Si stonavano col fumo dell’Americano, dentro una Charleston rossa e nera con la cappotta sbrindellata e il motore dal fiato sempre più corto. D’estate come d’inverno, l’appuntamento era alle tre in punto in via Giovanni Pascoli,davanti all’Istituto delle Suore Discepole di Gesù Eucaristico. Chi arrivava in ritardo pagava pegno: caffè e stravecchi al bar di Esaù, il posto più fieramente equivoco di San Pietro, sordido ricovero per alienati di ogni sesso ed età. Il rito cominciava così, ogni pomeriggio, e andava avanti da quelli che Mimino avrebbe definito “I Tempi dello Sviluppo”, cioè più o meno da quando i tre avevano messo un po’ di pelo e i discorsi sul magnete che hanno le donne in mezzo alle gambe erano diventati profondi quanto quelli intorno ai superpoteri di Sócrates e Karl-Heinz Rummenigge. L’Americano – barba e capelli rossicci pettinati indietro, esangue e scavato dall’ero fino alle ossa - si chiamava Franco ed era del rione Crucicchia. Poche parole e contanti sull’unghia, custodiva le leccornie nelle tasche del suo giubbotto di jeans logoro, annerito da mille battaglie. A sentire il rude bramino Esaù, quello era un esemplare di tossico viaggiatore che aveva visto le strade di San Francisco e i giardini botanici di Calcutta, le montagne dell'Alto Atlante e i buchi del culo degli asini selvatici mongoli. «Mica come voi, che con quel rottame lì è tanto se arrivate a Mesagne.» L’Americano si portava dietro un tascabile ingiallito senza copertina. L’Americano diceva che quello era il suo libro preferito, scritto da un tizio che si chiamava Kilgore Trout. L’Americano aveva introdotto Mimino, Vito e Luciano alle meraviglie dello sciroppo per la tosse miscelato con acqua Sangemini e tre dita di Stravecchio Branca. Poi erano arrivati l’Olio Santissimo di Charas, il Libano Rosso, lo Sputnik del Marocco e altre ghiottonerie per giovani marmotte psiconaute. La prima volta con l’olio, Vito era entrato in contatto telepatico con Mister Volare che, dall’eremo sotto il sole africano di Lampedusa, gli aveva espresso il suo più cocente rammarico: perché la bonanima di Sid Vicious aveva omaggiato Sinatra e Modugno invece no? «Mister Volare» aveva farfugliato dopo una pausa stupita. «Cioè, non posso crederci... è stato un onore, cazzo... il più grande cantante della storia ha scelto me per mandare il suo messaggio al mondo!» La sera dopo, passata da un pezzo l’ora di cena, avevano parcheggiato la Charleston tra due cumuli di immondizia, in un vicoletto buio dietro il vecchio mercato coperto. «Accendino e cartine, please.» ordinò Mimino. «Prego, Monsieur. Desidera altro?» «La tua bocca a cuoricino su ‘sta fava, servo!» Indicando l’insegna malridotta della Macelleria Caraballo, Luciano se ne era uscito con la storia che proprio lì, prima che la famiglia di Nunzio Caraballo aprisse la sua bottega nel 1959, c’era stato un bordello rinomato in tutta la provincia: «Crocerossine, sapunare, lattare canaglie, vacche pezzate... tutta carnazza di prima scelta», aveva aggiunto con un ghigno. «All’epoca mio nonno si era fatto l’abbonamento.» «Tuo nonno andava a puttane?» «Regolare.» «E tua nonna che diceva?» «Vito, tu tieni il cervello lesionato, senti a me. Ti pare che quando rincasava mio nonno prendeva da parte la vecchia e si metteva a raccontarle le zompate che si era fatto?» «Ah, no?» «Le parlava della campagna e punto. Al massimo un culacchio scappato di bocca al cugino arciprete.» Mimino tirò una boccata avida dalla tromba, trattenne il fumo nei polmoni e scosse la testa. «Bella pezza il reverendo. Dice che ci aveva la femmina a Sandonaci, divorziata e comunista.» «Lu santu puercu!» Un rombo greve spense la chiacchierata. Luciano si era messo a trafficare con l’autoradio, in cerca di una stazione con un po’ di musica decente. Saltava da una frequenza all’altra, imprecando per tutta quella disco music da ricchioni alternata a folk tuturanese. Stornelli, quadriglie e canti di protesta in vernacolo lo mandavano in depressione. Il fumo più verde ed esageratamente onesto del cosmo invece si sposava bene con le canzoni dei Doors o di Santana. Al massimo con Hotel California degli Eagles, un grande pezzo su un fattone che vagava nel deserto e poi non si sa come si ritrovava a dormire a casa del diavolo. Onnedarkdesert-haiuei, cuul-uindinmaieir... «Fermo, Lucià... spegni un secondo.» «Che è?» «La fessa te mammata.», sibilò Mimino. A un cenno di Vito, che nel frattempo aveva puntato il naso contro il finestrino del passeggero, i due compari tacquero di colpo. Un riverbero blu elettrico invase l’abitacolo. In quell’istante il cielo tuonò ancora. Il botto fece sussultare la vettura. Sembrava il fragore di una marea crescente, il ruggito sguaiato di un mostro giapponese alto quanto un palazzo di dieci piani. Alto, grosso e con le palle girate. «Guardate là.» «Dove?» «In... cielo.» L’astronave si stagliava maestosa sopra le terrazze, quasi sfiorava le estremità delle antenne tv che a quell’ora diffondevano in molte case Colpo Grosso, con Umberto Smaila e le ragazze ananas, fragola, mandarino, limone, kiwi, ciliegia e mirtillo. Era enorme, la sua sagoma oscurava cielo e stelle. La fusoliera recava i segni di scontri interstellari all’ultimo raggio fotonico. Larghi bozzi erano la testimonianza di una mischia recente con uno scroscio di meteoriti a sud-est di Venere. Era smisurata. Sembrava fatta di porfido e acciaio. Un'astronave da film di fantascienza. Su San Pietro Vernotico. «Metti in moto, Mimino. Gira la chiave e squagliamoci.» supplicò Vito, occhi sbarrati e capelli dritti in testa. «Aspe’...» «Oh, sto parlando con te.» «Ma non mi cacare il cazzo!» Luciano pareva imbambolato, perso chissà dove. Davanti a loro si era alzata una bruma rossastra che sembrava fatta di puntini luminescenti. Bagliori irregolari piovevano dalla pancia dell’astronave e si riflettevano sulla tappezzeria della Charleston. Dalla foschia emerse una figura spettrale, avvolta in un mantello di raso color sorbetto al pistacchio squagliato. La videro alzare le braccia al cielo, i palmi giunti in atteggiamento di solenne preghiera, e bofonchiare qualcosa che non riuscirono a comprendere. L’Americano. Era lui, nessun dubbio in proposito. Mimino aprì lo sportello e mise un piede fuori. Piano, con cautela. Quello lì aveva un’aria da pazzo. «Franco, ma che suc... » «Chiamatemi l’Astronauta Errante.», disse l’uomo col mantello. «Ci hai una Marlboro?» Mimino scrollò la testa con decisione: «Mi spiace, finite.» «Vabbe’. Ma lasciate che vi dica una cosa, fratelli: Kilgore Trout aveva ragione.» «Eh?» «L'universo è grande, è forse il luogo più grande che ci sia. E ci sono pianeti dove noi non siamo mai andati.» «Fran... » «L’Errante. Io sono l’Astronauta Errante, tenetelo bene a mente.» L’Americano si voltò e, senza aggiungere altro, scomparve nella nebbiolina puntiforme. Quando il veicolo spaziale divenne una capocchia di spillo nel cielo circondata da lampi blu, fu la voce di Vito a ridestare gli altri due. «Em-mmiiin-chia, vagnù!» Aveva la faccia stravolta, e un ciuffo di capelli bianchi nuovo di zecca che gli pendeva sul naso a patata. Mimino si fece il segno della croce e rientrò in macchina mentre Luciano estraeva meccanicamente dalla tasca il nécessaire per un’ultima canna. «È tutto sbagliato», biascicò leccando la cartina. «Tutto profondamente sbagliato.» Un mese più tardi, anche i tre amigos partirono per non fare più ritorno al paese natìo. Scapparono insieme, direzione Haarlemmerstraat, Amsterdam. E, contro ogni sfavorevole pronostico di Esaù, la vecchia Charleston resse egregiamente per qualcosa come 2091.8 chilometri. NINO G. D'ATTIS Pagina "GrandiSorelle" #ninogdattis #grandisorelle #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
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- Ogni giorno quella vecchia passa da qui, si porta dietro il borsone colorato, una sediolina da regista tutta scassata e si ferma vicino alla riva Sara segue l’indice puntato di Marco, arrivando a inquadrare una donnina rattrappita, con un costume intero blu scuro e una cuffietta di gomma con i fiori d’altri tempi sul capo rinsecchito come il resto. - Non si dice vecchia, si dice anziana - Giovane non è, il concetto è lo stesso. E’ più di là che di qua e secondo me è pazza - Secondo me sei scemo - Vuoi una birra? Certo, la birra. Insieme a serata, Facebook, lampada, è una delle parole in uso del suo amico. Come Baby Mia e le sue poche frasi, così è Marco. I piedi immersi nella sabbia calda e soffice di Marina di Pulsano, Sara cerca di non pensarci, come sempre ormai. Le giornate si trascinano lente e uguali, ad aggiungersi solo qualche affanno, non c’è futuro nella sua testa, troppo nulla, troppa paura. Marco è uno degli amici di una vita, uno di quelli che frequenta quando la necessità di non pensare diventa più forte. Per lo stesso motivo quel pomeriggio è a mare, nella splendida spiaggia di Lido Silvana a blaterare con lui del niente e a guardare una vecchina strampalata. - Andiamo via? Ormai il sole non abbronza più, inutile restare - Già perché a mare si va per abbronzarsi - E certo! Dai andiamo così riusciamo a riposare prima di uscire stasera - Vai tu, io resto ancora un po’ - Ok nonna, ci sentiamo dopo Niente di meglio che gustarsi da sola quel tramonto, il sole rosso che affonda nel mare e lascia una scia dorata, lussuriosa, con le onde che finiscono a carezzare il bagnasciuga. Un martedì pomeriggio di settembre come tanti, la spiaggia si libera dei patiti dell’abbronzatura e restano lì una giovane donna e una vecchina. Sara non può fare a meno di guardare con curiosità quel culo floscio che si alza dalla sedia rossa strappata da un lato, a pericolo che si ammazza quella nonnetta dal capo fiorato. Con le gambette magre cammina a scatti verso la riva, bagna i piedi doloranti di un cammino che si trascina da anni e punta due occhi acquosi verso Sara - Ei tu, che vuoi? - Dice a me? - Si a te. Non vedo altri qui. E’ andato via quel coglione del tuo ragazzo? Sarò anche vecchia ma non sorda - Mi scusi signora, non...non è il mio ragazzo - Però è un coglione? - No, cioè sì, a volte... Ride Sara, ride la vecchia, che si avvicina alla borsa verde improbabile e prende una bottiglia di Lemonsoda. - Vuoi una limonata? - No grazie non si preoccupi - Ho i bicchieri puliti, quelli di plastica Si sente imbarazzata Sara, per levarsi di dosso la tristezza dice sì, si alza e va verso la vecchia, prende il bicchiere e brindano con una Lemonsoda - Piacere Florinda - Piacere Sara - Come la piccola principessa. Che ci fai qui tutta sola? - Niente. Guardo il mare - E ti sembra poco? Qui a Pulsano abbiamo le spiagge più belle del mondo. Che fai nella vita? - Aspetto - Cosa aspetti? - Che qualcosa arrivi... un lavoro vero, un amore vero, un figlio un giorno... una vita insomma - E lo aspetti qui tutta sola? - No. Lo aspetto in compagnia di buoni a nulla come il tipo di prima. La solitudine mi fa paura. Ma non aspetterò ancora tanto in questa città che non mi merita. Voglio partire - Dove vuoi andare? - Australia, Polonia... tutto è possibile, lontano da qui comunque - Povera sciocca – la vecchia posa il bicchiere e prende un quaderno logoro come tutto il resto dalla sua borsa. Ignora Sara e la sua rabbia che sale dopo un insulto caduto da quella che fino a qualche secondo prima le era sembrata una dolce nonnina. - Come si permette? - Mi permetto perché lo sei sciocca. Toh, guarda qua io vado a riposare questi poveri piedi nell’acqua. Povere orecchie mie, cosa mi tocca sentire Sara è scossa dai nervi, tra le mani il quaderno con la copertina blu consumata. Il vento lo apre e si ritrova davanti ad una ragazza con un sorriso impertinente, strizzata in un costume intero fiorato, con occhi chiari che la scrutano tra i quadretti del foglio. Il bianco e nero della foto mostra un mare da film d’altri tempi, bello da togliere il fiato. Sotto una didascalia “Marina di Pulsano/primo amore/bagliore”. Quella ragazza torna in un’altra immagine, dietro di lei una Chiesa “Chiesa Santa Maria La Nova/grotta di Lourdes/a Pulsano son stata miracolata”. Altra Chiesa, stessa protagonista, stessi abiti. “Chiesa della Confraternita del Purgatorio/venerdì santo/processione dei Misteri/mistero del mio amore”. Sara sposta lo sguardo sulle gambe vecchie ad ammollo e le riconosce nei tempi migliori delle foto di quell’assurdo quaderno. Un’altra Chiesa fedelmente bianca anche nei colori di allora, lei, la stessa, mostra l’anulare, forse c’è un anello, dettaglio che la tecnologia di un tempo non restituisce “Chiesa del Ss.mo Crocifisso/bianco/amore puro”. Sara chiude il quaderno, ha fretta di andare, via dai ricordi nostalgici che puzzano delle case dei nonni soli nelle giornate d’estate. - Dove vai? Non vuoi sapere come va a finire? La sua voce ad un tratto è dolce e infantile. - Non c’è un inizio, cosa deve finire? - Appunto – con un gesto frettoloso le indica di proseguire Pur di non tornare a casa con lo scrupolo della nonnetta Sara torna a sfogliare le pagine. La foto mostra solo la mano, l’anello nuziale in primo piano, da sfondo l´orologio da torre “Il nostro tempo”. La giovane ride in abito da sposa, dietro il castello “Castello De Falconibus/la favola/la principessa è stata trovata”. Torna la spiaggia, la ragazzetta dalle gambe tozze e secca ha la testa fasciata da un fazzoletto, dietro una torre “Torre Castelluccia/non servono difese se c’è amore/non servono difese se c’è mare”. L’ultima foto e Sara ha un tuffo al cuore “Molino Scoppetta/ti aspetto amore mio”. Racconta un tempo in cui quel posto viveva, nessun interesse culturale, solo gente che lavorava. - Adesso devo andare, si è fatto tardi - Aspetta. Hai capito? - Non saprei, cosa c’è da capire? Sara lo sente, Sara lo sa, Sara vuole solo non pensare. - Leggi questa – le indica una lettera ingiallita dal tempo “Caro amore mio, esiste un paradiso che non sia questo mare? La sabbia soffice, l’acqua cristallina, le tue labbra salate. In questo piccolo mondo mi perderei, in te mi sono persa. Per sempre tua, Florinda” - La storia è questa: ci siamo innamorati. Io non ho esitato un attimo a seguirlo qui a Pulsano (sai sono del Nord io), ci siamo sposati, amati, neanche un figlio questo stupido ventre sterile. Lui amava fotografarmi. Un giorno guardando quelle foto mi disse ‘sai Florì, fai risplendere Pulsano come se fosse la più bella’. Qualche anno d’amore ci concesse il Signore, poi lui andò a miglior vita. Io non ho mai pensato di andare via, anche se la mia famiglia fece pressioni per farmi tornare ‘che ci fai là tutta sola, neanche un figlio’. Io ormai ero innamorata. Ma tu che vuoi andar via, tu la vedi quanto è bella? Che la mia carne vecchia non si stacca da questo mondo per restare ancora un po’ qui a guardare l’immenso di questo mare”. Sara guarda quegli occhi acquosi, umidi di vitalità che lei sembra aver perso. Guarda il mare, la sua terra, ripercorre con gli occhi dell’amore le sue strade, nello stomaco si sente il fuoco. - Mi fai una foto con quell’aggeggio? Sara ormai non si chiede più perché, il suo iPhone con le orecchie da coniglio inquadra una vecchia in posa nel mare splendido e clic. - Tieni finiscilo tu questo - Ma no signora è suo, tenga - Finiscilo tu, io non ho più il tempo Sara torna a casa, il quaderno scotta, anche la fronte, ha la febbre. Il giorno dopo Marco la chiama per andare a mare, lei è nel letto e non ha voglia di rispondere. Un messaggio arriva sul telefono “Sai Sarè, la vecchia pazza è morta. L’hanno trovata sulla riva, piena di alghe e conchiglie, con una faccia da beota”. Sara si alza dal letto, va a stampare la foto di Florinda, non stampa dai tempi del rullino. Quella vecchia pazza è bella su quella carta lucida, intorno a lei un mare azzurro. Sara la attacca sul quaderno all’ultima pagina. “Pulsano 2014/Amore mio torno da te/Amore mio mai me ne andrò”. ALESSANDRA MACCHITELLA chegenerediblog.wordpress.com #alessandramacchitella #donnetralerighe #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
Rivedersi dopo oltre vent’anni con amici che non hai più cercato. Di giorno basterebbero pochi minuti per un saluto di circostanza, ma di notte è un’altra cosa. Di notte Bari può catturare e trasformarsi in un irreale cinema della memoria” G.Carofiglio Il campanello squillò, una, due volte. Viola guardò l’orologio sulla parete, le 23,30. Uscì sul terrazzino, l’aria era ancora umida di pioggia, mista all’aroma dei gelsomini che si arrampicavano al muro antico, pieno di crepe, dove avevano dimora le piante di capperi. -Fabio, che ci fai qui a quest’ora?- -Scendi, c’è uno scoop che ti prendi la prima pagina.- -Ma, piove, è tardi- protestò lei. -Muoviti, vuoi fare la giornalista? Ecco impara che le notizie non ti arrivano alle nove del mattino sulla scrivania.- Viola rientrò, prese una felpa che si buttò sulle spalle e scese. -Dai sali.- Fabio le allungò il casco. -Ma dove dobbiamo andare?- -Monopoli, Marco ha avuto una soffiata, stasera arriva un carico da mille e una notte.- -E tu con quello in testa te ne devi venire?- lo apostrofò Viola alludendo al cappello Panama che Fabio indossava. La città era stranamente vuota per colpa del temporale, la strada scivolava via veloce e l’asfalto liquido assorbiva le luci dei lampioni. Alla Vela giocavano a carte. Il grande teatro se ne stava nero e triste, come un eroe vinto. Il Dona Flor chiuso. Da tanto tempo. Restava l’aroma di un Alexander sulle labbra. Cacao al posto di noce moscata. Così li preparava Fabio. Perché a lei piaceva non troppo speziato. Sul lungomare Viola osservava il profilo di Bari distesa alle sue spalle, in quel bagliore argenteo, tra la cattedrale e il faro. Un cartellone pubblicizzava il programma estivo all’Arena dei Riciclotteri. Il mare era inchiostro nero, stranamente tranquillo, al di là dei frangiflutti. -Perché Marco non ci ha aspettati?- domandò lei, alzando la visiera del casco. -Perché Mal herba sta con quelli, fa l’infiltrato- rispose Fabio allungandole la Polaroid -Tieni questa- aggiunse. Viola chiuse un attimo gli occhi, nell’incoscienza dei loro vent’anni, di chi pensa che la vita sia un gioco, una partita a monopoli, un poker e che in qualche modo fossero capaci di giocare anche la morte. Gli anni delle telefonate dalle cabine pubbliche, quando non c’erano cellulari e macchinette digitali. Nella polverosa biblioteca di Santa Teresa dei Maschi scovarono quei bizzarri soprannomi, mesi prima, quando lei e Marco iniziarono a collaborare con un giornale locale. Marco era Mal herba, Fabio Mal Tempo e Viola Scarciofola. Le vie della città vecchia, il dedalo, un intricato labirinto che per non perderti dovevi esserci nato, e Fabio lì era cresciuto, tra il sagrato di San Nicola e il porto, tra le leggende che erano favole per far star buoni i piccoli, come l’isola di Monte Rosso o la “cape du turche”, finita sotto il balcone di una casa di Strada Quercia numero 10. La città vecchia, di gente semplice e forte, di donne che facevano le orecchiette, vicino al castello, sotto l’Arco Basso, e l’uomo del ghiaccio, che con il motore, la sera portava secchi congelati agli ambulanti abusivi che vendevano la Peroni sul lungomare e Finella che friggeva le sgagliozze e il sale brillava sulle fette di polenta fritta. La città vecchia di chiese e di santi, di Madonne agli angoli del cuore. E le sere d’inverno ai tavoli del Maltese si raccontavano storie, racconti, leggende. Come bugie di pescatori e sogni sul pentagramma, lenzuoli in sanscrito. La strada correva via veloce. Torre Incina. Zona Polignano-Monopoli. La torre se ne stava silenziosa al limitare della baia, arrivarono a piedi attraverso un campo di erbacce alte, in equilibrio precario tra la notte e le cicale. -Vedi?- bisbigliò Fabio indicando un punto impreciso nel buio. -Cosa?- -Ecco.- Una luce sulla spiaggia rispondeva a un codice, una luce flebile sul mare. Poi avvenne tutto velocemente, un motoscafo, le casse di sigarette di contrabbando e tante persone, mezzi blindati, come sul set di un film. Improvvise, venute dal nulla sirene spiegate, forze dell’ordine, qualche sparo. -Scatta, scatta- diceva concitato Fabio. -Andiamo, via, corri.- -E Mal herba?- -Corri, sa badare a se stesso.- La corsa nella notte con il cuore in gola, le stoppie che ferivano le gambe nude. Cadere e rialzarsi. Poi la corsa a ritroso. Rientrati in città fermi da Cesare. I ragazzi compravano i cornetti. Le due del mattino. -E Marco?- chiese ancora Viola. -Abbi fede- rispose Fabio. Seduti sui gradini della chiesa a scrivere l’articolo, tra briciole e zucchero sulle guance. Le tre. Il rumore di una motocicletta. -Mal herba- dissero in coro. Marco si tolse il casco era fradicio, si era buttato in mare nel caos generale. Si abbracciarono. -Ragazzi ma una sigaretta ora me la fumerei.- Scoppiarono a ridere, mentre portavano al giornale il loro scoop. Poi un passaggio ponte con un traghetto per la Grecia e urlare in faccia al mare che avevano vent’anni, e l’azzardo alla vita l’avevano fatto, corteggiando la morte. Vent’anni dopo, un cartellone pubblicitario annunciava il programma estivo all’Arena dei Riciclotteri, alla Vela si giocava ancora a carte, e al Maltese ci si raccontavano storie, racconti e leggende. Nella città vecchia il piano Urban aveva dato vita alla movida notturna, tra locali e pub, e i giovani scendevano dalla “town” di Poggiofranco per incontrarsi. Viola entrò nel locale rinato vicino al grande teatro. Anch’esso risorto. -Posso avere un Alexander con il cacao?- domandò a un cameriere. -Devo chiedere- l’uomo si allontanò e lo vide parlare con un altro uomo vicino al bancone, che alzò lo sguardo su di lei, scosse la testa e sorrise. Viola si avvicinò. -Mi hanno fatto una soffiata- disse abbracciando Fabio. -E, immagino quale giornalista sarà stato- rispose lui. Marco si avvicinò: -Avete da accendere?- Poi la notte se li portò via, seduti sui gradini di una chiesa, tra briciole e zucchero, la loro storia personale da raccontare di quella notte. Seduti alla Taverna del Maltese. Mai stanchi di ricordare. -Sapete dove vorrei andare?- disse Marco. -Alla Torre?- disse Fabio. Pochi minuti dopo erano sulla strada, l’aria entrava dai finestrini, un vento caldo che accarezzava la pelle di Viola. Mezz’ora sulla 16 bis. Restarono per un po’ seduti sulla spiaggia a guardare le onde. L’alba era ancora lontana. -Facciamo il bagno- disse Viola. Il tempo era un’equazione fatta tra la vita passata e quella futura. In equilibrio perfetto quell’attimo di presente. Vent’anni dopo. E alla radio una canzone ... Serenella coi soldi cravatte, vestiti, dei fiori e una vespa per correre insieme al mare. Al mare di questa città alle onde, agli spruzzi che escono fuori dalle nostre fontane. E se c'è un pò di vento, ti bagnerai, mentre aspetti me al nostro caffè. A. Minghi CRISTINA CARDONE www.lasignoradellapioggia.blogspot.com #cristinacardone #brichét #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
Quando arrivò a Galugnano Ahmed aveva solo dieci anni. Era partito dal Marocco, con la madre e il fratello maggiore Said, a bordo di una navicella che cadeva a pezzi. La sua è una storia come tante, una dura realtà di gente che s’è quasi ammazzata per approdare nel Bel Paese. Partire un bel giorno a cercare fortuna. Partire e forse non tornare mai più. Suo padre era morto poco più che adolescente, e da allora l’intero peso della famiglia gravava sulle spalle di sua madre Naima, una bambina pure lei. Ma Naima era morta in mare, insieme a tanti altri sventurati, quel maledetto giorno in cui s’imbarcarono. Così Ahmed e Said erano rimasti soli, i parenti tutti lontanissimi, gli amici poco più che un ricordo. La prima volta che c’incontrammo, io mi presentai con tono ufficiale, come fossi un ambasciatore: «Piacere, il mio nome è Mario Lazzi», tanto che Luigi, mio cognato, uno molto giovanile, mi prese in giro: «Ma chi minchia è che parla così! Non stai alla televisione». I due ragazzini mi guardarono fiduciosi. Said serio serio. Ahmed mi sorrise. La prima cosa che Ahmed vide, prima che all’orizzonte gli si parasse il mio paesucolo, fu la minuscola murgia galugnanese, che qui chiamiamo Li Caggiuni. Brullo e pallido, il piccolo rilievo apparve brulicante di vita a quel bambino venuto dal deserto. Me lo confidò Said in una delle sue rare concessioni alla chiacchiera. Sì, per Said il solo riferire qualcosa all’insaputa del fratello, fosse anche un’innocua bazzecola, era quantomeno inopportuno. Adesso Ahmed ha venticinque anni, e Li Caggiuni sono la sua seconda casa. Ahmed di mestiere fa il venditore ambulante di vestiti. Insieme a Said si sveglia all’alba per caricare il furgoncino e partire poco prima delle sei. Delle volte mi capita di passare a piedi davanti a casa loro, e allora sento i due fratelli intonare cantilene che a me paiono preghiere. Hanno voci profonde e suadenti, che mi portano alla mente certe litanie di stampo ferrettiano. Altre volte trovo Ahmed sulla porta. Mi fa segno e mi dice: «Ciao amico, come sta oggi il cuore?». Già, mi domando io, come sta oggi il mio cuore? Me la cavo con un «Tutto a posto», e lui mi sorride. Mi viene da pensare se sia poi così ingenuo da non capire che la mia è solo una frase di circostanza. Ma di tempo per scervellarmi con queste pippe mentali non ne ho. Qui siamo sempre di corsa, ché bisogna portare a casa la pagnotta. Anch’io faccio l’ambulante, però non vendo vestiti come Ahmed. Io c’ho un alimentari. Vendo salami, mortadelle, olive, sarde, cose così. Sistemo la mia bancarella al centro di Piazza Vittorio Emanuele ogni santo mercoledì. Il mercoledì è il giorno che tocca al mio paese, ché non sto nel basso Salento. Giorno ricco, si fa per dire. Ahmed e Said piazzano la loro bancarella di fianco alla mia. Said è sempre serio, Ahmed mi sorride. Devo essere sincero: più di una volta avrei voluto dirgli “Che cazzo c’hai da ridere!”, ma mi sono trattenuto. Non per educazione, no. Avevo capito – anche se non volevo accettarlo– che lui era felice così, con quel pochissimo che aveva. Allora guardavo in basso. Miravo al basolato, che nel punto dove mi piazzavo io con la mia baracca si trasformava in un bel gallo. Lo stemma di Galugnano. E proprio il gallo fissavo, un po’ stranito. Io non ero felice con quel poco che avevo. Io volevo di più. Mi sembrava una cosa giusta volere di più. Una cosa per la quale il fior fiore dei comunisti di mezzo mondo s’era spaccato il culo. Ma adesso è tutta un’altra cosa. Adesso non va bene un cazzo di niente. Tutti a volere tutto per loro stessi, altro che Comunismo. Io per primo. Lo confesso. E confesso che almeno una volta ho pensato – sì una merda di volta l’ho pensato – che Ahmed e Said m’avessero rubato la piazza. Che idea stronza! Loro vendono vestiti e io salami. Due cose che non c’entrano una mazza. Eppure l’ho pensato. E me ne vergogno. Dopo quella volta, però, non l’ho più pensata una cosa tanto fiacca e leghista. Ahmed e Said sono diventati amici miei. Ma amici amici, non tanto per dire. Ahmed l’ho perfino portato avanti nella lista civica “Noi per voi”. Lista che pendeva a sinistra, ovviamente. E qualche voto l’ha pure preso, ché a Galugnano sta simpatico a molti. Nonostante i soliti facinorosi. E nonostante suo fratello ripetesse a manetta di voler costruire una moschea di fianco alla chiesa dell’Annunziata. «Quisti su’ pacci» commentò Angiolino, fruttivendolo. Pure lui ambulante. Non poteva concepire, nemmeno col pensiero, che all’Annunziata si accostasse una qualsiasi altra costruzione. «Era meju fazzanu le strade» sbottò Tommaso, il meccanico, indicando una ad una le buche sull’asfalto. Ma poi la storia di Ahmed assessore si risolse nel nulla, e buonanotte ai suonatori. La vita di Ahmed è divisa tra la piazza, Li Caggiuni e la Scaliddhra, una discesa dalla pendenza pazzesca in direzione della vecchia strada per Caprarica. Quando non caccia fuori la bancarella coi vestiti, Ahmed fa il bracciante a ore. Sempre al lavoro. Sempre. Almeno io, per mangiare, faccio una cosa sola. E quando smonto tutto e torno dal lavoro, a casa ci sto al massimo un’ora. Vado al bar e mi bevo un paio di bicchierini. Almeno questo. Sennò uno che campa a fare! Verso le cinque del pomeriggio Ahmed è di ritorno dalla Scaliddhra. A quell’ora io sono al bar. Lui mi vede da lontano e mi fa un cenno con la mano, sempre sorridente. Poi urla per tre volte al mio indirizzo «Mario, Mario, Mario», quasi cantando. Ecco, penso, il sorriso di Ahmed vale tutta una vitaccia. E vale tutto un paese. GIANLUCA CONTE glucaconte.blogspot.it #gianlucaconte #caniacerbi #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
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