![]() Si stonavano col fumo dell’Americano, dentro una Charleston rossa e nera con la cappotta sbrindellata e il motore dal fiato sempre più corto. D’estate come d’inverno, l’appuntamento era alle tre in punto in via Giovanni Pascoli,davanti all’Istituto delle Suore Discepole di Gesù Eucaristico. Chi arrivava in ritardo pagava pegno: caffè e stravecchi al bar di Esaù, il posto più fieramente equivoco di San Pietro, sordido ricovero per alienati di ogni sesso ed età. Il rito cominciava così, ogni pomeriggio, e andava avanti da quelli che Mimino avrebbe definito “I Tempi dello Sviluppo”, cioè più o meno da quando i tre avevano messo un po’ di pelo e i discorsi sul magnete che hanno le donne in mezzo alle gambe erano diventati profondi quanto quelli intorno ai superpoteri di Sócrates e Karl-Heinz Rummenigge. L’Americano – barba e capelli rossicci pettinati indietro, esangue e scavato dall’ero fino alle ossa - si chiamava Franco ed era del rione Crucicchia. Poche parole e contanti sull’unghia, custodiva le leccornie nelle tasche del suo giubbotto di jeans logoro, annerito da mille battaglie. A sentire il rude bramino Esaù, quello era un esemplare di tossico viaggiatore che aveva visto le strade di San Francisco e i giardini botanici di Calcutta, le montagne dell'Alto Atlante e i buchi del culo degli asini selvatici mongoli. «Mica come voi, che con quel rottame lì è tanto se arrivate a Mesagne.» L’Americano si portava dietro un tascabile ingiallito senza copertina. L’Americano diceva che quello era il suo libro preferito, scritto da un tizio che si chiamava Kilgore Trout. L’Americano aveva introdotto Mimino, Vito e Luciano alle meraviglie dello sciroppo per la tosse miscelato con acqua Sangemini e tre dita di Stravecchio Branca. Poi erano arrivati l’Olio Santissimo di Charas, il Libano Rosso, lo Sputnik del Marocco e altre ghiottonerie per giovani marmotte psiconaute. La prima volta con l’olio, Vito era entrato in contatto telepatico con Mister Volare che, dall’eremo sotto il sole africano di Lampedusa, gli aveva espresso il suo più cocente rammarico: perché la bonanima di Sid Vicious aveva omaggiato Sinatra e Modugno invece no? «Mister Volare» aveva farfugliato dopo una pausa stupita. «Cioè, non posso crederci... è stato un onore, cazzo... il più grande cantante della storia ha scelto me per mandare il suo messaggio al mondo!» La sera dopo, passata da un pezzo l’ora di cena, avevano parcheggiato la Charleston tra due cumuli di immondizia, in un vicoletto buio dietro il vecchio mercato coperto. «Accendino e cartine, please.» ordinò Mimino. «Prego, Monsieur. Desidera altro?» «La tua bocca a cuoricino su ‘sta fava, servo!» Indicando l’insegna malridotta della Macelleria Caraballo, Luciano se ne era uscito con la storia che proprio lì, prima che la famiglia di Nunzio Caraballo aprisse la sua bottega nel 1959, c’era stato un bordello rinomato in tutta la provincia: «Crocerossine, sapunare, lattare canaglie, vacche pezzate... tutta carnazza di prima scelta», aveva aggiunto con un ghigno. «All’epoca mio nonno si era fatto l’abbonamento.» «Tuo nonno andava a puttane?» «Regolare.» «E tua nonna che diceva?» «Vito, tu tieni il cervello lesionato, senti a me. Ti pare che quando rincasava mio nonno prendeva da parte la vecchia e si metteva a raccontarle le zompate che si era fatto?» «Ah, no?» «Le parlava della campagna e punto. Al massimo un culacchio scappato di bocca al cugino arciprete.» Mimino tirò una boccata avida dalla tromba, trattenne il fumo nei polmoni e scosse la testa. «Bella pezza il reverendo. Dice che ci aveva la femmina a Sandonaci, divorziata e comunista.» «Lu santu puercu!» Un rombo greve spense la chiacchierata. Luciano si era messo a trafficare con l’autoradio, in cerca di una stazione con un po’ di musica decente. Saltava da una frequenza all’altra, imprecando per tutta quella disco music da ricchioni alternata a folk tuturanese. Stornelli, quadriglie e canti di protesta in vernacolo lo mandavano in depressione. Il fumo più verde ed esageratamente onesto del cosmo invece si sposava bene con le canzoni dei Doors o di Santana. Al massimo con Hotel California degli Eagles, un grande pezzo su un fattone che vagava nel deserto e poi non si sa come si ritrovava a dormire a casa del diavolo. Onnedarkdesert-haiuei, cuul-uindinmaieir... «Fermo, Lucià... spegni un secondo.» «Che è?» «La fessa te mammata.», sibilò Mimino. A un cenno di Vito, che nel frattempo aveva puntato il naso contro il finestrino del passeggero, i due compari tacquero di colpo. Un riverbero blu elettrico invase l’abitacolo. In quell’istante il cielo tuonò ancora. Il botto fece sussultare la vettura. Sembrava il fragore di una marea crescente, il ruggito sguaiato di un mostro giapponese alto quanto un palazzo di dieci piani. Alto, grosso e con le palle girate. «Guardate là.» «Dove?» «In... cielo.» L’astronave si stagliava maestosa sopra le terrazze, quasi sfiorava le estremità delle antenne tv che a quell’ora diffondevano in molte case Colpo Grosso, con Umberto Smaila e le ragazze ananas, fragola, mandarino, limone, kiwi, ciliegia e mirtillo. Era enorme, la sua sagoma oscurava cielo e stelle. La fusoliera recava i segni di scontri interstellari all’ultimo raggio fotonico. Larghi bozzi erano la testimonianza di una mischia recente con uno scroscio di meteoriti a sud-est di Venere. Era smisurata. Sembrava fatta di porfido e acciaio. Un'astronave da film di fantascienza. Su San Pietro Vernotico. «Metti in moto, Mimino. Gira la chiave e squagliamoci.» supplicò Vito, occhi sbarrati e capelli dritti in testa. «Aspe’...» «Oh, sto parlando con te.» «Ma non mi cacare il cazzo!» Luciano pareva imbambolato, perso chissà dove. Davanti a loro si era alzata una bruma rossastra che sembrava fatta di puntini luminescenti. Bagliori irregolari piovevano dalla pancia dell’astronave e si riflettevano sulla tappezzeria della Charleston. Dalla foschia emerse una figura spettrale, avvolta in un mantello di raso color sorbetto al pistacchio squagliato. La videro alzare le braccia al cielo, i palmi giunti in atteggiamento di solenne preghiera, e bofonchiare qualcosa che non riuscirono a comprendere. L’Americano. Era lui, nessun dubbio in proposito. Mimino aprì lo sportello e mise un piede fuori. Piano, con cautela. Quello lì aveva un’aria da pazzo. «Franco, ma che suc... » «Chiamatemi l’Astronauta Errante.», disse l’uomo col mantello. «Ci hai una Marlboro?» Mimino scrollò la testa con decisione: «Mi spiace, finite.» «Vabbe’. Ma lasciate che vi dica una cosa, fratelli: Kilgore Trout aveva ragione.» «Eh?» «L'universo è grande, è forse il luogo più grande che ci sia. E ci sono pianeti dove noi non siamo mai andati.» «Fran... » «L’Errante. Io sono l’Astronauta Errante, tenetelo bene a mente.» L’Americano si voltò e, senza aggiungere altro, scomparve nella nebbiolina puntiforme. Quando il veicolo spaziale divenne una capocchia di spillo nel cielo circondata da lampi blu, fu la voce di Vito a ridestare gli altri due. «Em-mmiiin-chia, vagnù!» Aveva la faccia stravolta, e un ciuffo di capelli bianchi nuovo di zecca che gli pendeva sul naso a patata. Mimino si fece il segno della croce e rientrò in macchina mentre Luciano estraeva meccanicamente dalla tasca il nécessaire per un’ultima canna. «È tutto sbagliato», biascicò leccando la cartina. «Tutto profondamente sbagliato.» Un mese più tardi, anche i tre amigos partirono per non fare più ritorno al paese natìo. Scapparono insieme, direzione Haarlemmerstraat, Amsterdam. E, contro ogni sfavorevole pronostico di Esaù, la vecchia Charleston resse egregiamente per qualcosa come 2091.8 chilometri. ![]() NINO G. D'ATTIS Pagina "GrandiSorelle" #ninogdattis #grandisorelle #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
3 Comments
7/27/2014 11:14:22 pm
incredibilmente avvincente...si respira tutta l'atmosfera anni 80
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pietro frenta
7/28/2014 03:28:24 am
Rapido, fulmineo. Lascia il segno. Roba buona, certo, roba buona, anzi, ottima!
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Lucia
4/13/2015 06:59:34 pm
The crystal ship
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