Non mi è mai piaciuto il mare. Quella massa violenta e cupa. Quel vetro azzurro che nasconde abissi muti, insidie pennellate di colori arditi. Perché sono nato in un luogo dove i monti ti abbracciano con il loro manto caldo e ti cullano intonando una nenia di foglie e di rami. Sono nato in un rudere incastonato fra rocce e muschio odoroso di fresco. E dall’unica finestra, ogni mattina, vedevo affacciarsi un sole timido sulla cresta scura. Quella luce polverosa e pallida sapeva scaldare il mio cuore solitario. Il profumo del latte di capra, appena munto, nella scodella sul tavolo era il mirëdita, il “buon dì”, che il mio babagjysh, mio nonno, dedicava a me ogni nuovo giorno. Babagjysh! Babagjysh è una parola che giunge dall’esterno e ti entra dentro saltellando leggera sulle labbra. Poi la lingua si arrotola, la cattura, e la ingoia per condurla al cuore. Ba-ba-giysh. A quel tempo io e il mio babagjysh eravamo una famiglia sulla Malissia in Albania. Sì, in Shqipëria, così sia chiama la mia terra d’origine e significa “Paese delle aquile”. Ne ho viste tante di aquile sulle mie montagne e ogni volta mi domandavo com’era vedere il mondo da lassù, con gli occhi acuti delle aquile. Chissà come si vede la mia piccola casa arroccata sul costone della collina - mi domandavo. Quella casupola fatta di pietre grigie e di legno di rovere scavata nelle rocce maculate. Quell’unico locale con due lettini, un tavolo e il camino quasi sempre acceso, doveva apparire alle aquile come un piccolo nido a loro familiare, e noi due come due uccelli spauriti. Addossata, sul fianco destro della casa, c’era la stalla. Un piccolo capanno improvvisato realizzato dal mio babagjysh con vecchie assi di legno. Lì dentro si rifugiavano quattro capre e due galline: l’unica ricchezza di babagjysh. Lui mi diceva sempre – Se vuoi vivere bene, devi far vivere bene le capre. Va’, portale a spasso! – e io eseguivo. Portavo al pascolo le capre tutti i giorni. Percorrevo un sentiero accidentato per giungere ad una piccola radura attraversata da un torrente impetuoso. Mi sedevo su una pietra sull’argine del fiume e ascoltavo la voce prepotente delle acque. Consumavo il mio solito pasto, pane e formaggio, e aspettavo che il sole tramontasse prima di tornare a casa insieme al mio cane, che chiamavo qeni, cane, perché quando c’è povertà non si sprecano neanche le parole. Quando la luce colorava di azzurro il profilo dei monti, tornavo a casa e lungo la via vedevo il fumo del camino disegnare volute nivee nel cielo bruno e sentivo il profumo della minzetra uligne me bath, la frittata con fave secche e olive che il mio babagjysh preparava. Quell’effluvio, unito all’odore intenso di legna bruciata e di stallatico, marcava la nostra dimora, ed io l’avrei riconosciuta fra mille. Non so che mestiere facesse il mio babagjysh e se ha mai praticato un mestiere. E non so con quali mezzi vivessimo allora e se per vivere a quel modo servissero dei soldi. So solo che di tanto in tanto babagjysh scendeva al villaggio, a piedi con il suo bastone attraversando prima il bosco e poi la lunga e tortuosa mulattiera, per aiutare Donjet e la sua famiglia a impastare il pane o a uccidere il maiale. Per questo motivo in casa nostra non mancava il pane e il fërgesë, un piatto composto da carne macinata di maiale fritta e servita con formaggio e aglio, nei giorni di festa, i quali erano uguali agli altri giorni tranne il fatto che babagjysh diceva che era festa e che la nostra pietanza subiva variazioni. La mia gjyshe, mia nonna, era morta, prima che io nascessi, di una morte sconosciuta, e babagjysh era rimasto solo con la sua unica figlia: Serina, la mia nënë, mia madre. Serina, aveva sposato un uomo che babagjysh definiva una “testa calda” perché era un sovversivo contro il regime comunista di Enver Hoxha e con mia madre non aveva mai vissuto, ad accezione di quel frammento di tempo utile a concepirmi. Poi chissà dove lo portarono le sue idee di libertà. C’era chi diceva che era prigioniero ... o che era morto ... o che era combattente nella ex Jugoslavia ... Certo è che nënë aveva paura della dittatura, temeva ripercussioni e un giorno decise di partire anche lei. Mi schioccò un bacio sulla fronte dicendomi - Paç fat ! - Buona fortuna! Il giorno in cui mia madre mi abbandonò sparirono altre due persone del villaggio. Tutti, si vociferava, fuggiti in Italia. L’Italia, come l’America, dispensatrice di sogni. Alcuni anni dopo Donjet salì su per la montagna per consegnarci una lettera proveniente proprio dal “Bel Paese”: era di mia madre. Babagjysh leggeva che la mia nënë lavorava come cameriera in un locale di Brindisi, una calda città affacciata su un mare cobalto proprio di fronte alla nostra “Terra delle aquile”. Leggeva che nelle giornate luminose la mia nënë si recava sulla riva per vedere all’orizzonte l’Albania. Leggeva che la mia nënë riusciva a scorgere il contorno delle vette della Malissia e che, a volte, riusciva perfino a discernere la nostra casa posata sui rupi. Leggeva che in quei giorni la mia nënë mi salutava con la mano e mi inviava baci trainati dal vento. Non so se quelle parole fossero davvero impresse sulla carta di quella missiva. Non so se quella lettera provenisse davvero dall’Italia e non so nemmeno se babagjysh conoscesse i misteri della lettura. So solo che da quel giorno, con il sole con la pioggia con la neve e con il maestrale, mi arrampicavo sui colli, sulle pietre più impervie e aguzze, per urlare a mia madre - Mirëmëngjes nënë! -Buongiorno madre! Una mattina babagjysh mi disse: - Oggi diventerai uomo. Avevo otto anni il giorno in cui babagjysh decise di separarsi da me. Ci incamminammo giù per il sentiero verso il villaggio e mentre scendevamo io percepivo il pericolo incombente, come i gatti prima di essere abbandonati. Babagjysh devo portare le capre al pascolo! Se non escono non fanno il latte! – dicevo, ma babagjysh non dava voce ai suoi pensieri e non dava risposta alle mie parole. A casa di Donjet c’era un giovane proveniente da un altro villaggio, diretto in Italia, proprio a Brindisi, quella misteriosa città che nascondeva mia madre dalla paura e dalla povertà. E la nascondeva anche a me. Il ragazzo aveva il compito di portarmi con lui in quel viaggio di fortuna, e aveva il compito di fare di me un uomo coraggioso. Ma io non ero ancora un uomo. E non ero coraggioso. Io avrei dovuto essere felice, avrei rivisto la mia nënë e invece piangevo di un pianto inconsolabile, tanto che babagjysh fu costretto a prendermi a schiaffi. Budella! Budella! Stupido! Stupido! – gridava – Vuoi fare la mia fine? In un Paese senza libertà non ci può essere ricchezza e in un Paese senza cultura non ci può essere futuro. Va’, e non ti voltare indietro. Questo posto non merita rimpianti e non pensare a me che sono vecchio. Pensa a te e ricordati Zoti vonon por nuk harron! Dio tarda ma non dimentica! Era la prima volta che babagjysh pronunciava il nome di Dio. Non era mai entrata la preghiera in casa nostra perché prima, quando c’era il regime, era vietato pregare, poi la gente si era dimenticata di farlo e aveva lasciato i Santi fuori dalla porta di casa. Camminammo per giorni, io e Mikan, attraversando tutta l’Albania da nord a sud a piedi o con qualche passaggio di fortuna su furgoni iperaffollati. Conobbi mondi a me estranei. Vidi miseria, disperazione, fame, dolore, fucili, polizia, morti, mutilati, ladri, donne, vecchi, bambini. Dormimmo di giorno nascosti in bunker abbandonati e pieni di escrementi di ogni genere e viaggiammo di notte seguendo rotaie infinite. A quel tempo non c’era dittatura ma era comunque vietato lasciare il Paese. Poi, lo vidi. Eravamo appena scesi da un camion e ci eravamo nascosti dietro un casolare disabitato ad aspettare. Prima ne sentii l’odore forte che mi bruciava le narici, sembrava il piscio di un animale di grossa taglia. Poi, quando una luce in lontananza iniziò ad accendersi e a spegnersi ad intermittenza, Mikan mi afferrò per la maglia e mi trascinò fra rovi proprio di fronte a lui. Era immenso, cupo, e tossiva con una voce roca da far paura. Cos’è? – domandai. -Budella, è il mare! In quel momento dai cespugli uscirono centinaia di ombre, corpi bui che si spingevano e scontravano imprecando. Salimmo tutti su una barca che ci portò al largo dove braccia e mani ci afferrarono per accoglierci su un grosso peschereccio sgangherato. Mi voltai verso la spiaggia e con lo sguardo abbracciai la mia Shqipëria perché sentivo che da quel viaggio non avrei più fatto ritorno. Non avrei più rivisto il ventre gonfio e rugoso delle mie montagne e non avrei più sentito il fiato fresco dei boschi soffiarmi sulla ciglia come faceva il mio babagjysh quando piangevo: fffffff... All’alba una terra dal ventre piatto mi attendeva. La bianca città ridente di sole mi avrebbe offerto il suo seno per farmi rinascere una seconda volta. Forse. O forse, mi attendeva, la culla perenne degli abissi muti del mare. (Nel 1991 iniziarono i primi sbarchi di albanesi sulle coste pugliesi e da quella data per oltre tre anni la Puglia fu terra di speranza, di pace, di libertà e di fratellanza. Una moltitudine di giovani volontari accolse per un lungo periodo i fratelli albanesi portando loro cibo, abiti e un caloroso benvenuto). ANTONELLA CAPRIO PaginaFB #antonellacaprio #noncècuore #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
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La terra rossa e le foglie di ulivo verdi. Fin da bambino giocavo con la scatola dei colori e usavo l’amaranto per disegnare la terra, poi lasciavo una sospensione bianca e quindi in alto sul foglio usavo il celeste per colorare il cielo. Ma terra e cielo si toccano, mi faceva notare la maestra dell’asilo, un luogo in cui misi piede per errore solo una manciata di giorni. No, in mezzo ci sono gli alberi e la campagna, rispondevo. E c’è anche il mare, mi affrettavo a aggiungere. Certo, ribatteva lei, però tu non li hai disegnati. Non c’è spazio sul foglio, chiudevo la discussione e restavo a fissare l’amaranto. E poi la terra non è così rossa, insisteva la maestra mentre mi allungava un marrone spento. Amaranto, la correggevo io che avevo imparato quel colore da mia nonna. Ancora oggi quando percorro la provinciale 9 che scende da Cisternino fino a incrociare la vecchia statale 16 ho un sussulto: vorrei chiamare la maestra d’asilo e mostrarle che la terra non è marrone, non ha quel colore smorto tipico dell’argilla, che tende a ingrigire come il passare del tempo. No, è di sicuro amaranto, o rossa? Non sono mai stato capace di scegliere Pantone o Rgb corretti o di definire con precisione colori e sfumature cromatiche. Per esempio alla parola “indaco” di solito ho un capogiro, poi penso che azzurro andrebbe benissimo e mi riprendo. Eppure la terra che mi circonda mentre scendo in macchina verso il mare è amaranto, o perlomeno a me piace definirla tale: terra amaranto. Il verde di quegli ulivi che si aggrovigliano imponenti su quelle campagne danno una combinazione di colori che persino Gucci impallidisce. Quando splende il sole il riverbero e l’intensità della luce sul parabrezza tendono a accecare, e servono occhiali e parasole. Arrivo alla curva che immette sulla vecchia statale 16, lascio a destra il bivio per Speziale e giro a sinistra. Percorro immerso nell’amaranto un breve tratto di statale, poi prendo la provinciale 7 e attraverso Pozzo Guacito o Faceto o come lo si vuole chiamare. Quattro case sui lati della strada, un benzinaio e poi la chiesa della Madonna di Pozzo Guacito o Faceto. Quella chiesa la chiamo da sempre “la messicana”, o se si preferisce la “californiana” – è uno spiazzo perfetto per girare un vecchio spaghetti western, il sole a picco a mezzogiorno, il bianco che domina la scena, la campana a vista, il nulla intorno. Poi tornano gli ulivi, e la terra. Abbasso il finestrino dell’auto perché il sole ha riscaldato troppo l’abitacolo e non ho voglia di accendere l’aria condizionata. Su questa strada che andrà a incrociare la via Appia antica, che costeggia il mare, ho ambientato il mio primo romanzo, esordio di terra di origine. E oggi ripasso da questa strada dove Francesco cercava disperato Giulia. Avevo costretto Francesco su questa strada, in pieno maggio, lo avevo fatto scendere fino al mare, a cercare la sua donna sparita nel nulla fra la Taverna di Santos appena fuori Torre Canne e la Forcatella. E oggi percorro io ancora quella strada, fra la terra amaranto, gli ulivi imponenti, attorcigliati come Pier delle Vigne, e il blu intenso del mare (o si deve dire indaco?), quell’Adriatico porta di Levante, la mia costa orientale. Forse sarà per questo, sarà colpa dell’Oriente, del sole che da qui sorge che la terra si è macchiata rossa. FERNANDO CORATELLI "La resa" PaginaFB #fernandocoratelli #laresa #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
Non sappiamo mai quali sono i giorni cruciali della nostra vita, quelli che cambieranno per sempre il corso degli eventi: per fortuna o purtroppo, è sempre così. Caterina camminava per Martina Franca, da sola, gli occhi levati al cielo e la sua Reflex nella mano destra. Era salita sul primo treno in partenza, spinta dalla volontà di lasciarsi tutto alle spalle almeno per un giorno ed in quel momento Piazza Plebiscito era l’unico posto al mondo in cui ebbe la sensazione di sentirsi accolta e protetta. Voleva trovare qualcosa da ricordare, da portare con sé e custodire con cura: qualcuno, un giorno, le aveva detto che il bene più prezioso che possediamo è noi stessi e Caterina sapeva che quel “qualcuno” le voleva bene. Passeggiava per i vicoli del centro storico di Martina Franca e il silenzio di quelle strade la rapì: il mondo parve essersi fermato tra i suoni e gli odori di quella vita semplice, cristallizzato nei sorrisi dei bambini e nei bonari rimproveri delle loro mamme, nei balconi fioriti e nelle case imbiancate a calce. Aveva da poco superato il più vecchio bar della città, catturata dal bacio passionale di due giovani amanti e fece attenzione a non indugiare troppo con lo sguardo. I baci sono così complicati: a volte sono promesse, altre volte sono addii. Si dovrebbe essere sempre pronti a partire, per risparmiare le presentazioni e non rischiare di perdere il lieto fine: questo, almeno, era ciò che pensava in quel momento. Immortalò i due giovani ragazzi con la sua Reflex e proseguì verso la Basilica di San Martino: altri due scatti, altri due momenti rubati al Tempo e al Domani. Lui era in piedi, la suola della scarpa destra aderente al muro, un buffo cappello di lana grigio e la sua Marlboro stretta tra l’indice e il medio della mano sinistra. Caterina sfuggì il suo sguardo, lui trattenne a stento un sorriso abbozzato. “In vacanza a Martina Franca?” “Sì” Il ragazzo annuì, si morse il labbro inferiore e si fermò ad ammirare la Basilica. “Abbiamo tante chiese meravigliose: la Chiesa del Carmine, la Chiesa di San Francesco ... ma questa è la mia preferita!” Caterina annuì e pensò che un altro scatto potesse servire a mitigare l’imbarazzo. “Sai, la gente che viene qui non sa mai a quale provincia apparteniamo. Alcuni dicono Brindisi, perché sanno che Cisternino è a due passi, ma la carne qui è molto più buona, te lo assicuro. Altri, per via dell’accento o del prefisso telefonico, ci scambiano per baresi. A volte qualcuno ci considera persino salentini e la cosa non mi dispiace affatto, adoro quella terra” "Siete un incidente geografico” commentò Caterina, senza guardarlo “Già, lo penso anche io. Ma ti assicuro che ovunque tu vada, troverai sempre qualcuno che è passato da qui. Magari per un caffè laggiù al bar Tripoli, forse per uno spiedino di bombette impanate, magari semplicemente per una passeggiata sul Corso ... lo chiamiamo “Lo Stradone”, lo sapevi?” “No” “Non preoccuparti. Sapessi quante cose io non so ancora di questa città ... vorrei scappare” “Perché non lo fai? Non avrai più di venticinque anni” “Perché poi ritornerei. Succederà anche a te” Caterina sorrise e realizzò che aveva ripreso la sua camminata da qualche secondo; il giovane era al suo fianco, una presenza che all’inizio le aveva trasmesso inquietudine ma che adesso iniziava ad apprezzare. Quel ragazzo sapeva di Casa. Nessuno è felice da solo, lo aveva capito nel corso degli anni. “Vivi qui?” “Sì. Sono cresciuto fuori città, ma poi mi sono trasferito nel centro urbano. Meglio così, le campagne martinesi sono infestate dai Lauri, non lo sapevi? E poi, non c’è mai un parcheggio. Sono sempre tutti in macchina, corrono da una parte all’altra senza una meta” “Più una persona va di fretta, più non ha alcun posto dove andare” “Dici sul serio?” “Certo. Chi passeggia lentamente, come te, lo fa perché è sereno. Ha un posto dove andare. Ha qualcuno che lo aspetta a casa ... o perlomeno, in un luogo che può definire così” Il ragazzo sorrise e tacque. “Dove vanno tutti quelli che non sono in macchina?” domandò Caterina Il ragazzo si strinse nelle spalle, gettò la sigaretta ed infilò le mani in tasca “Molti adorano correre” rispose infine, guardando davanti a sé la Porta di Santo Stefano. “Ho letto da qualche parte che spesso la gente ama correre per colmare un vuoto nel petto, la sensazione di aver perso qualcosa ... o qualcuno” “Può darsi. Qui solitamente lo fanno in zona Pergolo, dove ci sono le scuole, i Residence e i centri commerciali; le macchine sfrecciano ad una velocità così elevata che spesso chi rischia di perdere qualcuno sono i familiari dei corridori” “Ognuno fa ciò che ritiene opportuno per cercare di essere felice” “Già” Caterina si fermò accanto alla fontana in Piazza Roma e cercò una monetina nella pochette. Tutti hanno sempre un desiderio da esprimere. Il suo accompagnatore salutò distrattamente qualche giovane diretto alla biblioteca comunale, guardò l’orologio sul display del suo Iphone e si chiese quanto potesse risultare invadente proporre un caffè a quella misteriosa sconosciuta. Lei non si curò di lui e proseguì con le sue fotografie. Oltrepassarono l’Arco e Caterina si fermò proprio al centro della piazza. Fotografò i quattro angoli e non fece caso alle prime gocce di pioggia; il giovane accanto a lei fissò il cielo terso e rifletté sulle parole giuste da usare. Proprio quando ritenne di aver selezionato con cura gli estremi della sua proposta, Caterina gli scattò una foto. “Ehi ..! Ma ... che fai?” “Volevo ricordarmi di te” Per la prima volta da quando i loro avversi destini si erano sfiorati, Caterina sorrise. Quel sorriso portava con sé qualcosa di buono, un’immagine calda e familiare: il giovane replicò goffamente, una smorfia disorientata ed incerta. “Adesso devo andare. Grazie per la tua breve compagnia” “Io ... non so neanche come ti chiami ..." “Meglio evitare le presentazioni. Si risparmia sugli addii” Non ebbe tempo di ribattere, ma non sarebbe stato in grado di formulare un pensiero di senso compiuto. La giovane turista riprese il cammino e si diresse verso la Villa Comunale, senza mai voltarsi ma sapendo di avere gli occhi di quel ragazzo puntati su di lei. Poco dopo, i suoi occhi si sarebbero persi nella bellezza sconfinata della Valle D’Itria : Martina Franca ne avrebbe ospitato il Festival annuale e, forse, lei vi avrebbe fatto ritorno. Venne la sera e le trattorie del centro si affollarono di turisti ed avventori di tutte le età, mentre un giovane uomo cercava se stesso negli occhi verdi di una misteriosa ragazza. Prima o poi, ne era certo, lei sarebbe tornata. * FOTO: Carlo Carbotti DAVIDE SIMEONE Davide Simeone FB #davidesimeone #rewind #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
Le cinque e quindici. Settembre pieno. All’apice, sul Ponte che Punta una Penna ad arco come bilancia sugli eventi, un uomo, sprofondato nei suoi settantacinque anni, fa sfera al suo e al tempo del giorno che comincia. Ritto, con le mani strette al ferro della balaustra, sente l’odore amico del mare salire a commuoverlo negli occhi. I rintocchi dei secondi non trovano spazio nella testa libera dagli affanni. Era stato un bell’uomo, e lo è ancora malgrado la stupida età, insignificante particolare che non incrina il suo amore per la vita la cui essenza sono state le donne. Aveva passeggiato nei letti come sui marciapiedi; con eleganza, gentilezza, talento e, soprattutto, rispetto. Aveva esercitato l’amore dove il sentimento si faceva carne, riuscendo a renderlo credibile. Si specchiava negli occhi provati delle amanti e vi lasciava la propria immagine. Le salutava col gesto usuale di una carezza sulla fronte per scostare una ciocca di capelli. “Au revoir” sussurrava arrotando la erre. Il francese, lo chiamavano. Era nato in un bordello, nella città femmina per natura, posseduta dalla storia. Amante. Adesso era sdraiata davanti allo sguardo profondo del francese. Lo aspettava. L’uomo si era accorto che avevano abusato di lei, non le avevano usato la misura minima di una carezza sulla fronte, anzi, l’avevano stuprata. Anche i facili costumi possono essere strappati e fatti a brandelli dall’insulso coito di un ignorante e rozzo cercatore d’amore. E molti lo avevano fatto impunemente, lasciandola svilita nel fisico e nell’anima. Da tempo, ormai. L’aria rasata di fresco deterge la faccia del francese, praticata dal tempo, in ogni lembo. Umana. L’uomo guarda la città nella sua interezza, da ponte a ponte, da luce a luce. La vede tremolare e spegnersi a sfumature di buio nel giogo capace dell’aurora. Alba, come le tante ammirate dopo le notti spese a curare il piacere remoto nel corpo di una donna. Alba, ora, respirata con la rassegnata disperazione dell’ineluttabile. Si volta. A est il sole sta arrampicandosi all’orizzonte. Lo sente ansimante nella salita, stordito da un’inusitata timidezza. L’uomo ritiene esista un esempio d’umanità nell’infinito, ma gli individui mortali della sua città non erano stati attenti alla lezione. Lui sì, l’aveva imparata, a modo suo, la lezione, scegliendo il ventre di una donna come alveo di estrema umanità. Le donne gli avevano insegnato la vita e il rispetto che questa comporta. L’essere nato in un bordello aveva mutato in blu il suo sangue. Ossimoro, più che paradosso. Era riuscito nella strenua alchimia che fa della bellezza un bene completo, duraturo. Ormai, la città era animata da figli, figliastri, figli illegittimi, amanti che dell’ambiente respiravano l’aria viziata. Individui, la cui fatiscenza di pensiero si aggrappava al piacere istantaneo, che perseguivano la noncuranza verso se stessi e gli altri, che adottavano l’egoismo e la mancanza di rispetto in un qualsiasi rapporto. Si calpestava l’amore. L’amore, anche lo spicciolo, veniva privato del residuo valore a cui, volendo, col minimo sforzo, si poteva dare consistenza. Ecco cosa erano diventati i concittadini del francese; fruitori dell’effimero, rassegnati al respiro corto di un amplesso sbrigativo e volgare. Non contemplavano la disperazione, non ci arrivavano col pensiero ampio. Erano rotti al centro e ci passava aria senza valore, infetta, tutt’al più. Pensa, il francese, che neppure un bordello, nell’accezione più spregiativa, sarebbe stato così moralmente malato come la sua città. Stringe i pugni con forza al ferro della balaustra che argina il vuoto sopra il mare. Respira profondo nell’intento di acquietare la disperazione limpida dei suoi occhi. Si volta ancora a guardare l’ombra chiara al seno di mare più piccolo del Piccolo. Il francese è sospeso tra nascita e morte. Sta all’alba. Alba dichiarata che va a scalare, nei due versi contrastanti, ogni santo giorno, le speranze degli uomini di buona e cattiva volontà. Alba sovrana a cui il francese aveva sempre fatto da giullare divertendola coi giochi essenziali dell’esistenza. Le rendeva onore. Alba. C’era stata scarsa volontà di emergere, nell’indole, assuefatta al minimo, dei suoi concittadini portati di natura a scegliersi il versante a decrescere dello scalare. In pratica, si lasciavano vivere, immobili, indolenti. Il francese avverte un calore soffuso alle spalle e sa che l’opera sta ricominciando con l’abbaglio del Riflettore. Non gli rimane molto tempo per mettere in atto ciò che ha in mente. Sarà un atto unico da rappresentare in totale solitudine per la regale spettatrice; la sua città. Il congruo silenzio sta riducendosi a manciata spicciola, corroso dal rumore delle macchine che a brevi intervalli scorrono sul ponte. Dai finestrini spuntano occhi curiosi e titubanti nell’ammirare il francese al limite dell’universo. Il calore si alza di un tono e dà spinta all’attore. L’uomo si accosta alla balaustra, ma lo sguardo è perso nell’attenzione massima volta alla spettatrice sonnacchiosa scossa da sussulti di risveglio nelle arterie. Si spengono le luci. Tutte. E salgono i respiri velenosi esalati da chi le sta attorno e continua a offenderla. L’ombra del sole scalda il rimasuglio della notte agli angoli delle periferie dove i Tamburi si fanno lamentosi nel cupo battere delle ore a crescere. Sale costante, nell’uomo, la voglia di piangere nel pensare ai pascoli sterminati della sua verde età, al blu cobalto del suo mare, al profumo della vita che si camuffava d’eterno. Sale il dolore, si scioglie negli occhi celesti. Nitidi nella memoria riappaiono i vicoli, le viuzze della città vecchia dove ha imparato l’amore e se l’è fatto spiegare dalla manualità acerba e saggia delle donne, nell’umidità di salsedine affissa ai muri. Sente, nel respiro fattosi acuto, le suggestioni e il suo proposito vacilla. Rivede, oltre il Ponte che gira, le strade nuove di fresco e i suoi vestiti dal taglio scelto, sempre di bianco, posati con estrema cura nei salotti di classe, prima di entrare nelle camere da letto. Rammenta quando, nelle sere di malinconia, si incaponiva nel visitare i quattro punti cardinali della città, sulla sua vezzosa 850 coupé bianca. Ci andava per delimitarne i confini e sognare un mondo da costruire, presago di affascinanti scoperte. La città gli sembrava appesa all’infinito e lui ne faceva il fulcro. Se la sentiva addosso e dentro, la visitava, la possedeva, la percorreva, l’amava, ne conosceva ogni angolo, anche il più remoto. Era il bordello che frequentava onorandolo con la propria classe. Il suo bordello. Adesso, dall’ultimo Ponte nato dopo di lui, non riconosce il posto. Si sente estraneo all’andazzo sudicio del tempo attuale. La città non è più sua, e se ne andrà indisturbato prima di vederla agonizzare. Ma è ancora bella. Molto. Là, stesa ad aspettare che il sole la scopra nuda per farsi amare ancora e nonostante tutto. Sale sulla balaustra, a fatica per raggiungere un equilibrio serio che non guasti la sua ultima rappresentazione in onore della spettatrice massima, col vento di mare a soffiargli la vita, mentre, alle sue spalle, il sole sta per staccarsi dall’orizzonte. Sente voci vicine, vede navi, sotto, ormeggiate, nessuno lo piangerà, nessuno si accorgerà della sua mancanza. Il volo, poi l’acqua, il freddo, il niente. Sarà così a galleggiare prima di essere ripescato e ricondotto agli uomini. E’ pronto. L’ultimo sguardo alla sua martoriata città. Se ne vuole andare con quell’unica immagine affissa agli occhi celesti. “Mamma” mormora. La parola che non ha mai detto, né mai conosciuto. La prima e l’ultima. L’unica per tutti. Mamma. Stringe le palpebre così forte che le lacrime gli schizzano al vento. Respira e sente due mani delicate e forti afferrargli le caviglie. Si volta e scontra, già sconfitto, lo sguardo di una donna. Ha gli occhi di miele e i capelli di grano. “Scenda, per cortesia, scenda.” Dice con tutta la dolcezza possibile. Il francese resta a fissarla, incredulo. Pensa che la donna è la speranza dell’umanità, lui le conosce bene, le donne. C’è speranza, dunque. Si capacita e scende sostenuto da altre mani protese. Ci sono tutti; uomini e donne che lo accarezzano, lo rincuorano strappandogli un sorriso. Spalle alla balaustra, incontra gli occhi di miele che sembrano chiedergli: perché!? Non risponde, ma è felice. E lei lo sa. Il francese sente la speranza nell’alba nuova accesa dal sole ormai libero. PIETRO FRENTA IlLabileEqulibrioDellaPedina #pietrofrenta #illabileequilibriodellapedina #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
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