![]() Mio cugino non sospettava che quella sarebbe stata l’estate migliore. Ero l’unica a saperlo. Sono figlia unica, un solo cugino, un solo amore e una sola terra. Lo capisco sempre quando una storia è importante. Oggi mi pare che i ricordi di quei giorni si coagulino fino a diventare uno solo. Il migliore. La casa dei miei nonni materni si trovava nei pressi della chiesa dell’Assunta. La processione con gli incappucciati bianchi sfilava a luglio sotto il nostro balcone. Arrivavano al tramonto e cantavano male. Potevamo guardarli prima di cena e dirci che facevano paura. Era importante avere paura quell’estate, ma non ci bastavano la processione, gli incappucciati e le donne che cantavano latrando. Non erano abbastanza spaventosi per noi. Volevamo di più, per questo eravamo costretti a guardare i film del terrore quando i grandi andavano a letto. Era una specie di segreto. Mio cugino ed io aspettavamo che si facesse l’ora, spalancavamo finestre e porte e accendevamo la tivù in bianco e nero, con il volume talmente basso che lo scirocco lo confondeva con l’aria. Faceva più paura in bianco e nero. Faceva più paura se tutti gli altri in casa dormivano. È un ricordo bellissimo adesso, quella paura là, tanto grande e morbida da sembrare un letto. Specchia è il paese dei miei nonni e per quanto oggi se ne parli come di un miracolo o un gioiello, per noi era la terra dello spavento. Una terra in bianco e nero. Dario Argento ci stava dentro alla perfezione. Metti Suspiria, per esempio. A sentir mio cugino, l’accademia in cui le ragazze del film imparavano a ballare, con tutta la sua pioggia e la notte nera e le vetrate dai colori acidi, somigliava a Palazzo Ripa. C’era una storia dietro quel palazzo a Specchia, con i lampioncini di ferro, i cornicioni merlati, il tufo giallo. Una storia di lontani parenti truffati, vendite irregolari, eredità tristi e cattivo vicinato. Cosicché, ogni volta che mio cugino ed io ci passavamo accanto, per andare a comprare i fumetti in edicola, sghignazzavamo contro le finestre serrate e i catenacci arrugginiti. Un luogo dannato, pensavamo, tanto alla fine va a fuoco tutto, proprio come nel film di Dario Argento. Anche qui, a Specchia, di casa nostra ne resterà solo cenere. Lo pensavamo per avere più paura. Ci piaceva parlare delle cose che scomparivano, tipo catastrofi nucleari, oppure fantasmi foschi, cimiteri pieni, campi di guerra. Specchia e le sue storie antiche che raccontavano di giorno i nonni e gli zii erano perfette. In quelle tutto sembrava sul punto di scomparire per sempre. Persino le mura intorno al centro abitato. Quelle tirate su nel IX secolo - se ne vedevano ancora frammenti in giro - dai primi coloni, accampatisi in questo lembo di terra per sfuggire alle incursioni piratesche che infestavano le coste salentine. Lo zio, il padre di mio cugino, diceva che alcuni segni nello stemma territoriale rimandavano a una matrona, Lucrezia Amendolara. Anche se non esistevano documenti ufficiali che potessero confermare l’esistenza di questo personaggio, a Specchia erano stati comunque trovati dei resti di un’abitazione romana. Si sussurrava che là avesse vissuto la famiglia Amendolara, il cui capostipite, Giovanni, era stato un potente feudatario. A star concentrati, si poteva ancora sentire il fantasma di Giovanni ululare in cima alle mura di cinta. O il suo o quello di qualcun altro, poco importava. La matrona era per noi come la strega di Suspiria. Uguale a lei. Mio cugino ed io, dopo la visione dei film, correvamo giù per le scale fino all’ortale. Sfidavamo il buio. Chi arrivava per primo in fondo, nei pressi del pozzo, era il più coraggioso. Vinceva sempre lui. A me piaceva aver paura, ma percorrevo le scale troppo lentamente, guardandomi le spalle, uno scalino per volta, a piedi nudi. Tremavo e ridevo. Lasciavo che il sapore della paura come polvere di pietra mi riempisse la bocca. Non a caso, gli specchiesi fifoni come me, li chiamano ancora mendulari da quelle parti, per colpa della strega matrona Amendolara, il cui pensiero doveva essere più amaro di quello delle mandorle. Oppure li chiamano: gente di scurlisci, perché questa terra è costruita sopra una serra, tutta salite e discese, e se non ti tieni saldo, finisci che cadi malamente. Cadi dalla paura. Davanti alla tele o giù per le scale, di notte, facevamo il verso dell’Amendola e del suo Giovanni che si buttavano giù dalle mura di cinta e si rompevano tutte le ossa. Certe sere, già di ritorno dal ristorante, pregustavamo il momento in cui saremmo stati da soli, mio cugino ed io, davanti ai segreti di Dario Argento, e, nella macchina dello zio, facevamo lo stesso verso stridulo. Tutta la famiglia, stretta sul sedile dietro, urlava insieme a noi. Persino lo zio. A noi, in famiglia, piaceva molto avere paura d’estate, con caldo umido, anche se nessuno, nessuno oltre me, lo aveva capito che quella sarebbe stata la nostra estate migliore. ![]() ELISABETTA LIGUORI www.mannieditori.it/autore/elisabetta-liguori #elisabettaliguori #koraunastroriaacolori #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
1 Comment
3/31/2014 11:34:50 pm
Un altro luogo dell'anima... con il fascino tenebroso di un mito misterioso che rimanda all'infanzia.
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