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Pulsano: il quaderno di Florinda

7/20/2014

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- Ogni giorno quella vecchia passa da qui, si porta dietro il borsone colorato, una sediolina da regista tutta scassata e si ferma vicino alla riva

Sara segue l’indice puntato di Marco, arrivando a inquadrare una donnina rattrappita, con un costume intero blu scuro e una cuffietta di gomma con i fiori d’altri tempi sul capo rinsecchito come il resto.

- Non si dice vecchia, si dice anziana 
- Giovane non è, il concetto è lo stesso. E’ più di là che di qua e secondo me è pazza
- Secondo me sei scemo
- Vuoi una birra?

Certo, la birra. Insieme a serata, Facebook, lampada, è una delle parole in uso del suo amico. Come Baby Mia e le sue poche frasi, così è Marco. I piedi immersi nella sabbia calda e soffice di Marina di Pulsano, Sara cerca di non pensarci, come sempre ormai. Le giornate si trascinano lente e uguali, ad aggiungersi solo qualche affanno, non c’è futuro nella sua testa, troppo nulla, troppa paura.

Marco è uno degli amici di una vita, uno di quelli che frequenta quando la necessità di non pensare diventa più forte. Per lo stesso motivo quel pomeriggio è a mare, nella splendida spiaggia di Lido Silvana a blaterare con lui del niente e a guardare una vecchina strampalata.

-  Andiamo via? Ormai il sole non abbronza più, inutile restare
-  Già perché a mare si va per abbronzarsi 
-  E certo! Dai andiamo così riusciamo a riposare prima di uscire stasera
-  Vai tu, io resto ancora un po’
-  Ok nonna, ci sentiamo dopo

Niente di meglio che gustarsi da sola quel tramonto, il sole rosso che affonda nel mare e lascia una scia dorata, lussuriosa, con le onde che finiscono a carezzare il bagnasciuga. Un martedì pomeriggio di settembre come tanti, la spiaggia si libera dei patiti dell’abbronzatura e restano lì una giovane donna e una vecchina.

Sara non può fare a meno di guardare con curiosità quel culo floscio che si alza dalla sedia rossa strappata da un lato, a pericolo che si ammazza quella nonnetta dal capo fiorato. Con le gambette magre cammina a scatti verso la riva, bagna i piedi doloranti di un cammino che si trascina da anni e punta due occhi acquosi verso Sara

- Ei tu, che vuoi? 
- Dice a me?
- Si a te. Non vedo altri qui. E’ andato via quel coglione del tuo ragazzo? Sarò anche vecchia ma non sorda
- Mi scusi signora, non...non è il mio ragazzo
- Però è un coglione?
- No, cioè sì, a volte...

Ride Sara, ride la vecchia, che si avvicina alla borsa verde improbabile e prende una bottiglia di Lemonsoda.

- Vuoi una limonata? 
- No grazie non si preoccupi
- Ho i bicchieri puliti, quelli di plastica

Si sente imbarazzata Sara, per levarsi di dosso la tristezza dice sì, si alza e va verso la vecchia, prende il bicchiere e brindano con una Lemonsoda

- Piacere Florinda
- Piacere Sara
- Come la piccola principessa. Che ci fai qui tutta sola?
- Niente. Guardo il mare
- E ti sembra poco? Qui a Pulsano abbiamo le spiagge più belle del mondo. Che fai nella vita?
- Aspetto
- Cosa aspetti?
- Che qualcosa arrivi... un lavoro vero, un amore vero, un figlio un giorno... una vita insomma
- E lo aspetti qui tutta sola?
- No. Lo aspetto in compagnia di buoni a nulla come il tipo di prima. La solitudine mi fa paura. Ma non aspetterò ancora tanto in questa città che non mi merita. Voglio partire
- Dove vuoi andare?
- Australia, Polonia... tutto è possibile, lontano da qui comunque
- Povera sciocca – la vecchia posa il bicchiere e prende un quaderno logoro come tutto il resto dalla sua borsa. Ignora Sara e la sua rabbia che sale dopo un insulto caduto da quella che fino a qualche secondo prima le era sembrata una dolce nonnina.
- Come si permette?
- Mi permetto perché lo sei sciocca. Toh, guarda qua io vado a riposare questi poveri piedi nell’acqua. Povere orecchie mie, cosa mi tocca sentire

Sara è scossa dai nervi, tra le mani il quaderno con la copertina blu consumata. Il vento lo apre e si ritrova davanti ad una ragazza con un sorriso impertinente, strizzata in un costume intero fiorato, con occhi chiari che la scrutano tra i quadretti del foglio. 
 
Il bianco e nero della foto mostra un mare da film d’altri tempi, bello da togliere il fiato. Sotto una didascalia “Marina di Pulsano/primo amore/bagliore”. Quella ragazza torna in un’altra immagine, dietro di lei una Chiesa “Chiesa Santa Maria La Nova/grotta di Lourdes/a Pulsano son stata miracolata”. Altra Chiesa, stessa protagonista, stessi abiti. “Chiesa della Confraternita del Purgatorio/venerdì santo/processione dei Misteri/mistero del mio amore”. Sara sposta lo sguardo sulle gambe vecchie ad ammollo e le riconosce nei tempi migliori delle foto di quell’assurdo quaderno. Un’altra Chiesa fedelmente bianca anche nei colori di allora, lei, la stessa, mostra l’anulare, forse c’è un anello, dettaglio che la tecnologia di un tempo non restituisce “Chiesa del Ss.mo Crocifisso/bianco/amore puro”. Sara chiude il quaderno, ha fretta di andare, via dai ricordi nostalgici che puzzano delle case dei nonni soli nelle giornate d’estate.  

- Dove vai? Non vuoi sapere come va a finire?

La sua voce ad un tratto è dolce e infantile.

- Non c’è un inizio, cosa deve finire?
- Appunto – con un gesto frettoloso le indica di proseguire

Pur di non tornare a casa con lo scrupolo della nonnetta Sara torna a sfogliare le pagine. 
La foto mostra solo la mano, l’anello nuziale in primo piano, da sfondo l´orologio da torre “Il nostro
tempo”.
La giovane ride in abito da sposa, dietro il castello “Castello De Falconibus/la favola/la principessa è stata trovata”.
Torna la spiaggia, la ragazzetta dalle gambe tozze e secca ha la testa fasciata da un fazzoletto, dietro una torre “Torre Castelluccia/non servono difese se c’è amore/non servono difese se c’è mare”.
L’ultima foto e Sara ha un tuffo al cuore “Molino Scoppetta/ti aspetto amore mio”. Racconta un tempo in cui quel posto viveva, nessun interesse culturale, solo gente che lavorava.

- Adesso devo andare, si è fatto tardi
- Aspetta. Hai capito?
- Non saprei, cosa c’è da capire?

Sara lo sente, Sara lo sa, Sara vuole solo non pensare.

-  Leggi questa – le indica una lettera ingiallita dal tempo
“Caro amore mio,
esiste un paradiso che non sia questo mare? La sabbia soffice, l’acqua cristallina, le tue labbra salate.
In questo piccolo mondo mi perderei, in te mi sono persa.
Per sempre tua,
Florinda”

- La storia è questa: ci siamo innamorati. Io non ho esitato un attimo a seguirlo qui a Pulsano (sai sono del Nord io), ci siamo sposati, amati, neanche un figlio questo stupido ventre sterile. Lui amava fotografarmi. Un giorno guardando quelle foto mi disse ‘sai Florì, fai risplendere Pulsano come se fosse la più bella’.
Qualche anno d’amore ci concesse il Signore, poi lui andò a miglior vita. Io non ho mai pensato di andare via, anche se la mia famiglia fece pressioni per farmi tornare ‘che ci fai là tutta sola, neanche un figlio’. Io ormai ero innamorata. Ma tu che vuoi andar via, tu la vedi quanto è bella? Che la mia carne vecchia non si stacca da questo mondo per restare ancora un po’ qui a guardare l’immenso di questo mare”.

Sara guarda quegli occhi acquosi, umidi di vitalità che lei sembra aver perso. Guarda il mare, la sua terra, ripercorre con gli occhi dell’amore le sue strade, nello stomaco si sente il fuoco. 
 
-  Mi fai una foto con quell’aggeggio? 

Sara ormai non si chiede più perché, il suo iPhone con le orecchie da coniglio inquadra una vecchia in posa nel mare splendido e clic.  

- Tieni finiscilo tu questo
- Ma no signora è suo, tenga
- Finiscilo tu, io non ho più il tempo

Sara torna a casa, il quaderno scotta, anche la fronte, ha la febbre. Il giorno dopo Marco la chiama per andare a mare, lei è nel letto e non ha voglia di rispondere.

Un messaggio arriva sul telefono “Sai Sarè, la vecchia pazza è morta. L’hanno trovata sulla riva, piena di alghe e conchiglie, con una faccia da beota”.

Sara si alza dal letto, va a stampare la foto di Florinda, non stampa dai tempi del rullino. 

Quella vecchia pazza è bella su quella carta lucida, intorno a lei un mare azzurro. Sara la attacca sul quaderno all’ultima pagina.

 “Pulsano 2014/Amore mio torno da te/Amore mio mai me ne andrò”.

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ALESSANDRA MACCHITELLA
chegenerediblog.wordpress.com

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Caterina va a Martina

5/12/2014

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Non sappiamo mai quali sono i giorni cruciali della nostra vita, quelli che cambieranno per sempre il corso degli eventi: per fortuna o purtroppo, è sempre così.
Caterina camminava per Martina Franca, da sola, gli occhi levati al cielo e la sua Reflex nella mano destra. Era salita sul primo treno in partenza, spinta dalla volontà di lasciarsi tutto alle spalle almeno per un giorno ed in quel momento Piazza Plebiscito era l’unico posto al mondo in cui ebbe la sensazione di sentirsi accolta e protetta.
Voleva trovare qualcosa da ricordare, da portare con sé e custodire con cura: qualcuno, un giorno, le aveva detto che il bene più prezioso che possediamo è noi stessi e Caterina sapeva che quel “qualcuno” le voleva bene.
Passeggiava per i vicoli del centro storico di Martina Franca e il silenzio di quelle strade la rapì: il mondo parve essersi fermato tra i suoni e gli odori di quella vita semplice, cristallizzato nei sorrisi dei bambini e nei bonari rimproveri delle loro mamme, nei balconi fioriti e nelle case imbiancate a calce.
Aveva da poco superato il più vecchio bar della città, catturata dal bacio passionale di due giovani amanti e fece attenzione a non indugiare troppo con lo sguardo.
I baci sono così complicati: a volte sono promesse, altre volte sono addii.
Si dovrebbe essere sempre pronti a partire, per risparmiare le presentazioni e non rischiare di perdere il lieto fine: questo, almeno, era ciò che pensava in quel momento.
Immortalò i due giovani ragazzi con la sua Reflex e proseguì verso la Basilica di San Martino: altri due scatti, altri due momenti rubati al Tempo e al Domani.

Lui era in piedi, la suola della scarpa destra aderente al muro, un buffo cappello di lana grigio e la sua Marlboro stretta tra l’indice e il medio della mano sinistra.
Caterina sfuggì il suo sguardo, lui trattenne a stento un sorriso abbozzato.
“In vacanza a Martina Franca?” 
“Sì”
Il ragazzo annuì, si morse il labbro inferiore e si fermò ad ammirare la Basilica.
“Abbiamo tante chiese meravigliose:  la Chiesa del Carmine, la Chiesa di San Francesco ... ma questa è la mia preferita!”
Caterina annuì e pensò che un altro scatto potesse servire a mitigare l’imbarazzo.
“Sai, la gente che viene qui non sa mai a quale provincia apparteniamo. Alcuni dicono Brindisi, perché sanno che Cisternino è a due passi, ma la carne qui è molto più buona, te lo assicuro.  Altri, per via dell’accento o del prefisso telefonico, ci scambiano per baresi. A volte qualcuno ci considera persino salentini e la cosa non mi dispiace affatto, adoro quella terra”
"Siete un incidente geografico” commentò Caterina, senza guardarlo
“Già, lo penso anche io. Ma ti assicuro che ovunque tu vada, troverai sempre qualcuno che è passato da qui. Magari per un caffè laggiù al bar Tripoli, forse per uno spiedino di bombette impanate, magari semplicemente per una passeggiata sul Corso ... lo chiamiamo “Lo Stradone”, lo sapevi?”
“No”
“Non preoccuparti. Sapessi quante cose io non so ancora di questa città ... vorrei scappare”
“Perché non lo fai? Non avrai più di venticinque anni”
“Perché poi ritornerei. Succederà anche a te”
Caterina sorrise e realizzò che aveva ripreso la sua camminata da qualche secondo; il giovane era al suo fianco, una presenza che all’inizio le aveva trasmesso inquietudine ma che adesso iniziava ad apprezzare.
Quel ragazzo sapeva di Casa.
Nessuno è felice da solo, lo aveva capito nel corso degli anni.
“Vivi qui?” 
“Sì. Sono cresciuto fuori città, ma poi mi sono trasferito nel centro urbano. Meglio così, le campagne martinesi sono infestate dai Lauri, non lo sapevi? E poi, non c’è mai un  parcheggio. Sono sempre tutti in macchina, corrono da una parte all’altra senza una meta”
“Più una persona va di fretta, più non ha alcun posto dove andare”
“Dici sul serio?”
“Certo. Chi passeggia lentamente, come te, lo fa perché è sereno. Ha un posto dove andare. Ha qualcuno che lo aspetta a casa ... o perlomeno, in un luogo che può definire così”
Il ragazzo sorrise e tacque.
“Dove vanno tutti quelli che non sono in macchina?” domandò Caterina
Il ragazzo si strinse nelle spalle, gettò la sigaretta ed infilò le mani in tasca
“Molti adorano correre” rispose infine, guardando davanti a sé la Porta di Santo Stefano.
“Ho letto da qualche parte che spesso la gente ama correre per colmare un vuoto nel petto, la sensazione di aver perso qualcosa ... o qualcuno”
“Può darsi. Qui solitamente lo fanno in zona Pergolo, dove ci sono le scuole, i Residence e i centri commerciali; le macchine sfrecciano ad una velocità così elevata che spesso chi rischia di perdere qualcuno sono i familiari dei corridori”
“Ognuno fa ciò che ritiene opportuno per cercare di essere felice”
“Già”
Caterina si fermò accanto alla fontana in Piazza Roma e cercò una monetina nella pochette.
Tutti hanno sempre un desiderio da esprimere.
Il suo accompagnatore salutò distrattamente qualche giovane diretto alla biblioteca comunale, guardò
l’orologio sul display del suo Iphone e si chiese quanto potesse risultare invadente proporre un caffè a quella misteriosa sconosciuta.
Lei non si curò di lui e proseguì con le sue fotografie.
Oltrepassarono l’Arco e Caterina si fermò proprio al centro della piazza. Fotografò i quattro angoli e non fece caso alle prime gocce di pioggia; il giovane accanto a lei fissò il cielo terso e rifletté sulle parole giuste da usare.
Proprio quando ritenne di aver selezionato con cura gli estremi della sua proposta, Caterina gli scattò una foto.
“Ehi ..! Ma ... che fai?”
“Volevo ricordarmi di te”
Per la prima volta da quando i loro avversi destini si erano sfiorati, Caterina sorrise.
Quel sorriso portava con sé qualcosa di buono, un’immagine calda e familiare: il giovane replicò goffamente, una smorfia disorientata ed incerta.
“Adesso devo andare. Grazie per la tua breve compagnia”
“Io ... non so neanche come ti chiami ..."
“Meglio evitare le presentazioni. Si risparmia sugli addii”
Non ebbe tempo di ribattere, ma non sarebbe stato in grado di formulare un pensiero di senso compiuto.

La giovane turista riprese il cammino e si diresse verso la Villa Comunale, senza mai voltarsi ma sapendo di avere gli occhi di quel ragazzo puntati su di lei. 
Poco dopo, i suoi occhi si sarebbero persi nella bellezza sconfinata della Valle D’Itria : Martina Franca ne avrebbe ospitato il Festival annuale e, forse, lei vi avrebbe fatto ritorno.
Venne la sera e le trattorie del centro si affollarono di turisti ed avventori di tutte le età, mentre un giovane uomo cercava se stesso negli occhi verdi di una misteriosa ragazza. 
Prima o poi, ne era certo, lei sarebbe tornata.

* FOTO: Carlo Carbotti

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DAVIDE SIMEONE
Davide Simeone FB

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Taranto all'alba

5/5/2014

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Le cinque e quindici. Settembre pieno. All’apice, sul Ponte che Punta una Penna ad arco come bilancia sugli eventi, un uomo, sprofondato nei suoi settantacinque anni, fa sfera al suo e al tempo del giorno che comincia.     
Ritto, con le mani strette al ferro della balaustra, sente l’odore amico del mare salire a commuoverlo negli occhi. I rintocchi dei secondi non trovano spazio nella testa libera dagli affanni.
Era stato un bell’uomo, e lo è ancora malgrado la stupida età, insignificante particolare che non incrina il suo amore per la vita la cui essenza sono state le donne. Aveva passeggiato nei letti come sui marciapiedi; con eleganza, gentilezza, talento e, soprattutto, rispetto. Aveva esercitato l’amore dove il sentimento si faceva carne, riuscendo a renderlo credibile. Si specchiava negli occhi provati delle amanti e vi lasciava la propria immagine. Le salutava col gesto usuale di una carezza sulla fronte per scostare una ciocca di capelli. “Au revoir” sussurrava arrotando la erre.
Il francese, lo chiamavano. 
Era nato in un bordello, nella città femmina per natura, posseduta dalla storia. Amante. Adesso era sdraiata davanti allo sguardo profondo del francese. Lo aspettava.     
L’uomo si era accorto che avevano abusato di lei, non le avevano usato la misura minima di una carezza sulla fronte, anzi, l’avevano stuprata. Anche i facili costumi possono essere strappati e fatti a brandelli dall’insulso coito di un ignorante e rozzo cercatore d’amore. E molti lo avevano fatto impunemente, lasciandola svilita nel fisico e nell’anima. Da tempo, ormai.
L’aria rasata di fresco deterge la faccia del francese, praticata dal tempo, in ogni lembo. Umana. L’uomo guarda la città nella sua interezza, da ponte a ponte, da luce a luce. La vede tremolare e spegnersi a sfumature di buio nel giogo capace dell’aurora. Alba, come le tante ammirate dopo le notti spese a curare il piacere remoto nel corpo di una donna. Alba, ora, respirata con la rassegnata disperazione dell’ineluttabile.  
Si volta. A est il sole sta arrampicandosi all’orizzonte. Lo sente ansimante nella salita, stordito da un’inusitata timidezza. L’uomo ritiene esista un esempio d’umanità nell’infinito, ma gli individui mortali della sua città non erano stati attenti alla lezione.
Lui sì, l’aveva imparata, a modo suo, la lezione, scegliendo il ventre di una donna come alveo di estrema umanità. Le donne gli avevano insegnato la vita e il rispetto che questa comporta. L’essere nato in un bordello aveva mutato in blu il suo sangue. Ossimoro, più che paradosso. Era riuscito nella strenua alchimia che fa della bellezza un bene completo, duraturo.     
Ormai, la città era animata da figli, figliastri, figli illegittimi, amanti che dell’ambiente respiravano l’aria viziata. Individui, la cui fatiscenza di pensiero si aggrappava al piacere istantaneo, che perseguivano la
noncuranza verso se stessi e gli altri, che adottavano l’egoismo e la mancanza di rispetto in un qualsiasi rapporto.     
Si calpestava l’amore. L’amore, anche lo spicciolo, veniva privato del residuo valore a cui, volendo, col minimo sforzo, si poteva dare consistenza. Ecco cosa erano diventati i concittadini del francese; fruitori dell’effimero, rassegnati al respiro corto di un amplesso sbrigativo e volgare.  
Non contemplavano la disperazione, non ci arrivavano col pensiero ampio. Erano rotti al centro e ci passava aria senza valore, infetta, tutt’al più.  
Pensa, il francese, che neppure un bordello, nell’accezione più spregiativa, sarebbe stato così moralmente malato come la sua città. Stringe i pugni con forza al ferro della balaustra che argina il vuoto sopra il mare. Respira profondo nell’intento di acquietare la disperazione limpida dei suoi occhi. Si volta ancora a guardare l’ombra chiara al seno di mare più piccolo del Piccolo. 
Il francese è sospeso tra nascita e morte. Sta all’alba.     
Alba dichiarata che va a scalare, nei due versi contrastanti, ogni santo giorno, le speranze degli uomini di buona e cattiva volontà. Alba sovrana a cui il francese aveva sempre fatto da giullare divertendola coi giochi essenziali dell’esistenza. Le rendeva onore. Alba.
C’era stata scarsa volontà di emergere, nell’indole, assuefatta al minimo, dei suoi concittadini portati di natura a scegliersi il versante a decrescere dello scalare. In pratica, si lasciavano vivere, immobili, indolenti.
Il francese avverte un calore soffuso alle spalle e sa che l’opera sta ricominciando con l’abbaglio del Riflettore. Non gli rimane molto tempo per mettere in atto ciò che ha in mente. Sarà un atto unico da rappresentare in totale solitudine per la regale spettatrice; la sua città.
Il congruo silenzio sta riducendosi a manciata spicciola, corroso dal rumore delle macchine che a brevi intervalli scorrono sul ponte. Dai finestrini spuntano occhi curiosi e titubanti nell’ammirare il francese al limite dell’universo. Il calore si alza di un tono e dà spinta all’attore. L’uomo si accosta alla balaustra, ma lo sguardo è perso nell’attenzione massima volta alla spettatrice sonnacchiosa scossa da sussulti di risveglio nelle arterie. Si spengono le luci. Tutte. E salgono i respiri velenosi esalati da chi le sta attorno e continua a offenderla.
L’ombra del sole scalda il rimasuglio della notte agli angoli delle periferie dove i Tamburi si fanno lamentosi nel cupo battere delle ore a crescere. Sale costante, nell’uomo, la voglia di piangere nel pensare ai pascoli sterminati della sua verde età, al blu cobalto del suo mare, al profumo della vita che si camuffava d’eterno. Sale il dolore, si scioglie negli occhi celesti.   
Nitidi nella memoria riappaiono i vicoli, le viuzze della città vecchia dove ha imparato l’amore e se l’è fatto spiegare dalla manualità acerba e saggia delle donne, nell’umidità di salsedine affissa ai muri. Sente, nel respiro fattosi acuto, le suggestioni e il suo proposito vacilla.    
Rivede, oltre il Ponte che gira, le strade nuove di fresco e i suoi vestiti dal taglio scelto, sempre di bianco, posati con estrema cura nei salotti di classe, prima di entrare nelle camere da letto. Rammenta quando, nelle sere di malinconia, si incaponiva nel visitare i quattro punti cardinali della città, sulla sua vezzosa 850 coupé bianca. Ci andava per delimitarne i confini e sognare un mondo da costruire, presago di affascinanti scoperte. La città gli sembrava appesa all’infinito e lui ne faceva il fulcro.    
Se la sentiva addosso e dentro, la visitava, la possedeva, la percorreva, l’amava, ne conosceva ogni angolo, anche il più remoto. Era il bordello che frequentava onorandolo con la propria classe. Il suo bordello.    
Adesso, dall’ultimo Ponte nato dopo di lui, non riconosce il posto. Si sente estraneo all’andazzo sudicio del tempo attuale. La città non è più sua, e se ne andrà indisturbato prima di vederla agonizzare. Ma è ancora bella. Molto. Là, stesa ad aspettare che il sole la scopra nuda per farsi amare ancora e nonostante tutto.     
Sale sulla balaustra, a fatica per raggiungere un equilibrio serio che non guasti la sua ultima rappresentazione in onore della spettatrice massima, col vento di mare a soffiargli la vita, mentre, alle sue spalle, il sole sta per staccarsi dall’orizzonte.     
Sente voci vicine, vede navi, sotto, ormeggiate, nessuno lo piangerà, nessuno si accorgerà della sua mancanza. Il volo, poi l’acqua, il freddo, il niente. Sarà così a galleggiare prima di essere ripescato e ricondotto agli uomini.     

E’ pronto. L’ultimo sguardo alla sua martoriata città. Se ne vuole andare con quell’unica immagine affissa agli occhi celesti. “Mamma” mormora. La parola che non ha mai detto, né mai conosciuto. La prima e l’ultima. L’unica per tutti. Mamma. Stringe le palpebre così forte che le lacrime gli schizzano al vento. Respira e sente due mani delicate e forti afferrargli le caviglie. Si volta e  scontra, già sconfitto, lo sguardo di una donna. Ha gli occhi di miele e i capelli di  grano.
“Scenda, per cortesia, scenda.” Dice con tutta la dolcezza possibile.
Il francese resta a fissarla, incredulo. Pensa che la donna è la speranza dell’umanità, lui le conosce bene, le donne. C’è speranza, dunque. Si capacita e scende sostenuto da altre mani protese. Ci sono tutti; uomini e donne che lo accarezzano, lo rincuorano strappandogli un sorriso.    
Spalle alla balaustra, incontra gli occhi di miele che sembrano chiedergli: perché!?
Non risponde, ma è felice. E lei lo sa. 
Il francese sente la speranza nell’alba nuova accesa dal sole ormai libero.

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PIETRO FRENTA
IlLabileEqulibrioDellaPedina

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Sulle sabbie della Murgia

4/7/2014

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Oggi, 5 luglio 2026, compio tredici anni e mio padre mi  ha promesso un regalo “insolito”.
Gli avevo chiesto una collana elettronica. L’ultimo modello della MicroShift pesa solo venti grammi ed è un gioiello hightech: microcamere al plasma e nano-computer quantistico, comandi vocali e collegamenti immediati via Internet, anche con la stazione spaziale e la Base sulla Luna. Può prenotarmi per un dialogo con gli astronauti in volo verso Marte, materializzarmi sulla retina immagini tv o dati di archivio e pagine di testo, improvvisare per me videogiochi ottici casuali, crearmi finte identità, e così via. Costa un tantino, ma papà... 

La porta si apre, dev’essere lui! 
— Giulio, alzati — dice papà abbracciandomi. — Auguri, oggi andiamo a prendere un regalo speciale. 
Mi bacia anche Tecla, la mia giovane madre adottiva che è un clone della mia vera madre quarantenne, divorziata da papà. Tecla è identica a mamma però la considero più un’amica. Mi preparo e usciamo, tutti e tre. 
— Sarà una vera sorpresa — dice papà. 
Tecla ride, forse sa già. Io fingo indifferenza. Entriamo nella mini-auto, papà imposta il tragitto, la vettura parte con un leggero scatto. Sono sorpreso: 
— Come mai andiamo fuori Bari?
Silenzio. 
La temperatura esterna è sui 50 gradi, come al solito. È domenica e la città sembra un deserto. 
In silenzio, trascinata dal mono-binario magnetico sotto l’asfalto, l’auto sparata supera la periferia, siamo sui 170 orari. La temperatura aumenta e i vetri si auto-opacizzano, è il minischermo a mostrarci l’esterno. 

Arriviamo alle pendici della Murgia e cominciamo a salire. Le colline sono totalmente spoglie, con rari alberi rinsecchiti qua e là e nessuno si decide ancora a tagliarli. Il terreno è scuro, pietroso, solcato da crepe. Poco dopo in fondo al nastro d’asfalto intravvedo le cupole e il minareto di Zawilah, il paesino costruito da una delle comunità arabe pugliesi.
So che ne creeranno altri, in Africa la temperatura ormai arriva a sfiorare i 70 centigradi. Parcheggiamo in una piazzetta con palme e un minareto, scendiamo e ci inoltriamo fra case basse in un dedalo di viuzze, finché papà si ferma davanti a un grande ingresso ad arco. 
— Vai. 
Entro, e vedo un dromedario. 
— È tuo. — Papà parla in arabo con un certo signor Maliq, immagino contrattino costi e il parcheggio dell’animale. Ma accidenti! La collana-computer sognata da tanto tempo...
— Sali! — mi dice Maliq ridendo. 
Mi ritrovo a cavalcioni sulla bestia e con la mente sono già... via! Lanciato sulle sabbie e le dune desertiche della Murgia, verso l’interno, ricco di strane avventure e di mistero.

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VITTORIO CATANI
www.fantascienza.com/blog/vikkor

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I suoni di Taranto

3/17/2014

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Ecco il nuovo barattolo. Aldo sale in piedi sul letto e ripone il vasetto sulla lunga mensola. Lo sistema tra decine di altri contenitori tutti uguali e sistemati in fila ordinata. 

Stac-Staaaaac. Si sente un suono vibrare tra le sottili pareti di vetro del recipiente. Il bambino attacca in bella vista un’etichetta rossa: “Occhi neri”.

— Cataldo, vieni a mangiare.
— Un attimo, ma’. Arrivo subito.
— Stai perdendo ancora tempo con quei barattoli?
— No, ma’.
— Vieni che la cena si fredda.
— Ma papà non è tornato, ma’.
— Non tornerà, stasera. In fabbrica c’è assemblea. Vieni a mangiare.
Il bambino scende dal letto. Guarda un’ultima volta i suoi barattoli e corre in cucina. Si lava le mani e si siede a tavola. Aldo è piccolo, ma molto preciso e ubbidiente.
— Mamma, ma papà rischia di perdere il lavoro?
— E che ne vuoi capire tu, che hai dieci anni.
— Le maestre ne hanno parlato a scuola.
La mamma abbassa la testa nel piatto e perde lo sguardo tra gli spaghetti al sugo, quando finisce Cataldo è lì a guardarla dritta negli occhi, con la forchetta rimasta a mezz’aria.
— Aldino, non ti preoccupare. C’è stato un brutto sequestro della magistratura e la proprietà minaccia licenziamenti e mobilità all’Ilva, ma i Riva non li affonda nessuno. Bisognerà stringere i denti per un po’ e poi passata la buriana loro torneranno a produrre come prima e più di prima e noi a cenare a un orario normale...tutti insieme. 
Cataldo non fa più domande, finisce il suo piatto di spaghetti, aiuta la mamma a sparecchiare la tavola e aspetta per asciugare i piatti. Lei poi si accende una sigaretta e si piazza davanti alla tv e lui torna in camera sua.

I barattoli sono divisi in due file. Sulla prima linea le etichette rosse. Lungo la seconda quelle blu.
Cataldo si mette il pigiama. Poi apre un barattolo.
Strach. Ssssstracccch. E lo richiude. Sull’etichetta si legge: “Corde di canapa”.
Un altro.
Toc. Toc. Sssstooc. “Troccola”.
Uiu. Uiu. Uiiiiiiu. “Gabbiani”.
Flll. Flll. Flll. “Papaveri”.
Sclash. Sclash. Scaaaalsh. “Onde”.
Ole. Yiuppi. Yeah. Uahhh. “Bambini”
Stac. Stac. Stac. “Occhi neri”. E Cataldo, che ha la mania della precisione, aggiunge sull’etichetta: “Cozze”.
Vrrr. Vrrrr. Vrrrr. “Libellula piccola”. 
Cataldo continua ad aprire e chiudere i suoi barattoli. Solo quelli con le etichette rosse, però. 
Quelli con le etichette blu, li scansa, li evita. Sulle etichette blu si legge: “Telegiornale”. “Manifestazione”. “Macchine”. “Motore”. “Caldaia”. “Forno”. “Parole”. “Fumo”. “Paura”. “Lacrime”. “Mamma”.

— Perché su quel barattolo c’è scritto lacrime?
Cataldo si volta di scatto. È suo padre. È tornato a casa. E il piccolo gli va incontro sulla soglia della sua
camera.
— Sei stanco pa’?
— Un po’.
— Sei triste?
— Un po’.
— Ma perderai il lavoro?
— Credo di no, ma tu non ti devi preoccupare sei solo un bambino.
 
Il papà di Cataldo è un ragazzo. Può avere poco più di trent’anni. Capelli ricci e faccia abbronzata. È un operaio specializzato dell’Ilva. È entrato in azienda cinque anni fa, quando suo padre, il nonno del piccolo Cataldo, è andato in pensione. E anche Cataldo, quando il mese scorso la maestra di Italiano gli ha chiesto di scrivere un tema dal titolo
Che farai da grande, ha scritto:“L’operaio Ilva, come il nonno e papà”. Anche se a Cataldo la grande industria che produce acciaio fa molta paura. La maestra a scuola ha spiegato a tutti cosa è l’inquinamento e quali sono i rischi per la salute, ha usato una frase che fa davvero fifa: “Emergenza sanitaria”. Ma a Cataldo l’Ilva fa venire la tremarella soprattutto perché faceva paura a sua nonna Maria. 

— Non saremo mai ricchi, ma papà ha uno stipendio certo ogni fine mese e tu, piccolo mio, non ti devi preoccupare di niente. Il nostro padrone è molto forte e anche se sui giornali leggi che è tutto bloccato, non è vero. Noi produciamo come prima e più di prima. L’Ilva non si ferma mai. 
Il papà abbraccia Cataldo, la sua piccola testa, le sue piccole mani, le sue guance paffute e lo mette a letto. Gli rimbocca le coperte, proprio come si vede che i papà fanno nei film.
— Non hai risposto alla mia domanda, però? 
Il papà prende in mano il barattolo con la scritta azzurra:“Lacrime”. Lo apre. Non succede niente. E lo richiude.
— Papà, lo sai che è un segreto.
— Sì, un segreto tuo e di nonna Maria.
— Bravo.
— La nonna era una mezza matta, piccolo mio.
— A me la nonna piaceva e poi gliel’ho promesso.
 Il papà spegne la luce e Cataldo affonda la testa nel cuscino. In cucina sente i suoi genitori prima parlare un po’, poi darsi un bacio ...e una porta chiudersi. Poi più nulla. 
 
Quando in casa non sente più rumori Cataldo si alza in piedi sul letto e guarda la sua collezione. Il primo barattolo glielo ha regalato nonna Maria, poco prima di morire. Sopra c’è una scritta rossa:
“Fresie”. Sono il suo fiore preferito.
- Aldo, piccolo Aldo mio, questa città era una città allegra, colorata, viva. Quando nonna era una bambina come te c’erano i pescatori che ogni venerdì sera tornavano in porto con le barche cariche di pesce e si faceva festa, si cenava tutti insieme e si beveva vino primitivo. Mangiavamo pagnottelle e merluzzo fresco come il mare. E c’erano gli allevamenti di cozze, quelle piccole, nere e pelose che ci hanno resi famosi in tutto il mondo. C’erano gli artigiani e i pastori. Noi eravamo una famiglia di contadini. Coltivavamo pomodori e carciofi, avevamo le galline e pure una capra. L’aria era sottile e pulita e si sentivano i profumi di ogni cosa. 
Aldo adorava ascoltare i racconti della nonna. Passava insieme a lei lunghi pomeriggi, soprattutto l’estate quando prendevano il “15” per andare a mare a Lido Azzurro e poi si facevano l’ultimo tratto, dalla stazione casa, a piedi.
- Ma poi sono arrivati i camini e tutto e cambiato.
La nonna non chiamava mai l’Ilva con il suo nome, diceva sempre i “camini”. Come chiamava la polvere nera che si poggiava ogni sera sui balconi e sui panni stesi ad asciugare semplicemente “il minerale”.

La nonna si è ammalata di “un brutto male”, come tutti lo  hanno chiamato. Aldo non ha capito molto. Sa solo che un’estate la nonna non lo ha accompagnato più a mare, a settembre gli ha regalato il barattolo e a dicembre è morta.
— Taranto è una città piena di suoni e di voci. Raccogli tutte le voci di Taranto e conservale, perché presto spariranno. E prima delle altre spariranno le più belle. 
Gli ha detto la nonna, quando gli ha affidato il barattolo delle “Fresie”.

Aldo ha iniziato la sua collezione quando aveva otto anni. Ha diviso i suoni belli da quelli che gli fanno paura. Etichette rosse ed etichette blu. All’inizio i suoni con le etichette rosse erano molti di più. Ma ora, stanno diminuendo e aumentano le etichette blu. Sono tutti suoni legati ai camini: “fiammata”, “lavoro”, “sirena”, “marcatempo”, “manifestazione”, “blocco stradale”, “elettrocardiogramma”, “ecografia”, “studio medico”, “busta paga”. 
Spesso quando suo padre va al lavoro Aldo gli infila un barattolo nello zaino, con il coperchio aperto, e la sera lo recupera di nascosto, sente il rumore che è finito nel barattolo e lo etichetta. È riuscito così a catalogare rumori molto preziosi. 
 
Aldo prende il barattolo “Fresie” e lo poggia sul cuscino. Lo apre un po’. Sottile esce la voce della sua nonna.
— Conserva le voci della Taranto bella.
Aldo chiude il barattolo e si addormenta. 
Domani vuole prendere il bus numero 15 ed andare al mare, per catturare il suono del tramonto, quello a strisce gialle e rosse che solo Taranto ha.

* Questo  racconto è dedicato a Maria Carmen Morese del Goethe Institut, ad Alessandra Eramo e ai cinque artisti berlinesi che sono venuti a Taranto nell’ottobre 2013 per raccogliere i suoni della città e trasformarli in un percorso artistico dal nome “Correnti seduttive”. A loro che mi hanno insegnato ad ascoltare la voce di Taranto.

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CRISTINA ZAGARIA
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Il ponte sul Galaso

3/9/2014

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    I posti che mi hanno formato sono, pur se nella terra più arida d'Italia, la Puglia, fra due fiumi: il Gàlaso e il Galèso (esiste in Mediterraneo, o almeno dalle nostre parti, un radicale “g-l”, pre-greco, che significhi “fiume”, “acqua”?).
    I fiumi scorrono dalla sorgente alla foce e per questo sono metafora della vita; ma per me la costruzione della coscienza cominciò alla foce del Gàlaso, e il percorso dell'infanzia si concluse con un rito di passaggio nella sorgente del Galèso. All'incontrario, come la memoria. Naturalmente, con questa limpidezza lo vedo adesso, a distanza, guardando al me che fui, come fosse un altro.
    Il Gàlaso sfocia a Ginosa Marina, nel Tarantino, affiorando quattro chilometri a monte, dove lo zoccolo carsico della Murgia si abbassa per scendere nello Jonio. Eravamo poche decine di persone, a Ginosa Marina (allora chiamata Venticinque, dal numero di casello ferroviario), quando ero bambino, nel Paleolitico superiore: decine di chilometri di pineta a Est, decine a Ovest, qualche chilometro di pineta alle spalle, a Nord, interrotta da coltivi (specie carote, “i past'nache”), su terra salmastra che era stata palude e fu bonificata da mio nonno materno, di cui porto il nome. E davanti, a Sud, il mare, con una spiaggia profonda, che si alza in lente dune, su cui radi cespi s'infittiscono, sino all'infestante miseria (che però è grassa...), al sottobosco, al bosco.
    Alla foce, il Gàlaso rallenta, si allarga e si fa poco profondo: guadabile anche da un bambino. Ma io non lo feci mai, perché mi convinsi che il fiume segnasse la fine del mondo e tutto quello che vedevo dall'altra parte, sulla sponda destra, fosse immateriale, fatto di aria: piante, mare, radi uomini inclusi. Spiavo, giornate e giornate, affascinato e impaurito, quel mondo di nulla ma così simile, uguale al vero, per coglierne il segreto. Ho raccontato questa storia in "Elogio dell'errore".

    C'era un amico di mio padre che veniva a trovarci a casa, i pomeriggi d'estate e, mentre conversava con papà, sbucciava e ci porgeva fichi d'india che traeva da una vaschetta di latta, in cui erano stati messi a galleggiare, per nettarli dalle spine. Quell'uomo giungeva dall'altra riva, ma lo toccavi, non era apparenza. Così capii che le persone fatte di aria sulla sponda destra si materializzavano sulla sponda sinistra del Gàlaso; a produrre il cambio di stato (lasciando immutata la loro vera natura, si capisce: non  erano come noi) era il ponte sul Gàlaso, il cui attraversamento segnava il passaggio da un mondo a un altro.
    Avevo cinque anni, quando da Ginosa Marina ci trasferimmo a Taranto. E fu un trauma: io sapevo chi erano gli esseri d'aria, nel nostro villaggio: quelli che venivano dall'altra parte del fiume. Ma a Taranto? Fra tutta quella gente, in una città, come riconoscerli? Scrutavo, spiavo, cercando di non far scoprire che sapevo.
    Non ricordo quando questa idea mi abbandonò, si perse. Ma so quando superai il limite postomi dal fiume: ero appena adolescente e, dal rione Tamburi, dove ci eravamo stabiliti, noi ragazzini facevamo i bagni a Mar Piccolo. I più grandi, invece, segnavano la differenza di età e capacità, optando per la sorgente del Galèso, uno dei fiumi più piccoli del mondo: 900 metri di lunghezza, ma una portata enorme, quattromila litri al secondo (un angolo di paradiso ora violentato: le palme, la pineta, gli eucalipti; cantato dai maggiori poeti, dall'antichità a oggi). Il Galèso erompe gelido, dopo il lungo e ignoto percorso sotterraneo, l'acqua innervata da tremuli filetti come di ghiaccio, d'un colore elettrico.
    Andavamo a piedi, dai Tamburi al mare, al fiume. Si arrivava ansanti e sudati. E i “grandi” si sfidavano: il più audace è “colui che primamente” si tuffa accaldato nella sorgente. Choc termico che era costato la vita a qualcuno, si raccontava («Un amico di mio cugino...»). Altri ne vedemmo soccorsi, in difficoltà, a mordere l'aria.
    Noi piccolini commentavamo, fra ammirazione e giudizioso rimprovero (come da istruzioni, alle quali ci faceva comodo attenerci). Finché un giorno cacciai un urlo e mi buttai nella sorgente. Entrò in acqua un adolescente sudato; riemerse, con qualche momentaneo problema di respirazione, la promessa di un uomo. Per “quelli dei Tamburi”, era un rito di iniziazione.
    Circa venticinque anni dopo, tornai alla foce del Gàlaso. Fui colto da violenta, inspiegabile paura; cominciai a tremare sempre più forte e non capivo perché. Poi, mano a mano che mi calmavo, cominciò a riaffiorare il ricordo degli esseri d'aria, che avevo perduto.
    Iniziai, da lì, una ricerca. Dalla foce alla sorgente, all'indietro, come la memoria.

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PINO APRILE
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Castellaneta: il colore dell'anima

1/28/2014

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E' la luce che fa la differenza. 
Sulla terra, intendo.
Ogni luogo del mondo ne ha una sua propria, e non occorre spostarsi di molto: qualche decina di chilometri e tutto cambia.
In realtà non saprei dire se capita a qualsiasi latitudine, ma di certo in Puglia è così che funziona.
Specie nelle mattine d'estate. Specie se ti capita di andare da Bari verso Taranto percorrendo la vecchia e ritorta statale, alla ricerca di qualcuno che ben conosci e che non incontri da tanto. 
Tutte queste riflessioni si erano affacciate appena superata Gioia del Colle. Con il finestrino abbassato lasciavo entrare l'aria e riempivo così l'abitacolo di vento e di essenze intense di campagna: sui jeans lisi, sulla camicia bianca, sui capelli scompigliati e sui miei imprecisati anni. E anche sulla musica a tutta manetta e sulla borsa in tela poggiata sul sedile con dentro asciugamano, olio solare e un vecchio libro. 
Vecchio si fa per dire, perché i libri non invecchiano mai: al più possono essere classificati tra i letti, o tra i riletti, o tra quelli da leggere o da ri-leggere.
O forse da leggere più in là, quando sarà il momento: si, perché ogni libro ha il suo, che viene stabilito da coincidenze astrali in tacito accordo tra l'essere cartaceo detto testo e l'essere umano che lo leggerà, forse, prima o poi. 
Invero, comunque, ogni libro che una persona non ha ancora letto è per quest'ultima ancora 'nuovo', e lo sarà per sempre fin quando non lo leggerà.
Questa è l'unica certezza, sull'argomento.
La temperatura era già elevata, intanto. Il cielo senza una nuvola, e il sole che picchiava duro. Si. D'estate il sole brucia, ma non qui. Non se vai verso Taranto percorrendo la 100, e ancora meno se ad un certo punto, a San Basilio, giri a destra. La prima cosa che notai fu proprio la luce. Aveva iniziato a cambiare già da qualche chilometro, ed anche il sole si era fatto più gentile. Non era solo impressione, pensai: intorno a me cambiava anche la vegetazione. E questa ne era la prova vivente.
Il paesaggio mi avvolse completamente nei suoi colori: giallo del grano sfumato al rosso scuro della terra, verde dell'erba fresca e azzurro cielo sullo sfondo. Percorrendo la provinciale, sui lati della strada ondeggiavano lenti i canneti. Sinuosi danzavano alla brezza lieve inondando l'aria di un profumo intenso, e i pensieri si fecero ancor più diradati, lasciando via via spazio alle sensazioni. 
Un viaggio che stava iniziando adesso. Questo il segnale: cominciavo a dimenticare tutto per essere quel che ero, e basta, in quel momento. 
La strada si era fatta una striscia d'asfalto che attraversava campagne e campi piani, e a tratti alberi a boscaglia. Poi, d'improvviso, tagliava quasi in due Castellaneta. Un paese gentile, dalla luce tenue, e a quell'ora praticamente deserto. 
Sulla destra una figura immobile che indossava una tunica. Una leggenda: Rodolfo Valentino, con i suoi sogni Hollywoodiani e una fantasmagorica esistenza. Poi una curva e ancora la strada, fattasi un contorto filo nero steso sulla campagna incantata. Come perle, intorno, distese di angurie pronte per essere colte.
In fondo la sabbia bianca fine, ed alla fine il mare.
Raggiunsi la riva, e mi guardai intorno: acqua e sole a perdita d'occhio. Un paradiso in terra.
A piedi nudi ritrovai pace, e respirai piano.
Forse, dissi tra me, da qui non tornerò mai indietro.
Qui, su questa sabbia, passo dopo passo ho finalmente ritrovato me stesso: blu oltremare il colore dell'anima, ora. E lasciai prendere il largo al mondo intero, ai ricordi e ai miei imprecisati anni, che d'un tratto non avevo più.  
Il mio viaggio era finito. Potevo sedermi, finalmente, incrociare le gambe e restare così, per sempre, a sognare.
Aprii il mio libro. 
Un libro di poesie, nuovo, dei primi novecento: di tal Rodolfo Guglielmi, in arte Valentino, che sognava ad occhi aperti. 
E nel mare delle pagine, in me mi persi.
 
Italia.
"La terra è solo terra per i piedi
per gli uomini che camminano
ad occhi bassi.
Ma tutto è la terra
per l 'anima che cerca.
Chi la chiama casa,
chi cuore, chi possesso,
io che amo il sole
la chiamo Italia.”

(Rodolfo Valentino)

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NICKY PERSICO
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Taranto vecchia

1/16/2014

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Non sono ancora le tre e Giovanni è già sul mare, che aspetta. Cammina in bilico sull’orlo della banchina di pietra bianca, sale e scende dagli scheletri delle panchine comunali, si mette a correre in tondo sulla piattaforma di legno galleggiante, imita gli strilli dei gabbiani, borbotta goffi ordini marinareschi e li esegue in fretta e furia, neanche avesse un aguzzino alle spalle, tirando reti e mollando ancore. La sua città è vuota a quest’ora, tutta per lui. Il pavimento sbucciato che calpesta è posato su una lingua di terra lunga pochi chilometri che ritaglia un pezzetto di mare fatto a sua misura, riesce a prenderlo tutto con uno sguardo. Una fitta serie di palazzine basse aggrappate le une alle altre, nude file di larghi mattoni di tufo ingiallito imbiancati di calce qua e là, nascondono metà dell’orizzonte. È convinto che volendo avrebbe potuto  abbatterle a testate ma, anche se a guardarle una per una fanno pena, viste tutte assieme gli piacciono le facciate allineate di quelle case, sembrano un corpo solo, la carcassa di un vecchissimo animale. Aria calda sferruzza sulla superficie del mare sollevando soffi di vapore sottile che gli si fermano sul viso sotto forma di un velo umidiccio e polveroso di acqua e sale. Lo sente proprio il sapore del sale, se si lecca le labbra. Come sempre il sole è salito in alto, in una fetta di cielo sgombro, senza che riuscisse a sorprenderlo in movimento. I bidoni bucherellati dalla ruggine e gli scarti di reti marce gli sembrano persino belli illuminati così, un tesoro di colori puliti senza sbavature, è come se il sole avesse deciso di ingranare la quinta e rendere per qualche ora ogni cosa scintillante. A intervalli di cinque-sei secondi Giovanni alza la testa e getta uno sguardo lontano, verso l’orlo del mare ritagliato da palazzi a quattro piani verniciati con un marrone che nessuno sceglierebbe per la propria casa e le tapparelle verdi abbassate, palazzi dai cui tetti spuntano tubi a sonagli, lunghi e stretti. Quando vede comparire la prua rotonda della sua barca, l’agitazione diventa frenesia: su, giù, avanti, indietro, alza le braccia, le abbassa, salta, come un naufrago che vede passare una nave all’orizzonte.

 La paranza, né grande né piccola, non ha ancora attraccato che lo zio si sporge e gli passa una cassetta di plastica viola con dentro il pesce migliore della giornata. Giovanni la porta all’ombra, in un angolo dove ha già preparato tutte le sue cose, di fronte ad un edificio con assi di legno inchiodate alla finestre e l’ingresso murato alla meglio, e comincia a lavorare con gesti rapidi e precisi: suddivide il pesce in parti uguali, come non riuscirebbe mai a fare con le pere e le mele dei problemini che gli danno a scuola, e lo avvolge prima in fogli di carta oleata e poi dentro le pagine rosa di un quotidiano. Se non è possibile fare le parti uguali usa un sistema tutto suo di equivalenze: tre triglie valgono quanto un’orata, quattro gamberi quanto una spigola, una spigola almeno quanto cinque  polpi, una aragosta basta da sola per due giorni. Ne vengono fuori quindici pacchettini perfetti che sistema di nuovo dentro la cassetta e ricopre con del ghiaccio triturato nella cucina di casa sua con una centrifuga a manovella.

 Si alza e via, a tutta velocità: oggi la cassetta è leggera leggera, il suo lavoro sarà facile. Portare il pesce migliore alle famiglie che lo comprano direttamente dalla barca e a quelle che il pesce migliore devono averlo, questo è il suo compito. In cambio guadagna spiccioli per un Twister e una Fanta, ma per lui conta soltanto la manona grata del papà fra i capelli e le pacche dei cugini più grandi. Conta stare in un posto vero, giocare con la barca e le reti vere, per questo corre più veloce che può, vuole tornare al molo in tempo per le ultime faccende. Gli basta pensare a suo padre che tende una cima e a tutti quelli che gli orbitano attorno per sentire il cuore battere più forte e i piedi muoversi più rapidamente, si sente letteralmente trascinato in avanti.  
 
 Conosce l’isola come fosse il pianerottolo di casa sua e ha studiato il percorso più breve. Passa davanti alle facciate delle case agonizzanti ammassate su tutto l’arco della marina mentre le prime saracinesche cominciano ad aprirsi sputando fuori canzoni napoletane, supera degli operai impegnati a far funzionare con metodi sbrigativi una betoniera, attraversa un muro di panni ancora gocciolanti, arriva sino ai palazzi rimessi a nuovo sopra ai giardini sant’Egidio e si tuffa nel budello di pietra della città vecchia. La sedia di paglia di zia Rosa, scalette lunghe e piatte che non c’è modo di salirle due per volta, la sala giochi senza giochi, l’afoso sgabuzzino dei carabinieri. Sa già chi a quell’ora sta dormendo e dove lasciare il relativo pacco, chi preferisce che appoggi il pesce sul banco della salumeria sotto casa e chi basterà chiamare ad alta voce per vederlo uscire sul balcone per prendere la sua parte. Dice “ciao” a tutti ma non si ferma a parlare con nessuno, rifiuta l’aranciata fresca offertagli dalla signora Maria e ignora i bambini che perdono il loro tempo seduti su biciclette scassate.

 Quando ritorna sulla banchina si ferma per la prima volta a rifiatare e sorride: sono ancora tutti lì. Si intrufola tra i corpi sudati dei suoi compagni di lavoro a testa alta, prova a tirare in fuori tutto il petto che ha e indurisce lo sguardo. Osserva, fa qualche domanda di cui conosce già la risposta, cerca un galleggiante dimenticato in un angolo, il lembo di una rete da tener teso, un buco da ricucire. Il padre, lo zio, i cugini e tutti gli altri oggi lo ignorano; anzi, sembrano sforzarsi di dargli le spalle e cominciano a brontolare: “Vattinn’” “Livt a nnanz” “Giuà, tu non c’ha sta’ a qua”. Appena comincia a sentire odore di mazzate, Giovanni si allontana, sa qual è l’umiliazione a cui va incontro: qualcuno lo avrebbe preso alle spalle, afferrandolo dalle ascelle, e lo avrebbe portato via di peso senza fare alcuno sforzo, mentre lui agitava le gambe come un moccioso qualsiasi; lo schiaffo sarebbe stato la parte meno dolorosa della scena. Va a sedersi sotto la vecchia pensilina Cariati e si mette a guardarli da lontano. Lì osserva con le sopracciglia aggrottate, lavorano l’uno per l’altro, senza dover chiedere nulla, senza fare commenti. Alcuni gesti sono minuti, da sarto, invisibili; altri richiedono una forza bruta che lui non avrà per moltissimi anni ancora, oppure sembrano parte di una lunga catena che proprio non riesce a intuire da dove cominci e come possa concludersi. Il solo immaginare di dover maneggiare i fiumi vorticosi delle reti sospese tra la barca e la piattaforma gli fa venire il fiato corto.

 Giovanni osserva le schiene dei suoi pescatori che si piegano, le dita callose che si stringono su corde sottili, i denti serrati, gli occhi assonnati, le smorfie. Loro lavorano ancora per circa un’ora - in silenzio, senza guadarsi nemmeno - e poi, uno alla volta, tornano alle loro case per chiudersi dietro le tapparelle e provare a dormire. Il padre si asciuga le fronte con uno straccio grigio, lo getta sul ponte della barca e gli viene incontro: è bellissimo, con la sua folta barba nera, le braccia solide, il petto ampio, le larghe placche d’oro giallo che gli circondano il collo perfetto, pare un dio antico. Gli si avvicina e lo fissa con i suoi occhi perennemente abbagliati dal sole: “Giuà, nu t’fa vdè chiù a qua. E no tu dic’ chiù”.

 Giovanni preme la labbra superiori su quelle inferiori e fa ‘sì’ con la testa. Quando tutti sono andati via si alza, va a sedersi vicino alla paranza della sua famiglia, sull’orlo di pietra della banchina, e stringe forte forte le palpebre. Presto un vento robusto comincia a soffiare sul suo viso, l’odore di legno bagnato diventa pungente, le urla dei gabbiani si fanno voci umane e le pietre su cui è seduto si mettono a dondolare, al ritmo delle onde. La chiglia della sua nave si solleva e ricade rumorosamente sull’acqua, mentre lui la conduce verso il mare aperto.

 Riapre gli occhi e  tutto è immobile: i larghi banconi di alluminio delle pescherie sono vuoti, la strada di lucido asfalto è deserta, una barca ricoperta di alghe marroni affoga un millimetro sotto il pelo dell’acqua. Dei vecchi magrissimi affollano le panchine, piegati sui loro bastoni. Giovanni si alza in piedi e guarda più  lontano che può. Nuvoloni di polvere rossastra imbrattano la pancia delle nuvole più basse, lo sfondo del suo mondo ha i colori del ferro arrugginito. Il suo futuro è già vecchio.

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MAURIZIO COTRONA
buonafede.wordpress.com

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