di una zia (quel pomeriggio in visita a una parente). Aveva fama di essere un tipo piuttosto disinvolto. na bella fruscula si diceva in paese. All’epoca erano stati sospettati, interrogati e scagionati il cugino e un paio di filarini, tra Campi e Squinzano. Tutti i vicini erano stati sentiti come possibili testimoni. Tra di loro, anche il maestro Maci. Aveva detto che stava facendo la sua solita pennichella e la moglie aveva confermato. E aveva aggiunto: «Io non mi permetto, ma nei giorni prima, da queste parti, si erano visti degli albanesi...» Di loro si erano perse le tracce prima che i carabinieri potessero interrogarli. Per la maggior parte dei campioti, la milanese era stata ammazzata proprio da quei furastieri. Il maestro Maci sgranò gli occhi. Poi sembrò tornare in sé. «Scusatemi. Non c’è niente là». «Sarà colpa del caldo» buttò là Paolini, per smorzare l’imbarazzo. «Già, lo stesso caldo di allora. Un caldo da strapparsi la pelle di dosso» mormorò il maestro. Improvvisamente malfermo sulle gambe, si appoggiò ai due, per scendere le scale. La frescura della casa portò loro un immediato sollievo. «Perdonatemi: è questa malattia maledetta. Un po’sono qui e un po’ chissà...» Cardascia sospirò: sua suocera era stata uccisa dall’Alzheimer. Non che fosse morta, non ancora. Però, come diceva Maci, era altrove. Una teoria voleva che i malati tornassero a un’età in cui erano stati felici. E se quell’età era precedente alla nascita dei figli, neanche li riconoscevano. Così era capitato alla suocera, che ora la figlia la chiamava mamma. Cardascia non raccolse e ripensò alla “visione” di Maci. Forse aveva davvero visto qualcosa, dopo tutto. E ora la malattia glielo stava riportando alla memoria. «Professore, ma lei ha visto chi ha ucciso la stria?» «Chi, la milanese?» Cardascia annuì e aspettò. «Sì, l’ho visto». «Era un uomo?» Maci fece segno di sì con la testa. «Ce lo descrive?» L’anziano scosse la testa. «Non saprei da dove cominciare, con le parole. Ma con il disegno sono rimasto bravino. Il medico quasi non ci crede a come tengo ancora la penna. A scuola facevo fare tanti disegni ai miei bambini». La mano cominciò subito a correre veloce sul foglio bianco, abbozzando una forma con la biro nera. Paolini e Cardascia erano muti, alle sue spalle. Piano piano, il volto emerse. Era quello di un uomo con capelli ricci disciplinati dal gel, occhi scuri e baffi sottili. Cardascia escluse subito i sospettati d’allora. Quello nel disegno non era un ragazzo: aveva almeno quarant’anni. Poi i due capirono. «E’ un autoritratto» sussurrò il ragazzo, all’orecchio del suo superiore. Cardascia assentì, e chiese a Maci: «Dove ha visto quel volto, professore?» L’indice si alzò, tremante, in direzione della casa accanto. «Laggiù». Oltre i muri spessi, la scena di allora riprendeva di nuovo vita, nei loro occhi. I due carabinieri si scambiarono uno sguardo muto. «Perché lo ha fatto?» gli chiese allora Cardascia. Come se la domanda lo avesse svuotato dalle sue ultime energie, Maci si lasciò cadere su una sedia. Fu allora che Cardascia provò una grande rabbia. Non solo per quello che Maci aveva fatto allora. Ma perché considerasse la sua età più felice – e forse la sua memoria più dolce – quella in cui aveva massacrato la milanese. Forse non ne condivideva i comportamenti leggeri. Forse ci aveva provato con lei e ne era stato respinto. Quello non lo avrebbero probabilmente mai saputo. Ma, tutto sommato, era un dettaglio. Qualche ora dopo, quando la vicenda si trovava nel pieno del suo clamore, Paolini si affacciò nell’ufficio del suo capo. «Ha un momendo?» Nonostante il casino, Cardascia sorrise: trovava quell’accento divertente. «’ieni, trasi» lo invitò allora. Giocava in casa e poteva permettersi di parlare come cazzo voleva, lui. «Capirei la confessione, ma perché fingersi un testimone del delitto che ha commesso lui?» Cardascia, in principio, si limitò a un piccolo sospiro: il ragazzo non era intuitivo, ma compensava con lo scrupolo. Tra i vari mix, quello non era dei peggiori. «Ma lui non ha fatto finta!» Paolini scosse la testa. «Ma è assurdo: come fa ad aver visto se stesso che uccideva la ragazza?» Aveva un vantaggio, Cardascia, conosceva la scena del crimine. Quindi volle mettere Paolini al suo livello. E gli raccontò che cosa venne trovato sul tetto accanto alla ragazza accoltellata. Nessuna traccia dell’arma, ma vari oggetti. E Paolini ancora non ci arrivava. «Non hai capito qual è la chiave di tutto?» gli domandò alla fine Cardascia, con un italiano da telefilm poliziesco. Paolini sospirò e scosse ancora la testa. E poi tentò: «Tracce di Dna?» Cardascia sbuffò. «All’epoca non si parlava di Dna. All’epoca i casi si risolvevano con le indagini e la logica!» Breve silenzio, tra i due. «Il cartone argentato» rivelò Cardascia. «Eh?» «Massì, quello che la ragazza usava per abbronzarsi più velocemente». Paolini incurvò le labbra a manifestare una totale ignoranza. «Non va più di moda fra voi ragazzi? Forse oggi si usa solo per non far riscaldare la macchina». Un lampo di comprensione illuminò il volto di Paolini. «Capisci? Maci si è avvicinato alla ragazza per ucciderla e si è visto riflesso in quel cartone. Poi l’ha uccisa. Nel tempo, la malattia – e forse anche il rimorso – ha riportato a galla quel ricordo, e quell’immagine». «Questo vuol dire che magari, mentre faceva quell’identikit, non si rendeva conto di incolpare se stesso?» Cardascia annuì. «Che storia. Vado subito a scriverlo su Twitter!» Cardascia cercò di fermarlo. Ma era tardi. Per Twitter e per molto altro. Fine. LUCIA TILDE INGROSSO www.luciatildeingrosso.it #luciatildeingrosso #anozzecoldelitto #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook Mio cugino non sospettava che quella sarebbe stata l’estate migliore. Ero l’unica a saperlo. Sono figlia unica, un solo cugino, un solo amore e una sola terra. Lo capisco sempre quando una storia è importante. Oggi mi pare che i ricordi di quei giorni si coagulino fino a diventare uno solo. Il migliore. La casa dei miei nonni materni si trovava nei pressi della chiesa dell’Assunta. La processione con gli incappucciati bianchi sfilava a luglio sotto il nostro balcone. Arrivavano al tramonto e cantavano male. Potevamo guardarli prima di cena e dirci che facevano paura. Era importante avere paura quell’estate, ma non ci bastavano la processione, gli incappucciati e le donne che cantavano latrando. Non erano abbastanza spaventosi per noi. Volevamo di più, per questo eravamo costretti a guardare i film del terrore quando i grandi andavano a letto. Era una specie di segreto. Mio cugino ed io aspettavamo che si facesse l’ora, spalancavamo finestre e porte e accendevamo la tivù in bianco e nero, con il volume talmente basso che lo scirocco lo confondeva con l’aria. Faceva più paura in bianco e nero. Faceva più paura se tutti gli altri in casa dormivano. È un ricordo bellissimo adesso, quella paura là, tanto grande e morbida da sembrare un letto. Specchia è il paese dei miei nonni e per quanto oggi se ne parli come di un miracolo o un gioiello, per noi era la terra dello spavento. Una terra in bianco e nero. Dario Argento ci stava dentro alla perfezione. Metti Suspiria, per esempio. A sentir mio cugino, l’accademia in cui le ragazze del film imparavano a ballare, con tutta la sua pioggia e la notte nera e le vetrate dai colori acidi, somigliava a Palazzo Ripa. C’era una storia dietro quel palazzo a Specchia, con i lampioncini di ferro, i cornicioni merlati, il tufo giallo. Una storia di lontani parenti truffati, vendite irregolari, eredità tristi e cattivo vicinato. Cosicché, ogni volta che mio cugino ed io ci passavamo accanto, per andare a comprare i fumetti in edicola, sghignazzavamo contro le finestre serrate e i catenacci arrugginiti. Un luogo dannato, pensavamo, tanto alla fine va a fuoco tutto, proprio come nel film di Dario Argento. Anche qui, a Specchia, di casa nostra ne resterà solo cenere. Lo pensavamo per avere più paura. Ci piaceva parlare delle cose che scomparivano, tipo catastrofi nucleari, oppure fantasmi foschi, cimiteri pieni, campi di guerra. Specchia e le sue storie antiche che raccontavano di giorno i nonni e gli zii erano perfette. In quelle tutto sembrava sul punto di scomparire per sempre. Persino le mura intorno al centro abitato. Quelle tirate su nel IX secolo - se ne vedevano ancora frammenti in giro - dai primi coloni, accampatisi in questo lembo di terra per sfuggire alle incursioni piratesche che infestavano le coste salentine. Lo zio, il padre di mio cugino, diceva che alcuni segni nello stemma territoriale rimandavano a una matrona, Lucrezia Amendolara. Anche se non esistevano documenti ufficiali che potessero confermare l’esistenza di questo personaggio, a Specchia erano stati comunque trovati dei resti di un’abitazione romana. Si sussurrava che là avesse vissuto la famiglia Amendolara, il cui capostipite, Giovanni, era stato un potente feudatario. A star concentrati, si poteva ancora sentire il fantasma di Giovanni ululare in cima alle mura di cinta. O il suo o quello di qualcun altro, poco importava. La matrona era per noi come la strega di Suspiria. Uguale a lei. Mio cugino ed io, dopo la visione dei film, correvamo giù per le scale fino all’ortale. Sfidavamo il buio. Chi arrivava per primo in fondo, nei pressi del pozzo, era il più coraggioso. Vinceva sempre lui. A me piaceva aver paura, ma percorrevo le scale troppo lentamente, guardandomi le spalle, uno scalino per volta, a piedi nudi. Tremavo e ridevo. Lasciavo che il sapore della paura come polvere di pietra mi riempisse la bocca. Non a caso, gli specchiesi fifoni come me, li chiamano ancora mendulari da quelle parti, per colpa della strega matrona Amendolara, il cui pensiero doveva essere più amaro di quello delle mandorle. Oppure li chiamano: gente di scurlisci, perché questa terra è costruita sopra una serra, tutta salite e discese, e se non ti tieni saldo, finisci che cadi malamente. Cadi dalla paura. Davanti alla tele o giù per le scale, di notte, facevamo il verso dell’Amendola e del suo Giovanni che si buttavano giù dalle mura di cinta e si rompevano tutte le ossa. Certe sere, già di ritorno dal ristorante, pregustavamo il momento in cui saremmo stati da soli, mio cugino ed io, davanti ai segreti di Dario Argento, e, nella macchina dello zio, facevamo lo stesso verso stridulo. Tutta la famiglia, stretta sul sedile dietro, urlava insieme a noi. Persino lo zio. A noi, in famiglia, piaceva molto avere paura d’estate, con caldo umido, anche se nessuno, nessuno oltre me, lo aveva capito che quella sarebbe stata la nostra estate migliore. ELISABETTA LIGUORI www.mannieditori.it/autore/elisabetta-liguori #elisabettaliguori #koraunastroriaacolori #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
Passavo ore a fissare lo spazio tra una pietra e l’altra. Poggiate con arte e pazienza, quella che mio padre non aveva mai avuto, adagiate una sull’altra con una cura che il tempo non avrebbe rovinato. Ammassate in un luogo come la gente nei paesi, impilate come le persone nelle grandi città. Una ferita sembrava quella fessura tra pezzi grezzi, sottratti alla natura per diventare muri, guerrieri a combattere la tramontana e arginare le poche piogge. Cercavano di creare confini in un’età in cui non ne sentivamo, in un luogo che non ne aveva bisogno, talmente lontano dal mondo che sembrava lo avesse dimenticato. E noi guardavamo le nostre madri piangere al buio e volevamo solo morire, lontani da qualsiasi cosa somigliasse alla vita. A quella in tv, ai ragazzi che nel mondo si divertivano mentre a noi ci avevano lasciato in un buco di culo così piccolo e stretto che non ci avrebbero mai trovato. Alcuni dei più grandi ce l’avevano fatta, erano andati via. Li vedevi tornare solo per le feste e i funerali, con l’aria di chi con quel posto non c’entra più un cazzo. Ma questo posto non lo puoi cancellare, lo porti nella carne, nel cognome, nelle sopracciglia folte, nelle mani grandi e i piedi piccoli. Qui tutti sanno chi sei, a chi appartieni. Al di qua di questi muri i segreti rimbalzano di porta in porta. Tutti sapevamo che la mamma di Rocco era pazza, la notte la sentivamo gridare, ululare. Durante il giorno ne scorgevamo la sagoma dietro le persiane. Ma non gli dicevamo niente. Ognuno di noi aveva vergogne, nei paesi possono diventare giganti, soprannomi attaccati alla tua famiglia per sempre. Il mio era Quartino, per via di mio padre. Dopo il lavoro lo potevi trovare al circolo. Sedeva sempre alla stessa sedia, prendeva sempre un quartino di rosato fresco, fumava lento, ne prendeva altri tre, poi si alzava e tornava barcollando verso casa, lì si sedeva a tavola, mangiava in silenzio, beveva un litro di rosso e andava a dormire. Il padre di Francesco aveva una fabbrica poco fuori il paese, dava da lavorare a un sacco di gente. Un giorno sono entrati e gli hanno chiesto dei soldi. Lui ha pagato finché ha potuto, poi tutto è cambiato, il mondo ha cominciato a girare in un altro senso, tanto forte che anche quel paese se n’è accorto. E così un giorno sono arrivati con i fucili, hanno sparato a cazzo e hanno disintegrato la gamba di Francesco. Da quel giorno è zoppo, ma nessuno di noi lo prende in giro. La nostra amicizia era fatta di silenzio. Quelle degli altri sono fatte di confidenze, segreti, di lunghe passeggiate e chiacchierate. Noi ci incontravamo qui ai Paduli, sotto questo ulivo non ci dicevamo niente. Imparammo a odiare. Cominciammo con noi stessi. Pensavamo che farci del male ci avrebbe salvato o ucciso prima, pensavamo di essere fascisti, poi satanisti, poi nichilisti. Eravamo solo dei piccoli vandali. Prima delle fabbriche c’erano i cantieri delle nuove case. Noi ci spingevamo fin laggiù con le ceste piene di cuccioli e li buttavamo nel cemento fresco per vederli morire sicuri di fargli un favore. Ma forse solo i randagi erano felici dalle nostre parti. Quelli che non danno un nome al posto in cui si trovano. Gli animali non sentono il vociare del paese, non lo comprendono e nella loro ignoranza trovano la pace. Vedere i gattini lottare per la vita ci sembrava assurdo, noi che ci muovevamo in direzione ostinata a contraria, c’era nella loro disperata ricerca d’aria qualcosa che ancora non avevamo capito. Eppure anche noi ci sentivamo soffocare, ma da altro, da mani callose e anziane, da una morsa invisibile. Io non lo odiavo mio padre, mi faceva pena e questo mi faceva sentire in colpa. Decisi un giorno che non potevo sottrarmi al mio nome e presi a bere senza senso. Scoprì presto di essere allergico ai solfiti dell’alcol, me lo disse un medico dopo che mi trovarono privo di sensi ai Paduli. Lo presi come un regalo, qualsiasi cosa avrei fatto nella vita, qualsiasi errore, non sarei mai stato come mio padre, magari un fallito, ma diverso. Ci piaceva il fuoco, specialmente l’estate. Mettevamo da parte qualche spicciolo, ci spingevamo in bici fino al benzinaio, prendevamo una bottiglia di super e poi sceglievamo una campagna. Bastavano pochi istanti per vederla scomparire. Le stoppie prendevano il volo velocissime, le spighe accarezzate dalla tramontana erano un’onda di fuoco che neanche gli alberi fermavano. Sedevamo sul muro e guardavamo ardere quella parte di terra sperando di cancellarla o di trovare al suo posto, il giorno dopo, qualcosa di migliore. Avevamo fatto la scelta più difficile: cambiare il mondo intorno a noi. Non come i sognatori, come i disillusi. Facevamo cazzate per non ammettere di avere paura. Perché alla fine quello schifo ci faceva sentire protetti, ci sentivamo parte di qualcosa che odiavamo ma di cui non potevamo fare a meno. Una sera, mentre guardavo la tv, mio padre prese posto accanto a me sul divano, rannicchiò le ginocchia, poggiò la testa sulle mie cosce e si addormentò. Passammo la notte lì, dopo poco mi addormentai carezzandogli i capelli, quando mi svegliai era seduto in cucina. Se prima pensavo bevesse per se stesso da quel momento capì che lo faceva anche a causa mia. Forse perché non era in grado di darmi abbastanza, forse perché non si sentiva abbastanza. E così non aveva il coraggio di guardarci negli occhi. A me, a mia madre, a tutto il paese. Però un tempo mi abbracciava forte, mi portava sulle spalle fino in piazza per comprarmi il gelato. Poi qualcosa ha rotto tutto dentro di lui, ha fatto crollare il muretto a secco che lo teneva su. Quando io e gli altri non sparavamo con il fucile del nonno di Francesco ci chiudevamo in saletta a fumare e a sparare alle astronavi aliene. Mentre noi giocavamo ai videogiochi i più grandi si facevano di eroina nel cortile del retro. Il proprietario della sala giochi aveva capito che investire sui giovani significava offrirgli qualsiasi cosa. Era il porto franco dove trovare e provare tutto. Fu lì che un giorno comprai un coltello. Lo portavo sempre con me, mi piaceva sentire il suo peso in tasca, la lama fredda quando ci passavo sopra le dita. Un giorno incidemmo i nostri nomi sul tronco di un fico, era come se sapessimo che niente sarebbe più stato come quel pomeriggio, fu come il testamento della nostra giovinezza. Quella sera accoltellai un uomo, in piazza, al petto, lo uccisi. Davanti a tutti. Era in piedi, di fronte al tavolo dove mio padre beveva ogni giorno. Lo sbeffeggiava, mio padre ubriaco farfugliava risposte che nessuno capiva e che facevano ridere un gruppetto di curiosi. E io non ci pensai due volte, presi la rincorsa e quando gli fui sopra mirai al cuore. Quando sentii il sangue caldo imbrattarmi le mani non provai paura ma conforto. Si oppose solo per poco, poi fu silenzio, lasciai cadere il coltello. I ragazzi mi allontanarono dal corpo, mi tennero in saletta per un tempo che mi sembrò eterno. Quando tornai a casa mio padre dormiva e mia madre piangeva in cucina. La mattina quando mi svegliai trovai il coltello posato sul comodino, pulito. Quando scesi in strada era ancora silenzio, nessuno denunciò l’omicidio, avevo 13 anni. Alcuni dicono che lo seppellirono ai Paduli. Da quel giorno niente fu uguale, ora il paese intero custodiva un unico, grande segreto e tutti per un giorno ci sentimmo uniti. Il morto non l’avrebbe pianto nessuno, un vedovo senza figli con troppi soldi e troppo tempo libero. Quella morte ci liberò da quel male che ci consumava, quella rabbia silenziosa che ci faceva odiare cose piccole. Fu così che me ne andai di lì a poco, in un altrove che avevo sempre sognato e che da quel momento in poi vidi come un esilio, a casa di una zia che fece finta di volermi bene come mia madre. Ed è così, forse, che sono diventato un uomo e ho ricominciato ad amare mio padre. I miei fratelli gli hanno dato i nipoti. Io gli ho restituito il coraggio. Non ha mai smesso di bere ma da quel giorno accanto al suo bicchiere ne faceva portare sempre un altro mezzo pieno. Ho ancora il coltello anche adesso che sono tornato per il suo funerale. Quello che ho perso per sempre furono Rocco e Francesco e quella strana amicizia. Cammino per i Paduli, sono diversi oggi ma hanno conservato quel silenzio che tanto mi mancava. Ho trovato posto sotto il solito ulivo, di fronte il muretto a secco. Oggi non ho più amici con cui non parlare. OSVALDO PILIEGO LupoEditore.it #osvaldopiliego #finoallafinedelgiorno #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
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