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Taranto all'alba

5/5/2014

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Le cinque e quindici. Settembre pieno. All’apice, sul Ponte che Punta una Penna ad arco come bilancia sugli eventi, un uomo, sprofondato nei suoi settantacinque anni, fa sfera al suo e al tempo del giorno che comincia.     
Ritto, con le mani strette al ferro della balaustra, sente l’odore amico del mare salire a commuoverlo negli occhi. I rintocchi dei secondi non trovano spazio nella testa libera dagli affanni.
Era stato un bell’uomo, e lo è ancora malgrado la stupida età, insignificante particolare che non incrina il suo amore per la vita la cui essenza sono state le donne. Aveva passeggiato nei letti come sui marciapiedi; con eleganza, gentilezza, talento e, soprattutto, rispetto. Aveva esercitato l’amore dove il sentimento si faceva carne, riuscendo a renderlo credibile. Si specchiava negli occhi provati delle amanti e vi lasciava la propria immagine. Le salutava col gesto usuale di una carezza sulla fronte per scostare una ciocca di capelli. “Au revoir” sussurrava arrotando la erre.
Il francese, lo chiamavano. 
Era nato in un bordello, nella città femmina per natura, posseduta dalla storia. Amante. Adesso era sdraiata davanti allo sguardo profondo del francese. Lo aspettava.     
L’uomo si era accorto che avevano abusato di lei, non le avevano usato la misura minima di una carezza sulla fronte, anzi, l’avevano stuprata. Anche i facili costumi possono essere strappati e fatti a brandelli dall’insulso coito di un ignorante e rozzo cercatore d’amore. E molti lo avevano fatto impunemente, lasciandola svilita nel fisico e nell’anima. Da tempo, ormai.
L’aria rasata di fresco deterge la faccia del francese, praticata dal tempo, in ogni lembo. Umana. L’uomo guarda la città nella sua interezza, da ponte a ponte, da luce a luce. La vede tremolare e spegnersi a sfumature di buio nel giogo capace dell’aurora. Alba, come le tante ammirate dopo le notti spese a curare il piacere remoto nel corpo di una donna. Alba, ora, respirata con la rassegnata disperazione dell’ineluttabile.  
Si volta. A est il sole sta arrampicandosi all’orizzonte. Lo sente ansimante nella salita, stordito da un’inusitata timidezza. L’uomo ritiene esista un esempio d’umanità nell’infinito, ma gli individui mortali della sua città non erano stati attenti alla lezione.
Lui sì, l’aveva imparata, a modo suo, la lezione, scegliendo il ventre di una donna come alveo di estrema umanità. Le donne gli avevano insegnato la vita e il rispetto che questa comporta. L’essere nato in un bordello aveva mutato in blu il suo sangue. Ossimoro, più che paradosso. Era riuscito nella strenua alchimia che fa della bellezza un bene completo, duraturo.     
Ormai, la città era animata da figli, figliastri, figli illegittimi, amanti che dell’ambiente respiravano l’aria viziata. Individui, la cui fatiscenza di pensiero si aggrappava al piacere istantaneo, che perseguivano la
noncuranza verso se stessi e gli altri, che adottavano l’egoismo e la mancanza di rispetto in un qualsiasi rapporto.     
Si calpestava l’amore. L’amore, anche lo spicciolo, veniva privato del residuo valore a cui, volendo, col minimo sforzo, si poteva dare consistenza. Ecco cosa erano diventati i concittadini del francese; fruitori dell’effimero, rassegnati al respiro corto di un amplesso sbrigativo e volgare.  
Non contemplavano la disperazione, non ci arrivavano col pensiero ampio. Erano rotti al centro e ci passava aria senza valore, infetta, tutt’al più.  
Pensa, il francese, che neppure un bordello, nell’accezione più spregiativa, sarebbe stato così moralmente malato come la sua città. Stringe i pugni con forza al ferro della balaustra che argina il vuoto sopra il mare. Respira profondo nell’intento di acquietare la disperazione limpida dei suoi occhi. Si volta ancora a guardare l’ombra chiara al seno di mare più piccolo del Piccolo. 
Il francese è sospeso tra nascita e morte. Sta all’alba.     
Alba dichiarata che va a scalare, nei due versi contrastanti, ogni santo giorno, le speranze degli uomini di buona e cattiva volontà. Alba sovrana a cui il francese aveva sempre fatto da giullare divertendola coi giochi essenziali dell’esistenza. Le rendeva onore. Alba.
C’era stata scarsa volontà di emergere, nell’indole, assuefatta al minimo, dei suoi concittadini portati di natura a scegliersi il versante a decrescere dello scalare. In pratica, si lasciavano vivere, immobili, indolenti.
Il francese avverte un calore soffuso alle spalle e sa che l’opera sta ricominciando con l’abbaglio del Riflettore. Non gli rimane molto tempo per mettere in atto ciò che ha in mente. Sarà un atto unico da rappresentare in totale solitudine per la regale spettatrice; la sua città.
Il congruo silenzio sta riducendosi a manciata spicciola, corroso dal rumore delle macchine che a brevi intervalli scorrono sul ponte. Dai finestrini spuntano occhi curiosi e titubanti nell’ammirare il francese al limite dell’universo. Il calore si alza di un tono e dà spinta all’attore. L’uomo si accosta alla balaustra, ma lo sguardo è perso nell’attenzione massima volta alla spettatrice sonnacchiosa scossa da sussulti di risveglio nelle arterie. Si spengono le luci. Tutte. E salgono i respiri velenosi esalati da chi le sta attorno e continua a offenderla.
L’ombra del sole scalda il rimasuglio della notte agli angoli delle periferie dove i Tamburi si fanno lamentosi nel cupo battere delle ore a crescere. Sale costante, nell’uomo, la voglia di piangere nel pensare ai pascoli sterminati della sua verde età, al blu cobalto del suo mare, al profumo della vita che si camuffava d’eterno. Sale il dolore, si scioglie negli occhi celesti.   
Nitidi nella memoria riappaiono i vicoli, le viuzze della città vecchia dove ha imparato l’amore e se l’è fatto spiegare dalla manualità acerba e saggia delle donne, nell’umidità di salsedine affissa ai muri. Sente, nel respiro fattosi acuto, le suggestioni e il suo proposito vacilla.    
Rivede, oltre il Ponte che gira, le strade nuove di fresco e i suoi vestiti dal taglio scelto, sempre di bianco, posati con estrema cura nei salotti di classe, prima di entrare nelle camere da letto. Rammenta quando, nelle sere di malinconia, si incaponiva nel visitare i quattro punti cardinali della città, sulla sua vezzosa 850 coupé bianca. Ci andava per delimitarne i confini e sognare un mondo da costruire, presago di affascinanti scoperte. La città gli sembrava appesa all’infinito e lui ne faceva il fulcro.    
Se la sentiva addosso e dentro, la visitava, la possedeva, la percorreva, l’amava, ne conosceva ogni angolo, anche il più remoto. Era il bordello che frequentava onorandolo con la propria classe. Il suo bordello.    
Adesso, dall’ultimo Ponte nato dopo di lui, non riconosce il posto. Si sente estraneo all’andazzo sudicio del tempo attuale. La città non è più sua, e se ne andrà indisturbato prima di vederla agonizzare. Ma è ancora bella. Molto. Là, stesa ad aspettare che il sole la scopra nuda per farsi amare ancora e nonostante tutto.     
Sale sulla balaustra, a fatica per raggiungere un equilibrio serio che non guasti la sua ultima rappresentazione in onore della spettatrice massima, col vento di mare a soffiargli la vita, mentre, alle sue spalle, il sole sta per staccarsi dall’orizzonte.     
Sente voci vicine, vede navi, sotto, ormeggiate, nessuno lo piangerà, nessuno si accorgerà della sua mancanza. Il volo, poi l’acqua, il freddo, il niente. Sarà così a galleggiare prima di essere ripescato e ricondotto agli uomini.     

E’ pronto. L’ultimo sguardo alla sua martoriata città. Se ne vuole andare con quell’unica immagine affissa agli occhi celesti. “Mamma” mormora. La parola che non ha mai detto, né mai conosciuto. La prima e l’ultima. L’unica per tutti. Mamma. Stringe le palpebre così forte che le lacrime gli schizzano al vento. Respira e sente due mani delicate e forti afferrargli le caviglie. Si volta e  scontra, già sconfitto, lo sguardo di una donna. Ha gli occhi di miele e i capelli di  grano.
“Scenda, per cortesia, scenda.” Dice con tutta la dolcezza possibile.
Il francese resta a fissarla, incredulo. Pensa che la donna è la speranza dell’umanità, lui le conosce bene, le donne. C’è speranza, dunque. Si capacita e scende sostenuto da altre mani protese. Ci sono tutti; uomini e donne che lo accarezzano, lo rincuorano strappandogli un sorriso.    
Spalle alla balaustra, incontra gli occhi di miele che sembrano chiedergli: perché!?
Non risponde, ma è felice. E lei lo sa. 
Il francese sente la speranza nell’alba nuova accesa dal sole ormai libero.

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PIETRO FRENTA
IlLabileEqulibrioDellaPedina

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7 Comments
Antonino
5/4/2014 08:11:16 pm

Bella. Mi esprimo con tutti i miei limiti.
Poetica rappresentazione di una città ferita a morte, ma essa stessa fornitrice di speranza. Mi piace la tua rappresentazione di una città che diventa veicolo di salvezza per l'autore delle sue ferite.

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Angela
5/5/2014 04:10:08 pm

Alta poesia. Quando i sentimenti si fanno parole.

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Lucia
5/5/2014 05:47:35 pm

Bellissimo, poetico e commovente!

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Pinot
5/6/2014 05:58:25 am

Bravo Piero, eccezionale nel far vivere emozioni al lettore in questa splendida sintesi della speranza.

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maria rizzi
5/6/2014 07:37:57 am

Ho letto questo magnifico brano, che attinge dal laboratorio verista elevandolo a livelli da brividi e mi è tornata in mente la canzone di Dalla "4 marzo 1943" ... Il 'francese' simbolizza la sofferenza dell'uomo e il senso di non appartenenza a un luogo... Pietro affida il suo stato di disagio interiore al protagonista venuto da lontano... e risulta, ancora e sempre, un narratore vibrante, magico, pazzesco!

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Patrizia Bruggi
5/10/2014 11:31:09 pm

Mi sarebbe sempre piaciuto fare la giornalista. La vita mi ha portato su altre strade. Ma se avessi potuto scrivere su un giornale del racconto di Pietro, ne avrei scritto così…
Uno di quei film francesi. Con le riprese lunghe, che inquadrano gli occhi del protagonista. Un tipo alla Jean Gabin, alla Lino Ventura. Che tanto recano scritto sotto le rughe di espressione del viso. E che conoscono le città di mare. I porti. Taranto, raccontata da mio padre, suo zio e mio nonno, tutti nella Marina Militare Italiana, che ricordavano quella città come il più bel porto militare, con il suo golfo.
La bellezza del protagonista del racconto, non ancora sfiorita (non sfiorirà mai, se la porta dentro), all’alba di un mattino di settembre. L’ora precisa per chi, come lui, riflette e forse ha già deciso.
La pellicola, nel film francese, si permette una sovraesposizione. L’abito bianco del protagonista, che conosce la sua città nel profondo e il sole che si arrampica sul mare. Una sovraesposizione che non è errore del regista o del cameraman. E’ sovraesposizione di sensi. Di chi i sensi li conosce, li ha gustati, è stato allevato dai sensi. Ma ora, ne vede lo scempio fatto da chi, i sensi, non sa più cosa siano.
Il disincanto. Nel vedere come “la città era animata da figli, figliastri, figli illegittimi, amanti che dell’ambiente respiravano l’aria viziata. Individui, la cui fatiscenza di pensiero si aggrappava al piacere istantaneo, che perseguivano la noncuranza verso se stessi e gli altri, che adottavano l’egoismo e la mancanza di rispetto in un qualsiasi rapporto”.
Il disincanto del francese. Che, avendo assaporato la sensualità nelle sue mille forme, sa scindere tra il peccato a buon mercato e ordinario e il gesto tenero, disinteressato, ma pieno di piacere.
La pellicola scorre, il regista fissa il personaggio, silenzio sul set. A parte, forse, solo per il ronzio della macchina da presa, lo sciabordio del mare e il vento sul volto di “Jean Gabin-Lino Ventura”.
«Che ne è stato di te e di me?», sembra chiedere il protagonista alla sua città, quasi fosse una donna di cui si è fatto scempio senza riguardo. Come dopo il sacco da parte di barbari che, distrutte le mura, hanno invaso la città. E il pensiero che, forse, non sarà più nulla. Di nuovo sovraesposizione. L’inquadratura vira, di nuovo lo sguardo del francese, il protagonista. Quel taglio di occhi che credono in una soluzione estrema.
Ma saranno altri occhi, “occhi di miele e i capelli di grano” a riaccendere il lui la speranza. La femminilità sensuale a riscattarlo. Potevano essere occhi scuri, occhi mediterranei, poco importa. Sono occhi di donna. Di femmina. Nel senso più nobile e, forse, quasi dimenticato della parola.

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Nicky Persico
8/25/2014 01:35:21 am

Molto bello

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