Rivedersi dopo oltre vent’anni con amici che non hai più cercato. Di giorno basterebbero pochi minuti per un saluto di circostanza, ma di notte è un’altra cosa. Di notte Bari può catturare e trasformarsi in un irreale cinema della memoria” G.Carofiglio Il campanello squillò, una, due volte. Viola guardò l’orologio sulla parete, le 23,30. Uscì sul terrazzino, l’aria era ancora umida di pioggia, mista all’aroma dei gelsomini che si arrampicavano al muro antico, pieno di crepe, dove avevano dimora le piante di capperi. -Fabio, che ci fai qui a quest’ora?- -Scendi, c’è uno scoop che ti prendi la prima pagina.- -Ma, piove, è tardi- protestò lei. -Muoviti, vuoi fare la giornalista? Ecco impara che le notizie non ti arrivano alle nove del mattino sulla scrivania.- Viola rientrò, prese una felpa che si buttò sulle spalle e scese. -Dai sali.- Fabio le allungò il casco. -Ma dove dobbiamo andare?- -Monopoli, Marco ha avuto una soffiata, stasera arriva un carico da mille e una notte.- -E tu con quello in testa te ne devi venire?- lo apostrofò Viola alludendo al cappello Panama che Fabio indossava. La città era stranamente vuota per colpa del temporale, la strada scivolava via veloce e l’asfalto liquido assorbiva le luci dei lampioni. Alla Vela giocavano a carte. Il grande teatro se ne stava nero e triste, come un eroe vinto. Il Dona Flor chiuso. Da tanto tempo. Restava l’aroma di un Alexander sulle labbra. Cacao al posto di noce moscata. Così li preparava Fabio. Perché a lei piaceva non troppo speziato. Sul lungomare Viola osservava il profilo di Bari distesa alle sue spalle, in quel bagliore argenteo, tra la cattedrale e il faro. Un cartellone pubblicizzava il programma estivo all’Arena dei Riciclotteri. Il mare era inchiostro nero, stranamente tranquillo, al di là dei frangiflutti. -Perché Marco non ci ha aspettati?- domandò lei, alzando la visiera del casco. -Perché Mal herba sta con quelli, fa l’infiltrato- rispose Fabio allungandole la Polaroid -Tieni questa- aggiunse. Viola chiuse un attimo gli occhi, nell’incoscienza dei loro vent’anni, di chi pensa che la vita sia un gioco, una partita a monopoli, un poker e che in qualche modo fossero capaci di giocare anche la morte. Gli anni delle telefonate dalle cabine pubbliche, quando non c’erano cellulari e macchinette digitali. Nella polverosa biblioteca di Santa Teresa dei Maschi scovarono quei bizzarri soprannomi, mesi prima, quando lei e Marco iniziarono a collaborare con un giornale locale. Marco era Mal herba, Fabio Mal Tempo e Viola Scarciofola. Le vie della città vecchia, il dedalo, un intricato labirinto che per non perderti dovevi esserci nato, e Fabio lì era cresciuto, tra il sagrato di San Nicola e il porto, tra le leggende che erano favole per far star buoni i piccoli, come l’isola di Monte Rosso o la “cape du turche”, finita sotto il balcone di una casa di Strada Quercia numero 10. La città vecchia, di gente semplice e forte, di donne che facevano le orecchiette, vicino al castello, sotto l’Arco Basso, e l’uomo del ghiaccio, che con il motore, la sera portava secchi congelati agli ambulanti abusivi che vendevano la Peroni sul lungomare e Finella che friggeva le sgagliozze e il sale brillava sulle fette di polenta fritta. La città vecchia di chiese e di santi, di Madonne agli angoli del cuore. E le sere d’inverno ai tavoli del Maltese si raccontavano storie, racconti, leggende. Come bugie di pescatori e sogni sul pentagramma, lenzuoli in sanscrito. La strada correva via veloce. Torre Incina. Zona Polignano-Monopoli. La torre se ne stava silenziosa al limitare della baia, arrivarono a piedi attraverso un campo di erbacce alte, in equilibrio precario tra la notte e le cicale. -Vedi?- bisbigliò Fabio indicando un punto impreciso nel buio. -Cosa?- -Ecco.- Una luce sulla spiaggia rispondeva a un codice, una luce flebile sul mare. Poi avvenne tutto velocemente, un motoscafo, le casse di sigarette di contrabbando e tante persone, mezzi blindati, come sul set di un film. Improvvise, venute dal nulla sirene spiegate, forze dell’ordine, qualche sparo. -Scatta, scatta- diceva concitato Fabio. -Andiamo, via, corri.- -E Mal herba?- -Corri, sa badare a se stesso.- La corsa nella notte con il cuore in gola, le stoppie che ferivano le gambe nude. Cadere e rialzarsi. Poi la corsa a ritroso. Rientrati in città fermi da Cesare. I ragazzi compravano i cornetti. Le due del mattino. -E Marco?- chiese ancora Viola. -Abbi fede- rispose Fabio. Seduti sui gradini della chiesa a scrivere l’articolo, tra briciole e zucchero sulle guance. Le tre. Il rumore di una motocicletta. -Mal herba- dissero in coro. Marco si tolse il casco era fradicio, si era buttato in mare nel caos generale. Si abbracciarono. -Ragazzi ma una sigaretta ora me la fumerei.- Scoppiarono a ridere, mentre portavano al giornale il loro scoop. Poi un passaggio ponte con un traghetto per la Grecia e urlare in faccia al mare che avevano vent’anni, e l’azzardo alla vita l’avevano fatto, corteggiando la morte. Vent’anni dopo, un cartellone pubblicitario annunciava il programma estivo all’Arena dei Riciclotteri, alla Vela si giocava ancora a carte, e al Maltese ci si raccontavano storie, racconti e leggende. Nella città vecchia il piano Urban aveva dato vita alla movida notturna, tra locali e pub, e i giovani scendevano dalla “town” di Poggiofranco per incontrarsi. Viola entrò nel locale rinato vicino al grande teatro. Anch’esso risorto. -Posso avere un Alexander con il cacao?- domandò a un cameriere. -Devo chiedere- l’uomo si allontanò e lo vide parlare con un altro uomo vicino al bancone, che alzò lo sguardo su di lei, scosse la testa e sorrise. Viola si avvicinò. -Mi hanno fatto una soffiata- disse abbracciando Fabio. -E, immagino quale giornalista sarà stato- rispose lui. Marco si avvicinò: -Avete da accendere?- Poi la notte se li portò via, seduti sui gradini di una chiesa, tra briciole e zucchero, la loro storia personale da raccontare di quella notte. Seduti alla Taverna del Maltese. Mai stanchi di ricordare. -Sapete dove vorrei andare?- disse Marco. -Alla Torre?- disse Fabio. Pochi minuti dopo erano sulla strada, l’aria entrava dai finestrini, un vento caldo che accarezzava la pelle di Viola. Mezz’ora sulla 16 bis. Restarono per un po’ seduti sulla spiaggia a guardare le onde. L’alba era ancora lontana. -Facciamo il bagno- disse Viola. Il tempo era un’equazione fatta tra la vita passata e quella futura. In equilibrio perfetto quell’attimo di presente. Vent’anni dopo. E alla radio una canzone ... Serenella coi soldi cravatte, vestiti, dei fiori e una vespa per correre insieme al mare. Al mare di questa città alle onde, agli spruzzi che escono fuori dalle nostre fontane. E se c'è un pò di vento, ti bagnerai, mentre aspetti me al nostro caffè. A. Minghi CRISTINA CARDONE www.lasignoradellapioggia.blogspot.com #cristinacardone #brichét #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
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All’una Attilio si piegò in due sul terriccio bollente, accanto ai fichi d’India. Tossì e quasi vomitò le pillole che aveva appena infilato in gola. Un fumo azzurro e denso si innalzò dalla campagna, in direzione del mare, poi arrivarono le modelle. Il Suv dell’agenzia le aveva caricate all’aeroporto mezz’ora prima, per poi buttarsi sulla tangenziale e imboccare l’uscita per Molfetta. Sulla strada interna, in direzione di Terlizzi, Hilde si era sporta dal finestrino per sentire più forte l’odore di catrame. Era apparsa un’edicola sul bordo della carreggiata, una Madonna fiorita dai colori incendiari, un totem – pensò Hilde– nel deserto messicano. Il Suv aveva voltato a destra, abbandonando l’asfalto per barcollare incerto sul sentiero sconnesso e petroso che conduceva a Torre Marcello, nella contrada di Mino. Il sobbalzare dell’auto aveva scosso Sue e Lena dal breve sonno in cui si erano assopite. All’ingresso del casale, un cancello di ferro tenuto in piedi da un immenso muro a secco, il driver frenò di scatto e invitò le ragazze a scendere. Attilio si avvicinò continuando a tossire, il pugno sudato e grinzoso contro le labbra ritratte nel ceruleo del viso. Le osservò uscire una alla volta: il caschetto nero di Sue, le lentiggini ramate sulla pelle di Lena, il sole accecante dei capelli di Hilde. Tutte e tre pallide e prive di forme, a malapena maggiorenni. Era quello che aveva richiesto. «È un piacere conoscerla», fece Sue tendendogli la mano, «Siamo onorate di poter lavorare con lei». «Un grande onore», aggiunse Lena, togliendo gli occhiali scuri. Attilio fece un passo indietro, come a volerle inquadrare tutte e tre assieme, poi chiese: «Da quanto non dormite?». «Ventotto ore, come d’accordo». «Bene». Liquidò il driver e invitò le ragazze a seguirlo. «Sono malato», disse, «È evidente. Sono anche vecchio, ma la vecchiaia in sé non ha importanza». Questo posto, Torre Marcello, apparteneva a mio padre e prima di lui a mio nonno, quando non era altro che terra, ulivi e un cumulo di sassi dove conservare il raccolto. È esattamente quello che sto cercando di fare adesso. Le mie foto sono state esposte a New York, Londra, Parigi, Tokyo. Sono stato premiato, gratificato, conteso, omaggiato in ogni lingua esistente. Non ricordo nemmeno i nomi di tutti i luoghi in cui ho dormito. Ma ora che sta per finire, sono tornato. Non ho avuto scelta, è qualcosa che dovevo fare. Tornare. Riderete forse, ma c’è una specie di destino, di congiura, chiamatela come volete. Questo è l’ultimo servizio che faccio». Le ragazze rimasero immobili a fissarlo. Non lo capivano, forse non potevano. Erano parte di un mondo in cui tutto era ancora possibile. Tanto meglio, pensò Attilio, e distolse lo sguardo, poi sfiorò col suo quello di Hilde, dietro le altre, e allora si accorse di quegli occhi nordici, disumani, impastati col ghiaccio. Due rocce fredde in cui l' incomprensione assumeva le forme terribili del rifiuto. «Perché ha chiesto che non dormissimo da più di ventiquattr’ore?», domandò Sue accendendosi una sigaretta. «Vi ho pagato abbastanza». «Oh, sì», sbadigliò lei. «Mettiamola in questo modo: ho comprato il vostro sonno. Ora dovrete dormire per me. La villa è vostra. È vostro il giardino, il frutteto, il campo di ulivi oltre la recinzione. Vagate e addormentatevi dove volete. Da sole, insieme, come vi viene. Vi darò degli abiti bianchi e li indosserete, qualcosa d’impalpabile, di trasparente, i capelli sciolti. Dovrete cadere dal sonno, morire dal sonno, e io vi fotograferò allora, svenute, prima che venga sera». «Perché?»– chiese Hilde, e furono le sue sole parole – «Cosa ha bisogno di dimostrare?». Fu semplice per Sue e Lena addormentarsi nel torpore del pomeriggio. Attilio le sorprese supine accanto all’albero delle prugne, poggiate l’una sulle gambe dell’altra fra le spine dei fichi, stese sulle scale di pietra bianca alle porte del casale. Ogni foto che scattava sembrava allungargli il respiro, sollevarlo dal peso del corpo che muore, dalla paura del corpo che muore. Era questo che voleva. Sue e Lena erano così giovani e inermi, sembrava avessero disimparato il respiro. Attilio provò un brivido di eccitazione sessuale. Desiderava porre fine al proliferare inesausto di tutta quella bellezza, eternarla, guardare la morte in faccia prima che fosse lei a guardare lui, e fermarla. Fece per accarezzare la testa di Lena, i capelli sparsi come albicocche sulla pietra, quando si rese conto che il segreto di quell’eternità rubata dimorava altrove. Hilde era in cima alle scale e lo guardava, grave. Si mise a correre verso il muro di recinzione, poi in aperta campagna, scalza, sul terreno rosso degli ulivi. Attilio la seguì a fatica, col fiato corto. La perse di vista, per poi ritrovarla piegata nella cavità di un tronco millenario, a occhi chiusi. Il segreto era Hilde. Attilio pensò che se fosse riuscito a fotografarla in quell’istante – mentre immobile e stanca riparava la pelle bianca, cresciuta nel buio d’inverni senza fine, dal sole implacabile del Sud – solo allora si sarebbe potuto salvare. Impugnò la Canon con la mano che tremava, la puntò verso l’albero, ma non fece in tempo a inquadrarlo. Hilde spalancò gli occhi. «Non riesco a dormire. Non ci riesco. Mi dispiace». L’insonnia di Hilde si prolungò fino a sera. La ragazza vagò come uno spettro finché venne il buio e Attilio continuò a inseguirla, disperato. A volte, preso dalla stanchezza e dal caldo, si sedeva su di una panchina e mandava giù una pillola dopo averla leccata, come fosse zucchero. Dopo cena, le modelle si chiusero ognuna nella propria stanza. Hilde era in trappola, pensò Attilio, sentendola sbattere la porta in cima alle scale. Avrebbe solo dovuto aspettare la prima luce del giorno. Sarebbe rimasto in piedi a vegliare per non correre alcun rischio, poi, all’alba, avrebbe salito in silenzio i gradini, aggrappato alla ringhiera arancione. Sarebbe entrato nella camera di Hilde mentre lei ancora dormiva – la finestra spalancata, i raggi polverosi del mattino – e l’avrebbe immortalata, priva di sensi e vinta, per sempre. In quell’angolo di terra, lui l’avrebbe fatta sua. Sedette sulla poltrona, si versò del whisky da una vecchia bottiglia e aspettò, ma dovette trattarsi di una combinazione cattiva perché presto cadde in un sonno ottuso. Quando riaprì gli occhi erano quasi le cinque. Il sole cominciava a premere contro i vetri di Torre Marcello. Attilio infilò al collo la macchina fotografica e si precipitò al piano superiore. Hilde non c’era. Il letto stretto in ferro battuto, alto contro la parete scrostata, era vuoto e intonso. Le lenzuola bianche tirate sul cuscino e nessuna traccia di lei. Attilio tremò e guardò fuori dalla finestra, la distesa dei papaveri in fiamme. Poi si voltò. Vide le sue foto appese ai muri, foto dal valore inestimabile, incorniciate di nero ed esposte lì in fila come un crudele gioco di specchi. Le strappò dalle pareti, una alla volta, si mise a gettarle per terra, a calpestarle furioso, e più si abbatteva contro quel succedersi inesausto di memorie, più se ne sentiva circondato e oppresso, incapace di accettare la grandezza del proprio fallimento. Se ne accorse solo alla fine, quando i frammenti di vetro avevano coperto ogni angolo della stanza. Accanto all’armadio c’era una porta murata, una di quelle porte che forse da piccolo Attilio avrebbe aperto, ma che da quando era tornato non aveva avuto nemmeno la forza di notare. Era socchiusa. La spalancò e una scala ripidissima e buia lo condusse verso l’alto, verso un’altra porta nera. Fece molta fatica a salire fino in cima. Quando finalmente raggiunse la seconda porta, capì. La torre. Era lassù che avrebbe trovato Hilde. La vide stesa, bianca, inondata dal sole. Indossava la sottoveste a fiori e le sneakers, un braccio teso sopra la testa, l’altro a sfiorare le cosce nude. La campagna di Molfetta, dall’alto, brillava nel silenzio come un mare verde. Hilde dormiva. Attilio, accecato, rimase immobile ai piedi della ragazza. Impugnò la Canon privo di forze, poi la sfilò e la poggiò sul pavimento. Non poteva. La morte non era mai stata così tangibile. Eppure non sarebbe mai riuscito ad afferrarla, a fermare quel tempo, quel corpo, quella bellezza. Che importa, si disse, e avvertì un dolore al petto. Tutto ciò che desiderava era stendersi accanto a Hilde e chiudere gli occhi al contatto con la sua pelle fredda. Quando Hilde si svegliò era ormai l’una. Le voci di Sue e Lena chiamavano il suo nome dal giardino. Si stiracchiò e pettinò i capelli con le dita. Solo dopo si accorse di Attilio, immobile, rannicchiato come un bambino accanto a lei. Sorrise. Prese la Canon abbandonata sul pavimento e gli scattò una foto, inquadrandogli il viso. GIULIANA ALTAMURA CorpiDiGloria Marsilio #giulianaaltamura #corpidigloria #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
Oggi, 5 luglio 2026, compio tredici anni e mio padre mi ha promesso un regalo “insolito”. Gli avevo chiesto una collana elettronica. L’ultimo modello della MicroShift pesa solo venti grammi ed è un gioiello hightech: microcamere al plasma e nano-computer quantistico, comandi vocali e collegamenti immediati via Internet, anche con la stazione spaziale e la Base sulla Luna. Può prenotarmi per un dialogo con gli astronauti in volo verso Marte, materializzarmi sulla retina immagini tv o dati di archivio e pagine di testo, improvvisare per me videogiochi ottici casuali, crearmi finte identità, e così via. Costa un tantino, ma papà... La porta si apre, dev’essere lui! — Giulio, alzati — dice papà abbracciandomi. — Auguri, oggi andiamo a prendere un regalo speciale. Mi bacia anche Tecla, la mia giovane madre adottiva che è un clone della mia vera madre quarantenne, divorziata da papà. Tecla è identica a mamma però la considero più un’amica. Mi preparo e usciamo, tutti e tre. — Sarà una vera sorpresa — dice papà. Tecla ride, forse sa già. Io fingo indifferenza. Entriamo nella mini-auto, papà imposta il tragitto, la vettura parte con un leggero scatto. Sono sorpreso: — Come mai andiamo fuori Bari? Silenzio. La temperatura esterna è sui 50 gradi, come al solito. È domenica e la città sembra un deserto. In silenzio, trascinata dal mono-binario magnetico sotto l’asfalto, l’auto sparata supera la periferia, siamo sui 170 orari. La temperatura aumenta e i vetri si auto-opacizzano, è il minischermo a mostrarci l’esterno. Arriviamo alle pendici della Murgia e cominciamo a salire. Le colline sono totalmente spoglie, con rari alberi rinsecchiti qua e là e nessuno si decide ancora a tagliarli. Il terreno è scuro, pietroso, solcato da crepe. Poco dopo in fondo al nastro d’asfalto intravvedo le cupole e il minareto di Zawilah, il paesino costruito da una delle comunità arabe pugliesi. So che ne creeranno altri, in Africa la temperatura ormai arriva a sfiorare i 70 centigradi. Parcheggiamo in una piazzetta con palme e un minareto, scendiamo e ci inoltriamo fra case basse in un dedalo di viuzze, finché papà si ferma davanti a un grande ingresso ad arco. — Vai. Entro, e vedo un dromedario. — È tuo. — Papà parla in arabo con un certo signor Maliq, immagino contrattino costi e il parcheggio dell’animale. Ma accidenti! La collana-computer sognata da tanto tempo... — Sali! — mi dice Maliq ridendo. Mi ritrovo a cavalcioni sulla bestia e con la mente sono già... via! Lanciato sulle sabbie e le dune desertiche della Murgia, verso l’interno, ricco di strane avventure e di mistero. VITTORIO CATANI www.fantascienza.com/blog/vikkor #vittoriocatani #gliuniversidimoras #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
1 “U' giò uè fà app'ccià?”. La voce e il botto sul finestrino mi arrivano talmente all'improvviso da farmi saltare sul sedile. Pure la sigaretta un altro po' mi vola dalla bocca. Al semaforo di via Caldarola staranno quindici macchine incolonnate. Più la mia Seicento. Che poi non è mia. E' di mia madre. Ma a quella mica glie l'ho detto che la prendevo. Figurati. Da quando ho avuto il tamponamento quest'estate sulla complanare, è diventata petulante. Lo fa per farmi sentire in colpa, io lo so. Ma tanto mò ho imparato. Aspetto le sette, la faccio cenare, poi le accendo Radio Maria e non appena si addormenta, zitto zitto me ne esco. Perciò quando ho sentito quella voce mi sono preso uno spavento. Mica ché poteva essere lei che mi sgamava a fumare nella sua macchina. No, quella, poveretta, sta allettata. Non si può manco muovere per andare al bagno. Fortuna che ha me che la posso aiutare. Però lo stesso a sentire sbattere sul finestrino in quel modo, mi sono preso paura. Mi volto appena per vedere con la coda dell'occhio l'ombra che mi si è affiancata a chi appartiene. E' quasi buio, ma sotto il giallo dei lampioni vedo comunque due figure agitarsi su uno scooter. Che cazzo vogliono? Mi stanno attaccati. Mi aggiusto il cappellino a visiera sulla testa pelata e faccio finta di niente. “Auè, capellon'. E c' si 'nghiummat?”, sento gridare più forte. Guardo il semaforo. Ancora rosso. Una leggera pioggerellina sta iniziando a coprire il parabrezza. Accendo i tergicristalli. Ma quelli insistono. "Oh, maccaron', a te stong a disce...". Quello seduto dietro si continua a sganasciare dalle risate e sbatte pacche sulle spalle di quello che è alla guida. Poi un'esplosione sorda e una pioggia di vetri mi scoppia addosso. Il semaforo è diventato verde. Tutti ripartono. Quelli schiamazzano. Io sento il cuore che mi schizza in gola. Madò la macchina di mamma. Scendo. 2 “Và, fusce tr'mon'... Pass' che iè giall'”. Urlo tirando le maniche del giubbotto di Balotè mentre si mette a fare lo slalom fra le macchine che si vanno fermando al semaforo oramai rosso. Ma quello per tutta risposta inchioda, al posto di accelerare. Nella frenata gli frano addosso. Gli tiro una calata sulla nuca. “L' murt d' mamt'. Mo' ma da fà cadè”. E scoppiamo a ridere con le lacrime. E' da stamattina che stiamo a ridere. Mò, oggi stiamo stonati di brutto. Il fratello di Balotelli sta accavallato, se la fa con quelli di San Pasquale e tiene certa roba che te ne devi scappare. L'altro giorno a Japigia pure gli olandesi stavano da lui a comprala. Oh, gli olandesi, non so se mi spiego. Balotelli si chiama Nicola in realtà ma a Bari lo conoscono tutti come Balotè perché c'ha la pelle talmente scura che pare un negro. E poi è malamente, proprio come a Balotelli. “Oh, aspit. Di folla vai?'”mi fa. “Famm' app'ccià na sigaretta”. Si fruga nelle tasche. Niente. “A te 'u so dat'?”, fa sganasciandosi dalla ridarella dopo due secondi che mi fissa. C'ha gli occhi rossi rossi che pure se è sera pare che s'appicciano. Non ce la faccio a vederlo combinato così. Gli esplodo a ridere in faccia pure io. “Eh, rid 'mbacc' o' cazz!”, mi fa lui con le lacrime. “Uè dà l'accendino?”, prova a dirmi serio prima di scattare con la testa in avanti fermandosi solo a due centimetri dalla mia fronte “Mò ti 'a dà nu tuzz'”. Ricominciamo a spintonarci che un altro po' ci cappottiamo col motorino. “Oh, e non u' teng'”. Mi giro. Accanto a noi c'è una Seicento color merda. Il cristiano dentro sta fumando. “Auè”faccio a Balotelli, “Add’mann' a cud', sta a fum u vì?”. Balotelli si gira e bussa al vetro della macchina. “U' giò uè fà app'ccià'?”. Quello fa come se non ci vede. “Balotè, surd iè” faccio a sfottere, nell'orecchio a Nicola. Quello manco a dirlo subito si appiccia. “Auè, capellon' e c' si 'nghiummat?”, fa subito facendomi quasi pisciare sotto dalle risate. Quello dentro s'aggiusta il cappello e ci caca a spruzzo. “Oh, maccaron', a te stog a disc'...”. Balotelli già con la faccia impicciosa che non è più tanto da scherzare s'è abbassato per guardarlo bene dentro la macchina. Poi tira all'improvviso un cazzotto al vetro mandandolo in frantumi. Sento l'esplosione del finestrino che scoppia. Mudù, penso mentre la scossa di adrenalina mi arriva di botto dietro alle orecchie. Il cristiano col cappellino esce dalla macchina. 3 Mi vien da piangere. Sento i vetri in frantumi sotto le scarpe e l'aria fresca avvolgermi le narici. C'è odore di frittura che viene dai condomini vicini. Madò, e mò chi glielo deve andare a dire. Guardo il buco nel vetro e mi prendo la faccia tra le mani. Che abbiamo pure litigato stasera che quella è capa tosta e sta sempre a dire che a quarantadue anni mi vuol vedere sistemato, che mi devo trovare una brava femmina, un lavoro. See, che altro? Ho detto io, e se me ne vado io a te chi ti deve venire a pulire il sedere? Tua figlia che non t'ha mai acchiamendato in faccia?. Non l'avessi mai detto. S'è offesa e ha cominciato a dire che io a quella manco la devo nominare che tiene i guai suoi. Lei tiene i guai suoi?, ho detto. E i guai miei, mà? I guai miei chi cazzo se li deve piangere? Poi, per non far vedere che mi stavano a uscire le lacrime, ho preso e sono sceso. Che io poi una femmina l'avevo pure trovata. Carmela si chiamava. Faceva la barista al bar Iorio, quello pieno di rimmati che giocano alle slot. Ma mamma non tanto la poteva vedere. Diceva che non era seria a lavorare fino alla notte tarda, sempre in mezzo ai maschi. Che qualcosa prima o poi vedevo se non usciva fuori. Oh, mica glielo avevo detto a mamma che aveva avuto ragione. Che l'avevo sgamataun pomeriggio a fare la scocchiata con quell'avanzo di galera di Mincuccio. Non l'avevo portata più a casa e lei non m'aveva chiesto più niente. Così era finita la storia con Carmela. Ma mò... 'sti due trimoni, la macchina di mamma, vedi un poco alla madonna, vedi. 4 “Balotè, l' murt tu. C' cazz' si c'mbnat?” Faccio subito veleno pensando a tutta la roba che teniamo addosso. “Avessa chiamà la madama mò, cud”. Stavamo tanto belli e in grazia di dio oggi. Mocca a Balotelli e a quanto jè n'rvus. E l'ho fatto pure chiavare a bestia stamattina. Che la Rossa stava come alla cagna. Gnuc gnuc gnuc. Mò, uagliò che servizio che c'ha fatto. Forse che a lui l'aveva fatto fare subito e per quello gli era salita un poco la nervatura. Cud' fasce u' uà uà ma la ciola non è che la tiene grossa come a quella mia. Che a me la Rossa me l'ha detto che pure che lui è il boss, a chiavare sono meglio io. Mica però che a Balotelli glielo sono andato a dire. See. Quello capace che la prendeva alla Rossa e la sfraganava di mazzate, sana sana. E dopo pure a me. Ma mò, dico io occorreva a fà tutt' stu casin'?. Co tutta 'sta cazzo di roba addosso che c'abbiamo. N'cul alla razza so'! “Balotè. Sciamanin'. Fusce. Sint' a mè. Lassa perd' a cud. Mò appena diventa verde, piglia e scappiamo!” 5 “Uagnù e mò, come la mettiamo col finestrino?” Quello seduto davanti è alto e c'ha la faccia cattiva. Forse manco diciott'anni tiene. Ma questi sono addestrati come le bestie. C'ha la testa appuntita come quella di un dobermann, tutta rasata ai lati e la cresta come si usa mo'. Sopra due occhialoni da sole enormi bianchi. Sta fuori di brutto, da qua si vede. Non appena mi alluma si gonfia come un pavone. Sta per aprire quella fogna di bocca ma non glie ne do il tempo. La spranga che ho dietro il sedile l'ho presa prima di scendere, nascosta dietro l'avambraccio. Gliela cavo nell'occhio, così, dritto per dritto, e mò vediamo chi cazzo è il cattivo qua dentro. Ecco a che cosa serve mà, che ogni volta che viaggiavamo mi dovevi fare una testa così. E a che ti serve st'arnese mò? Vedi se ti dovesse fermare la polizia e te la trova nella macchina. Nella mia macchina. Ecco mà. A questo serve. Mò l'hai capito? E intanto sento la mia voce rimbombarmi nel petto e nelle tempie. “E mò? E mò? E mòòòò? T''è passata la voglia eh? T'è passaaata??”, glielo grido in testa, con tutto il fiato che c'ho in corpo. “Che la macchina non è mia... è di mia madre, si capit? E' di mia maaadreeee”.Quello dietro intanto con la coda dell'occhio l'ho visto schizzare via dal motorino e dalla mia vita come una zoccola di fogna e sparire sotto la pioggia. E intanto caccio la spranga da dentro l'occhio e gliela riconficco fino in fondo. Una, due, tre, cento volte. Sento la materia vischiosa che mi imbratta la mano, il polso, un unguento caldo come maionese che mi schizza in faccia. Ma io mò si che mi sento finalmente bene. Attorno gira tutto, le urla, le macchine che passano, e io sono un martello pneumatico, un fottuto, cazzutissimo stramaledettissimo martello compressore che annienta e spappola. Finché non sento il corpo di quello accartocciarsi come una marionetta floscia ai miei piedi e il polso farmi male. Butto la spranga per terra e m'infilo in macchina, il semaforo è rosso. Mille occhi mi scrutano, bocche spalancate, mani sulla labbra. Accelero e mi butto a capofitto nel flusso di macchine che attraversano la via, tra i clacson impazziti e le urla e le frenate. Ma io accelero e finalmente non sento più niente, non vedo più niente. Solo i bagliori delle luci che si accendono sulla sera che viene, quelle di un’indimenticabile serata che non tornerà mai più. RAFFAELLO FERRANTE raffaelloferrante.wordpress.com #raffaelloferrante #orecchiettechristmasstori #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
Mia è una serpe nera, una ragazza sinuosa che si muove nel quartiere Libertà quando smonta – letteralmente – dal lavoro, sul lungomare di Torre Quetta o sotto gli archi del ponte di San Giorgio. Lei, nigeriana, vive di quelle poche lire che le lascia il suo pappone, dopo aver trascorso la notte con cinque, sei baresi. Ma soprattutto Mia è giovane e intelligente, curiosa, vivace. Le piacerebbe guardare la città, se ne avesse il tempo, e invece si divide tra un autobus e una passeggiata a piedi dalla stazione a casa sua, sotto lo sguardo impertinente dei ragazzacci in scooter, degl’impiegati cinquantenni, delle massaie imbestialite e invidiose. Oggi il cielo è grigio, spuntano gli ombrelli e le buste di plastica sulle scarpe delle signore del Libertà. Mia è stanca. S’è svegliata presto, ha dormito un paio d’ore. S’accende una sigaretta, si prepara un caffè, si guarda intorno. Vive in un basso freddo e umido; dorme su una branda da campo; respira i miasmi dei suoi vicini e l’alito dei suoi clienti. Oggi ha voglia di uscire, non andrà a lavorare, perché fortunatamente piove. Mia non ha mai visto la città sotto il sole. Sa che c’è un teatro, il Petruzzelli, una spiaggia, Pane e Pomodoro, una città vecchia, una basilica, un santo patrono. Per lei, percorrere due, tre chilometri a piedi, è sottoporsi al linciaggio degli occhi, al vituperio dei ragazzi. Allora esce di casa, si ferma davanti a un bar, s’un marciapiede sgangherato di via Ravanas, saluta un vecchio ebanista innamorato di lei. Raggiunge un TaxiPhone, chiama casa. Sua madre sta bene, la ringrazia per il denaro ricevuto, anche sua figlia sta bene, cresce sana nella miseria e nell’umiltà. Poi chiama il suo ex ragazzo, quello che l’ha portata in Italia. Lo insulta, lo offende, gli urla contro: vorrebbe piangere, ma non ha più lacrime, le si è essiccato il cuore. Infine chiama un ginecologo italiano e fissa un appuntamento: sono centocinquanta euro, a nero, senza fattura, nottetempo, quando non ci sono più italiane in sala d’attesa. Mia adesso cammina nel quartiere, non può allontanarsi da queste quattro vie dove le vecchie capoclan baresi siedono tutto il giorno davanti ai loro portoni, chiacchierando del più e del meno mentre i loro figli si dividono i proventi della droga e delle mignotte. Mia le saluta, ne riceve un cenno del capo, passa oltre, si ferma in un bar, prende il suo secondo caffè. Dai palazzi sulla sua testa sgocciola acqua mista a guano di colombi, il cielo grigio si allunga come una bava di disperazione tra i tetti delle cadenti palazzine del quartiere. In via Quintino Sella Mia compera un paio di ballerine da un cinese indaffarato, le calza, le stanno bene: le ricordano le corse a piedi nudi nelle strade della sua città. Quindi esce dal negozio e torna nel Libertà, nome assurdo per un quartiere che è il suo carcere. Ha smesso di piovere, quindi s’affretta a rincasare perché tra un’ora o poco più dovrà tornare sulla statale 96 a soddisfar le voglie di chi vorrà comprarla. LEONARDO PALMISANO www.leonardopalmisano.wordpress.com #leonardopalmisano #lacittàdelsesso #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
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