Chi vive lontano lo sa. Chi vive dentro lo ignora. Un paradosso? No. La vita. Per capire bisogna ricordare. Lo sa bene Paolo. Partito poco più che adolescente e trasformato nel volgere di pochi decenni in brillante docente. Spesso si cerca di non tornare. Perché ripartire è penoso. Paolo sapeva, ma non esitò. Quella mattina alle ore sette e trentadue minuti primi, lasciava la frizione della sua automobile per lanciarsi sulle vie dei ricordi. Ritornava al suo borgo natio, nella sua Francavilla. Non compiva quel viaggio da 5 anni. Il precedente fu un viaggio triste. Salutare le spoglie mortali della propria madre era stato doloroso. Ma oggi è diverso. Perché tornare allora? Paolo si era posto questa domanda, e a dire il vero anche sua moglie gliel’aveva chiesto. Non seppe rispondere a se stesso. Figurarsi alla moglie. Ormai la decisione era presa. Si trattava di percorrere strade già conosciute. Sua moglie non ne volle sapere di accompagnarlo. Paolo ne fu contento. Aveva bisogno di solitudine. A breve arriverà la Pasqua, sarà primavera. Mentre nella sua mente si alternavano pensieri molesti a ricordi piacevoli, cominciò ad insinuarsi un nuovo atteggiamento. Come se stesse cambiando abito. Sentiva di essere sempre lo stesso, ma cominciava ad insinuarsi sempre di più una percezione diversa del mondo esterno. Faceva finta di nulla. Ma la sua impazienza cominciava a crescere. Schiacciare sull’acceleratore? Forse potrebbe essere una soluzione. Lo faccio. Autovelox. Accidenti. Riporta la velocità al limite. Si ferma ad un Autogrill. Ancora centosettantacinque kilometri all’arrivo. Una tappa del giro d’Italia. Ricorda quando insieme a suo padre guardava in televisione la corsa rosa. Altri tempi o altro io? Mah. Si reca in bagno. Si butta addosso un po’ d’acqua fredda. Esce. Prende un caffè. Guarda le sigarette. Ha smesso di fumare da otto anni. Lo assale una voglia irrefrenabile. Cerca di controllarsi. Esce. Rientra subito. Compra un pacchetto. Lo guarda a lungo nella sua mano. Esce. Lo apre. Sente l’odore pungente del tabacco. Cerca l’accendino. Non ce l’ha. E per forza non fuma più. Va in macchina usa l’accendisigari. Finalmente fuma. Non è come lo ricordava. Butta subito via la sigaretta. Riparte. Decide di non fermarsi più. La strada corre lenta davanti a lui. Tutto scorre. Anche il tempo. Osserva gli ulivi che crescono sempre di più man mano che la sua meta si avvicina. Arriva sul far della sera. Decide di andare subito a casa. A casa di chi? A casa sua, si risponde. In realtà non sa cosa lo attende. Sono 5 anni che non mette piede nel luogo che lo ha visto bambino prima, adolescente poi, e che ha salutato con una valigia in mano. Aveva annunciato il suo arrivo alla sorella che lo aveva rassicurato: avrebbe trovato la casa pulita. Mette la chiave nella toppa. Gira. Apre. Si ritrova in un ambiente familiare che però ormai non conosce più. Gli viene un capogiro. Si siede sulla poltrona che un tempo era di suo padre. Lascia i suoi bagagli al centro della stanza. Non sa cosa gli è preso. Una lacrima sgorga dai suoi occhi. Lo squillo del cellulare lo riporta in vita. La moglie vuole sapere se è giunto a destinazione. Lui la rassicura. Dopo la breve chiacchierata con la consorte ritorna cosciente. Mangia un panino che si era portato per il viaggio. È presto sono solo le otto. Fa una doccia e va a letto. Prende il suo libro. Crolla dal sonno. Si addormenta subito. Sogna come un bambino. L’indomani si sveglia all’alba. Sono le sei e zero minuti primi. Si alza. Prepara il caffè. Lo beve alla finestra. Osserva tutta un’umanità semplice al lavoro. Ne rimane estasiato. Decide di fare in fretta vuole uscire. Presto. Come quando era un ragazzo nelle domeniche che precedono la primavera, quando senti bussare alla tua porta le rondini. E poi, oggi è venerdì. Un venerdì speciale per Francavilla: il venerdì Santo. Nella sua mente si affollano ricordi. Esce. La sua casa è a ridosso del centro. Dove si erge la cupola più alta del Salento. Davanti la Piazza che è il Centro delle Terre d’Otranto. Osserva intorno a sé come se quello che guarda lo vedesse per la prima volta. Vantaggio dello straniero. Condanna dell’esule. Anche se inconsapevole. Passeggia. L’unico suono è il ticchettio dei suoi passi. Osserva la Basilica Minore nella sua maestosità, ma la sua attenzione è calamitata dalla Chiesa della Morte, centro del culto del Venerdì Santo. Qui durante l’anno riposano le statue che durante la serata attraverseranno le vie della città. La sua mente vola a quando da bambino andava a vedere di nascosto il volto di Gesù martoriato. In quel viso scorgeva dolore e terrore. Ricorda che ne era spaventato. Ma allo stesso tempo non riusciva a fare a meno di guardare. Mentre prosegue la sua passeggiata mattutina con il naso rivolto all’insù, quasi a voler sfidare il cielo, il suo corpo è scosso da un incontro inaspettato. I Pappamusci. Simbolo della città. Pellegrini scalzi e incappucciati che percorrono le vie di Francavilla andando a pregare sui sepolcri. Incredibilmente queste figure erano scomparse dall’orizzonte dei suoi ricordi. All’improvviso sgorga una sequenza incredibile di immagini. Quasi una emorragia di ricordi. Si ferma. Li osserva passare. Si rivede, proprio in quella strada, mano nella mano con suo nonno. L’anziano gli raccontava la storia dei Pappamusci. Lui spaventato si nascondeva dietro la sua gamba. Decide di proseguire ostinatamente la sua passeggiata. Entra nelle Chiese della città. In tutte sarebbe impossibile. Sono 21. Troppe per una mattinata. Ripercorre quelle più significative sulle vie dei ricordi. In ognuno dei luoghi che osservano i suoi occhi ritrova una parte di sé. Una parte che non credeva più di avere. La città si anima. Comincia la processione mattutina. Tanta gente assiepata lungo le strade. Ormai non conosce più nessuno. Osserva affascinato. Si rifugia in un bar. Prende un caffè. Di nuovo una voglia irrefrenabile di fumare. In tasca ritrova le sigarette. Ne prende una. Non ha l’accendino. Ferma un passante. La prima boccata è una rivelazione. La fuma per intero. Si sente stordito. È fermo. All’improvviso un suono lo ridesta. È il Perè. Una melodia antichissima di trombe che sottolinea il passaggio dei Pappamusci. Altri ricordi si accumulano. Decide che è arrivato il momento di pranzare. Si rituffa nel centro. Questa volta a solleticare la sua memoria sono gli odori. Profumi che fuoriescono dalle case. Entra in una Osteria. Pranza. Alle 15.00 ne esce. Decide di fare ritorno a casa. Un po’ di riposo prima della grande processione. Alle 18.30 esce nuovamente. Osserva le enormi croci disposte vicino alla Chiesa della Morte. La sua memoria galoppa di nuovo. Si rivede ancora una volta bambino con suo nonno ad accarezzare quel legno freddo. Tra poco, uomini incappucciati e scalzi trascineranno per le vie delle città queste pesanti testimonianze dell’amore di Cristo. Si posizioneranno tutti dietro alla statua che immortala Cristo alla Cascata - Dove mi vedesti? - Si racconta chiese la statua al suo autore. Si ferma, ha bisogno di calmarsi. Accende una sigaretta. Si rifugia in un bar. Si siede ad un tavolino. Un suono sordo richiama la sua attenzione. È la trènula. Un altro oceano di ricordi ancestrali lo travolge. Paga il conto. Esce osserva la processione nella sua magnificenza. I suoni che si alternano sono la trènula e lo stridere delle croci lungo la strada. Decide di tornare a casa. Prende il telefono. Chiama la moglie. Resta. Ha trovato il senso del suo viaggio nato per passione e terminato in se stesso. Ha ritrovato il senso. Per passione si vive. Per passione si arde. Per passione ritroviamo noi stessi. Senza passione moriamo ogni giorno. VINCENZO SARDIELLO www.inpuntadicravatta.com #vincenzosardiello #raccontiinpuntadicravatta #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
3 Comments
Non mi è mai piaciuto il mare. Quella massa violenta e cupa. Quel vetro azzurro che nasconde abissi muti, insidie pennellate di colori arditi. Perché sono nato in un luogo dove i monti ti abbracciano con il loro manto caldo e ti cullano intonando una nenia di foglie e di rami. Sono nato in un rudere incastonato fra rocce e muschio odoroso di fresco. E dall’unica finestra, ogni mattina, vedevo affacciarsi un sole timido sulla cresta scura. Quella luce polverosa e pallida sapeva scaldare il mio cuore solitario. Il profumo del latte di capra, appena munto, nella scodella sul tavolo era il mirëdita, il “buon dì”, che il mio babagjysh, mio nonno, dedicava a me ogni nuovo giorno. Babagjysh! Babagjysh è una parola che giunge dall’esterno e ti entra dentro saltellando leggera sulle labbra. Poi la lingua si arrotola, la cattura, e la ingoia per condurla al cuore. Ba-ba-giysh. A quel tempo io e il mio babagjysh eravamo una famiglia sulla Malissia in Albania. Sì, in Shqipëria, così sia chiama la mia terra d’origine e significa “Paese delle aquile”. Ne ho viste tante di aquile sulle mie montagne e ogni volta mi domandavo com’era vedere il mondo da lassù, con gli occhi acuti delle aquile. Chissà come si vede la mia piccola casa arroccata sul costone della collina - mi domandavo. Quella casupola fatta di pietre grigie e di legno di rovere scavata nelle rocce maculate. Quell’unico locale con due lettini, un tavolo e il camino quasi sempre acceso, doveva apparire alle aquile come un piccolo nido a loro familiare, e noi due come due uccelli spauriti. Addossata, sul fianco destro della casa, c’era la stalla. Un piccolo capanno improvvisato realizzato dal mio babagjysh con vecchie assi di legno. Lì dentro si rifugiavano quattro capre e due galline: l’unica ricchezza di babagjysh. Lui mi diceva sempre – Se vuoi vivere bene, devi far vivere bene le capre. Va’, portale a spasso! – e io eseguivo. Portavo al pascolo le capre tutti i giorni. Percorrevo un sentiero accidentato per giungere ad una piccola radura attraversata da un torrente impetuoso. Mi sedevo su una pietra sull’argine del fiume e ascoltavo la voce prepotente delle acque. Consumavo il mio solito pasto, pane e formaggio, e aspettavo che il sole tramontasse prima di tornare a casa insieme al mio cane, che chiamavo qeni, cane, perché quando c’è povertà non si sprecano neanche le parole. Quando la luce colorava di azzurro il profilo dei monti, tornavo a casa e lungo la via vedevo il fumo del camino disegnare volute nivee nel cielo bruno e sentivo il profumo della minzetra uligne me bath, la frittata con fave secche e olive che il mio babagjysh preparava. Quell’effluvio, unito all’odore intenso di legna bruciata e di stallatico, marcava la nostra dimora, ed io l’avrei riconosciuta fra mille. Non so che mestiere facesse il mio babagjysh e se ha mai praticato un mestiere. E non so con quali mezzi vivessimo allora e se per vivere a quel modo servissero dei soldi. So solo che di tanto in tanto babagjysh scendeva al villaggio, a piedi con il suo bastone attraversando prima il bosco e poi la lunga e tortuosa mulattiera, per aiutare Donjet e la sua famiglia a impastare il pane o a uccidere il maiale. Per questo motivo in casa nostra non mancava il pane e il fërgesë, un piatto composto da carne macinata di maiale fritta e servita con formaggio e aglio, nei giorni di festa, i quali erano uguali agli altri giorni tranne il fatto che babagjysh diceva che era festa e che la nostra pietanza subiva variazioni. La mia gjyshe, mia nonna, era morta, prima che io nascessi, di una morte sconosciuta, e babagjysh era rimasto solo con la sua unica figlia: Serina, la mia nënë, mia madre. Serina, aveva sposato un uomo che babagjysh definiva una “testa calda” perché era un sovversivo contro il regime comunista di Enver Hoxha e con mia madre non aveva mai vissuto, ad accezione di quel frammento di tempo utile a concepirmi. Poi chissà dove lo portarono le sue idee di libertà. C’era chi diceva che era prigioniero ... o che era morto ... o che era combattente nella ex Jugoslavia ... Certo è che nënë aveva paura della dittatura, temeva ripercussioni e un giorno decise di partire anche lei. Mi schioccò un bacio sulla fronte dicendomi - Paç fat ! - Buona fortuna! Il giorno in cui mia madre mi abbandonò sparirono altre due persone del villaggio. Tutti, si vociferava, fuggiti in Italia. L’Italia, come l’America, dispensatrice di sogni. Alcuni anni dopo Donjet salì su per la montagna per consegnarci una lettera proveniente proprio dal “Bel Paese”: era di mia madre. Babagjysh leggeva che la mia nënë lavorava come cameriera in un locale di Brindisi, una calda città affacciata su un mare cobalto proprio di fronte alla nostra “Terra delle aquile”. Leggeva che nelle giornate luminose la mia nënë si recava sulla riva per vedere all’orizzonte l’Albania. Leggeva che la mia nënë riusciva a scorgere il contorno delle vette della Malissia e che, a volte, riusciva perfino a discernere la nostra casa posata sui rupi. Leggeva che in quei giorni la mia nënë mi salutava con la mano e mi inviava baci trainati dal vento. Non so se quelle parole fossero davvero impresse sulla carta di quella missiva. Non so se quella lettera provenisse davvero dall’Italia e non so nemmeno se babagjysh conoscesse i misteri della lettura. So solo che da quel giorno, con il sole con la pioggia con la neve e con il maestrale, mi arrampicavo sui colli, sulle pietre più impervie e aguzze, per urlare a mia madre - Mirëmëngjes nënë! -Buongiorno madre! Una mattina babagjysh mi disse: - Oggi diventerai uomo. Avevo otto anni il giorno in cui babagjysh decise di separarsi da me. Ci incamminammo giù per il sentiero verso il villaggio e mentre scendevamo io percepivo il pericolo incombente, come i gatti prima di essere abbandonati. Babagjysh devo portare le capre al pascolo! Se non escono non fanno il latte! – dicevo, ma babagjysh non dava voce ai suoi pensieri e non dava risposta alle mie parole. A casa di Donjet c’era un giovane proveniente da un altro villaggio, diretto in Italia, proprio a Brindisi, quella misteriosa città che nascondeva mia madre dalla paura e dalla povertà. E la nascondeva anche a me. Il ragazzo aveva il compito di portarmi con lui in quel viaggio di fortuna, e aveva il compito di fare di me un uomo coraggioso. Ma io non ero ancora un uomo. E non ero coraggioso. Io avrei dovuto essere felice, avrei rivisto la mia nënë e invece piangevo di un pianto inconsolabile, tanto che babagjysh fu costretto a prendermi a schiaffi. Budella! Budella! Stupido! Stupido! – gridava – Vuoi fare la mia fine? In un Paese senza libertà non ci può essere ricchezza e in un Paese senza cultura non ci può essere futuro. Va’, e non ti voltare indietro. Questo posto non merita rimpianti e non pensare a me che sono vecchio. Pensa a te e ricordati Zoti vonon por nuk harron! Dio tarda ma non dimentica! Era la prima volta che babagjysh pronunciava il nome di Dio. Non era mai entrata la preghiera in casa nostra perché prima, quando c’era il regime, era vietato pregare, poi la gente si era dimenticata di farlo e aveva lasciato i Santi fuori dalla porta di casa. Camminammo per giorni, io e Mikan, attraversando tutta l’Albania da nord a sud a piedi o con qualche passaggio di fortuna su furgoni iperaffollati. Conobbi mondi a me estranei. Vidi miseria, disperazione, fame, dolore, fucili, polizia, morti, mutilati, ladri, donne, vecchi, bambini. Dormimmo di giorno nascosti in bunker abbandonati e pieni di escrementi di ogni genere e viaggiammo di notte seguendo rotaie infinite. A quel tempo non c’era dittatura ma era comunque vietato lasciare il Paese. Poi, lo vidi. Eravamo appena scesi da un camion e ci eravamo nascosti dietro un casolare disabitato ad aspettare. Prima ne sentii l’odore forte che mi bruciava le narici, sembrava il piscio di un animale di grossa taglia. Poi, quando una luce in lontananza iniziò ad accendersi e a spegnersi ad intermittenza, Mikan mi afferrò per la maglia e mi trascinò fra rovi proprio di fronte a lui. Era immenso, cupo, e tossiva con una voce roca da far paura. Cos’è? – domandai. -Budella, è il mare! In quel momento dai cespugli uscirono centinaia di ombre, corpi bui che si spingevano e scontravano imprecando. Salimmo tutti su una barca che ci portò al largo dove braccia e mani ci afferrarono per accoglierci su un grosso peschereccio sgangherato. Mi voltai verso la spiaggia e con lo sguardo abbracciai la mia Shqipëria perché sentivo che da quel viaggio non avrei più fatto ritorno. Non avrei più rivisto il ventre gonfio e rugoso delle mie montagne e non avrei più sentito il fiato fresco dei boschi soffiarmi sulla ciglia come faceva il mio babagjysh quando piangevo: fffffff... All’alba una terra dal ventre piatto mi attendeva. La bianca città ridente di sole mi avrebbe offerto il suo seno per farmi rinascere una seconda volta. Forse. O forse, mi attendeva, la culla perenne degli abissi muti del mare. (Nel 1991 iniziarono i primi sbarchi di albanesi sulle coste pugliesi e da quella data per oltre tre anni la Puglia fu terra di speranza, di pace, di libertà e di fratellanza. Una moltitudine di giovani volontari accolse per un lungo periodo i fratelli albanesi portando loro cibo, abiti e un caloroso benvenuto). ANTONELLA CAPRIO PaginaFB #antonellacaprio #noncècuore #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
La terra rossa e le foglie di ulivo verdi. Fin da bambino giocavo con la scatola dei colori e usavo l’amaranto per disegnare la terra, poi lasciavo una sospensione bianca e quindi in alto sul foglio usavo il celeste per colorare il cielo. Ma terra e cielo si toccano, mi faceva notare la maestra dell’asilo, un luogo in cui misi piede per errore solo una manciata di giorni. No, in mezzo ci sono gli alberi e la campagna, rispondevo. E c’è anche il mare, mi affrettavo a aggiungere. Certo, ribatteva lei, però tu non li hai disegnati. Non c’è spazio sul foglio, chiudevo la discussione e restavo a fissare l’amaranto. E poi la terra non è così rossa, insisteva la maestra mentre mi allungava un marrone spento. Amaranto, la correggevo io che avevo imparato quel colore da mia nonna. Ancora oggi quando percorro la provinciale 9 che scende da Cisternino fino a incrociare la vecchia statale 16 ho un sussulto: vorrei chiamare la maestra d’asilo e mostrarle che la terra non è marrone, non ha quel colore smorto tipico dell’argilla, che tende a ingrigire come il passare del tempo. No, è di sicuro amaranto, o rossa? Non sono mai stato capace di scegliere Pantone o Rgb corretti o di definire con precisione colori e sfumature cromatiche. Per esempio alla parola “indaco” di solito ho un capogiro, poi penso che azzurro andrebbe benissimo e mi riprendo. Eppure la terra che mi circonda mentre scendo in macchina verso il mare è amaranto, o perlomeno a me piace definirla tale: terra amaranto. Il verde di quegli ulivi che si aggrovigliano imponenti su quelle campagne danno una combinazione di colori che persino Gucci impallidisce. Quando splende il sole il riverbero e l’intensità della luce sul parabrezza tendono a accecare, e servono occhiali e parasole. Arrivo alla curva che immette sulla vecchia statale 16, lascio a destra il bivio per Speziale e giro a sinistra. Percorro immerso nell’amaranto un breve tratto di statale, poi prendo la provinciale 7 e attraverso Pozzo Guacito o Faceto o come lo si vuole chiamare. Quattro case sui lati della strada, un benzinaio e poi la chiesa della Madonna di Pozzo Guacito o Faceto. Quella chiesa la chiamo da sempre “la messicana”, o se si preferisce la “californiana” – è uno spiazzo perfetto per girare un vecchio spaghetti western, il sole a picco a mezzogiorno, il bianco che domina la scena, la campana a vista, il nulla intorno. Poi tornano gli ulivi, e la terra. Abbasso il finestrino dell’auto perché il sole ha riscaldato troppo l’abitacolo e non ho voglia di accendere l’aria condizionata. Su questa strada che andrà a incrociare la via Appia antica, che costeggia il mare, ho ambientato il mio primo romanzo, esordio di terra di origine. E oggi ripasso da questa strada dove Francesco cercava disperato Giulia. Avevo costretto Francesco su questa strada, in pieno maggio, lo avevo fatto scendere fino al mare, a cercare la sua donna sparita nel nulla fra la Taverna di Santos appena fuori Torre Canne e la Forcatella. E oggi percorro io ancora quella strada, fra la terra amaranto, gli ulivi imponenti, attorcigliati come Pier delle Vigne, e il blu intenso del mare (o si deve dire indaco?), quell’Adriatico porta di Levante, la mia costa orientale. Forse sarà per questo, sarà colpa dell’Oriente, del sole che da qui sorge che la terra si è macchiata rossa. FERNANDO CORATELLI "La resa" PaginaFB #fernandocoratelli #laresa #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
Oggi, 5 luglio 2026, compio tredici anni e mio padre mi ha promesso un regalo “insolito”. Gli avevo chiesto una collana elettronica. L’ultimo modello della MicroShift pesa solo venti grammi ed è un gioiello hightech: microcamere al plasma e nano-computer quantistico, comandi vocali e collegamenti immediati via Internet, anche con la stazione spaziale e la Base sulla Luna. Può prenotarmi per un dialogo con gli astronauti in volo verso Marte, materializzarmi sulla retina immagini tv o dati di archivio e pagine di testo, improvvisare per me videogiochi ottici casuali, crearmi finte identità, e così via. Costa un tantino, ma papà... La porta si apre, dev’essere lui! — Giulio, alzati — dice papà abbracciandomi. — Auguri, oggi andiamo a prendere un regalo speciale. Mi bacia anche Tecla, la mia giovane madre adottiva che è un clone della mia vera madre quarantenne, divorziata da papà. Tecla è identica a mamma però la considero più un’amica. Mi preparo e usciamo, tutti e tre. — Sarà una vera sorpresa — dice papà. Tecla ride, forse sa già. Io fingo indifferenza. Entriamo nella mini-auto, papà imposta il tragitto, la vettura parte con un leggero scatto. Sono sorpreso: — Come mai andiamo fuori Bari? Silenzio. La temperatura esterna è sui 50 gradi, come al solito. È domenica e la città sembra un deserto. In silenzio, trascinata dal mono-binario magnetico sotto l’asfalto, l’auto sparata supera la periferia, siamo sui 170 orari. La temperatura aumenta e i vetri si auto-opacizzano, è il minischermo a mostrarci l’esterno. Arriviamo alle pendici della Murgia e cominciamo a salire. Le colline sono totalmente spoglie, con rari alberi rinsecchiti qua e là e nessuno si decide ancora a tagliarli. Il terreno è scuro, pietroso, solcato da crepe. Poco dopo in fondo al nastro d’asfalto intravvedo le cupole e il minareto di Zawilah, il paesino costruito da una delle comunità arabe pugliesi. So che ne creeranno altri, in Africa la temperatura ormai arriva a sfiorare i 70 centigradi. Parcheggiamo in una piazzetta con palme e un minareto, scendiamo e ci inoltriamo fra case basse in un dedalo di viuzze, finché papà si ferma davanti a un grande ingresso ad arco. — Vai. Entro, e vedo un dromedario. — È tuo. — Papà parla in arabo con un certo signor Maliq, immagino contrattino costi e il parcheggio dell’animale. Ma accidenti! La collana-computer sognata da tanto tempo... — Sali! — mi dice Maliq ridendo. Mi ritrovo a cavalcioni sulla bestia e con la mente sono già... via! Lanciato sulle sabbie e le dune desertiche della Murgia, verso l’interno, ricco di strane avventure e di mistero. VITTORIO CATANI www.fantascienza.com/blog/vikkor #vittoriocatani #gliuniversidimoras #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
A circa dieci kilometri da Ostuni si trova Bari. O meglio un pezzo di Bari. O, per essere ancora più precisi, Rosamarina. Rosamarina è un villaggio turistico sorto sulla costa adriatica durante gli anni ’70 che ha subito un destino, dal punto di vista civico, atroce. Fondato da un apolide, Rosamarina nacque come villaggio turistico per soli stranieri – tedeschi, inglesi, svedesi, insomma per tutti quei popoli che oggi prendiamo a spietato metro di paragone per misurare la nostra qualità della vita – ma ora, a parte qualche sparuta minoranza di altre città, è diventato il ritrovo estivo dei baresi. Anzi, dei baresi della Bari-bene. Tanto che sulla sempiterna “Gazzetta del Mezzogiorno” si è soliti riferirsi a Rosamarina come il villaggio dei vip. Dove e quali siano esattamente questi vip nessuno lo sa. Ma ai baresi, questo invece si sa, piace cantarsela e suonarsela da soli. E dunque. A circa dieci kilometri da Ostuni si trova Rosamarina e, conseguentemente, un po’ di Bari. Ora, dovete sapere che a Bari esistono due postulati eterni, un paio di mantra che ripetiamo in continuazione, più volte al giorno, più giorni alla settimana. Uno: a Bari non c’è mai niente da fare. Due: Bari è bella, il problema sono i baresi. Per la proprietà transitiva queste due verità universali, a luglio e agosto, fanno i bagagli e si trasferiscono con i loro sostenitori a Rosamarina. E quindi. Uno: a Rosamarina non c’è mai niente da fare. Due: Rosamarina è bella, il problema sono i baresi (dire i “rosamarinesi” sarebbe oggettivamente troppo). Così, quando arriva sera e il mare non è più un’opzione per affogare la noia, Ostuni – a circa dieci kilometri di distanza – si staglia come borgo ove trovare un possibile rifugio, un’auspicata novità, una dolcissima salvezza. Ove trovare, insomma, qualcosa da fare. Ostuni, comunemente nota come la città bianca per via del colore delle sue case arroccate l’una sull’altra, per me è invece sempre stata la città arancione. Infatti, andandoci sempre la sera, la vedo sempre trasformata dalle illuminazioni pubbliche che mutano la calce bianca dei suoi muri in un arancio slavato. Il che mi spinge ogni volta a domandarmi perché il comune non compri dei neon bianchi invece di quelle lampadine che oltretutto sembrano pure ad alto consumo energetico: ma avranno le loro buone ragioni. Comunque sia, di giorno bianca, di sera arancione, Ostuni rimane una bella città, almeno d’estate che è l’unico momento dell’anno di cui io ne abbia esperienza. Negli altri mesi, non so. Ma d’estate Ostuni ha qualcosa di speciale, qualcosa che non riesco a capire nonostante siano ventisei anni che la sera, d’estate, mi reco laggiù, o meglio lassù, dato che Ostuni è pur sempre in collina: duecentodiciotto metri sul livello del mare, secondo wikipedia, dieci minuti di cammino, secondo i miei piedi, dopo che lascio l’auto dalle parti del parcheggio degli autobus (non dentro le strisce blu, ma da qualche altra parte, in vacanza resto comunque un barese). Dieci minuti a meno di non fermarsi da “Impasto Napoletano” (la migliore pizzeria napoletana non a Napoli che abbia provato), dieci minuti e via su Corso Mazzini, direzione centro storico poiché la sera, non importa dove ci si trovi, si va in centro. Cammini sul viale alberato, senti qualche tedesco parlare, vedi la pizzeria rustica con i polli al girarrosto in bella mostra, butti un occhio alla Bottega del Libro perché, nonostante Amazon e megastore, le piccole librerie conservano sempre un loro fascino, e sfoci nella piazza principale. Santo Oronzo c’è sempre e ti guarda dall’alto. Sulla sinistra la salita che conduce alla cattedrale, fatta migliaia di volte per vedere migliaia di volte il panorama dal belvedere, metti mai che qualcosa è cambiato durante l’inverno. Più in là il “Gatto Rosso”, sempre sulla sinistra, e con quel colore non poteva essere altrimenti: coperto assente e puccia ben riempita, e ti scende una lacrima nello scoprire che anche quest’anno ha resistito alle sirene del turbocapitalismo. E poi la “Cremeria alla Scala” e la sua coda. “Ciccinedda Bistrot” e ti sembra di assistere all’incarnazione del sogno americano: da bancherella di angurie a fruit bar alla moda. I mille localetti in cui non entri mai perché sei sempre stato o troppo giovane o troppo vecchio. La folla di gente vestita malissimo ma d’estate, diciamolo pure, seguire la moda è roba da professionisti. La bancherella che, con 35 gradi all’ombra e da 35 anni, vende la cupeta calda presentandola sempre come la novità del momento. I vigili urbani che non si capisce cosa fanno. Gli artisti di strada che impressionano i bambini. La zingara tarocca che fa i tarocchi. E la gente che ci va. E, in mezzo a tutto questo spettacolo di vita quotidiana, ci sei pure tu. Sempre. Da anni. Tanto che, a Ferragosto, sapresti muoverti nella Sagra degli antichi mestieri anche con una benda sugli occhi. Tanto che i menu, nei vari locali, manco li guardi perché li sai a memoria. Tanto che cammini senza prestare attenzione alla strada, perché ormai i piedi hanno già capito tutto. E allora capisci cos’ha Ostuni di speciale, almeno d’estate. È una città che ti accoglie da straniero e ti fa sentire in vacanza a casa o, meglio, a casa in vacanza, che è bellissimo. Così, tra fine luglio e inizio agosto, mentre sei seduto sui gradini della piazza, mentre stai aspettando che arrivino gli altri, mente ti guardi attorno per capire dove è più facile trovare subito posto, ecco, in un momento qualunque di questi, senza accorgertene, senza volerlo, ti sentirai così a casa che ti rivolgerai all’amico che ti sta a fianco e affermerai sconsolato: oh a Ostuni non c’è mai niente da fare. RENATO NICASSIO ilblogstruggentediunformidabilegenio.com #renatonicassio #unmoderatodelirio #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
|
Archivio per categoria
All
Inchiostro di Puglia (Il Blog)#vivilapuglia Archivio per data
December 2014
|