![]() Mia è una serpe nera, una ragazza sinuosa che si muove nel quartiere Libertà quando smonta – letteralmente – dal lavoro, sul lungomare di Torre Quetta o sotto gli archi del ponte di San Giorgio. Lei, nigeriana, vive di quelle poche lire che le lascia il suo pappone, dopo aver trascorso la notte con cinque, sei baresi. Ma soprattutto Mia è giovane e intelligente, curiosa, vivace. Le piacerebbe guardare la città, se ne avesse il tempo, e invece si divide tra un autobus e una passeggiata a piedi dalla stazione a casa sua, sotto lo sguardo impertinente dei ragazzacci in scooter, degl’impiegati cinquantenni, delle massaie imbestialite e invidiose. Oggi il cielo è grigio, spuntano gli ombrelli e le buste di plastica sulle scarpe delle signore del Libertà. Mia è stanca. S’è svegliata presto, ha dormito un paio d’ore. S’accende una sigaretta, si prepara un caffè, si guarda intorno. Vive in un basso freddo e umido; dorme su una branda da campo; respira i miasmi dei suoi vicini e l’alito dei suoi clienti. Oggi ha voglia di uscire, non andrà a lavorare, perché fortunatamente piove. Mia non ha mai visto la città sotto il sole. Sa che c’è un teatro, il Petruzzelli, una spiaggia, Pane e Pomodoro, una città vecchia, una basilica, un santo patrono. Per lei, percorrere due, tre chilometri a piedi, è sottoporsi al linciaggio degli occhi, al vituperio dei ragazzi. Allora esce di casa, si ferma davanti a un bar, s’un marciapiede sgangherato di via Ravanas, saluta un vecchio ebanista innamorato di lei. Raggiunge un TaxiPhone, chiama casa. Sua madre sta bene, la ringrazia per il denaro ricevuto, anche sua figlia sta bene, cresce sana nella miseria e nell’umiltà. Poi chiama il suo ex ragazzo, quello che l’ha portata in Italia. Lo insulta, lo offende, gli urla contro: vorrebbe piangere, ma non ha più lacrime, le si è essiccato il cuore. Infine chiama un ginecologo italiano e fissa un appuntamento: sono centocinquanta euro, a nero, senza fattura, nottetempo, quando non ci sono più italiane in sala d’attesa. Mia adesso cammina nel quartiere, non può allontanarsi da queste quattro vie dove le vecchie capoclan baresi siedono tutto il giorno davanti ai loro portoni, chiacchierando del più e del meno mentre i loro figli si dividono i proventi della droga e delle mignotte. Mia le saluta, ne riceve un cenno del capo, passa oltre, si ferma in un bar, prende il suo secondo caffè. Dai palazzi sulla sua testa sgocciola acqua mista a guano di colombi, il cielo grigio si allunga come una bava di disperazione tra i tetti delle cadenti palazzine del quartiere. In via Quintino Sella Mia compera un paio di ballerine da un cinese indaffarato, le calza, le stanno bene: le ricordano le corse a piedi nudi nelle strade della sua città. Quindi esce dal negozio e torna nel Libertà, nome assurdo per un quartiere che è il suo carcere. Ha smesso di piovere, quindi s’affretta a rincasare perché tra un’ora o poco più dovrà tornare sulla statale 96 a soddisfar le voglie di chi vorrà comprarla. ![]() LEONARDO PALMISANO www.leonardopalmisano.wordpress.com #leonardopalmisano #lacittàdelsesso #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
1 Comment
gianvittorio
12/16/2014 08:51:22 pm
Penso spesso alle immense difficoltà che queste donne trovano; con il suo linguaggio direi fin troppo delicato per l'asprezza stridente di queste vite, ha colto forse tutti gli aspetti di quel vivere. Complimenti, spero possa servire a riflettere su questa forma di schiavitù ancora "autorizzata nel nostro paese"
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