![]() Passavo ore a fissare lo spazio tra una pietra e l’altra. Poggiate con arte e pazienza, quella che mio padre non aveva mai avuto, adagiate una sull’altra con una cura che il tempo non avrebbe rovinato. Ammassate in un luogo come la gente nei paesi, impilate come le persone nelle grandi città. Una ferita sembrava quella fessura tra pezzi grezzi, sottratti alla natura per diventare muri, guerrieri a combattere la tramontana e arginare le poche piogge. Cercavano di creare confini in un’età in cui non ne sentivamo, in un luogo che non ne aveva bisogno, talmente lontano dal mondo che sembrava lo avesse dimenticato. E noi guardavamo le nostre madri piangere al buio e volevamo solo morire, lontani da qualsiasi cosa somigliasse alla vita. A quella in tv, ai ragazzi che nel mondo si divertivano mentre a noi ci avevano lasciato in un buco di culo così piccolo e stretto che non ci avrebbero mai trovato. Alcuni dei più grandi ce l’avevano fatta, erano andati via. Li vedevi tornare solo per le feste e i funerali, con l’aria di chi con quel posto non c’entra più un cazzo. Ma questo posto non lo puoi cancellare, lo porti nella carne, nel cognome, nelle sopracciglia folte, nelle mani grandi e i piedi piccoli. Qui tutti sanno chi sei, a chi appartieni. Al di qua di questi muri i segreti rimbalzano di porta in porta. Tutti sapevamo che la mamma di Rocco era pazza, la notte la sentivamo gridare, ululare. Durante il giorno ne scorgevamo la sagoma dietro le persiane. Ma non gli dicevamo niente. Ognuno di noi aveva vergogne, nei paesi possono diventare giganti, soprannomi attaccati alla tua famiglia per sempre. Il mio era Quartino, per via di mio padre. Dopo il lavoro lo potevi trovare al circolo. Sedeva sempre alla stessa sedia, prendeva sempre un quartino di rosato fresco, fumava lento, ne prendeva altri tre, poi si alzava e tornava barcollando verso casa, lì si sedeva a tavola, mangiava in silenzio, beveva un litro di rosso e andava a dormire. Il padre di Francesco aveva una fabbrica poco fuori il paese, dava da lavorare a un sacco di gente. Un giorno sono entrati e gli hanno chiesto dei soldi. Lui ha pagato finché ha potuto, poi tutto è cambiato, il mondo ha cominciato a girare in un altro senso, tanto forte che anche quel paese se n’è accorto. E così un giorno sono arrivati con i fucili, hanno sparato a cazzo e hanno disintegrato la gamba di Francesco. Da quel giorno è zoppo, ma nessuno di noi lo prende in giro. La nostra amicizia era fatta di silenzio. Quelle degli altri sono fatte di confidenze, segreti, di lunghe passeggiate e chiacchierate. Noi ci incontravamo qui ai Paduli, sotto questo ulivo non ci dicevamo niente. Imparammo a odiare. Cominciammo con noi stessi. Pensavamo che farci del male ci avrebbe salvato o ucciso prima, pensavamo di essere fascisti, poi satanisti, poi nichilisti. Eravamo solo dei piccoli vandali. Prima delle fabbriche c’erano i cantieri delle nuove case. Noi ci spingevamo fin laggiù con le ceste piene di cuccioli e li buttavamo nel cemento fresco per vederli morire sicuri di fargli un favore. Ma forse solo i randagi erano felici dalle nostre parti. Quelli che non danno un nome al posto in cui si trovano. Gli animali non sentono il vociare del paese, non lo comprendono e nella loro ignoranza trovano la pace. Vedere i gattini lottare per la vita ci sembrava assurdo, noi che ci muovevamo in direzione ostinata a contraria, c’era nella loro disperata ricerca d’aria qualcosa che ancora non avevamo capito. Eppure anche noi ci sentivamo soffocare, ma da altro, da mani callose e anziane, da una morsa invisibile. Io non lo odiavo mio padre, mi faceva pena e questo mi faceva sentire in colpa. Decisi un giorno che non potevo sottrarmi al mio nome e presi a bere senza senso. Scoprì presto di essere allergico ai solfiti dell’alcol, me lo disse un medico dopo che mi trovarono privo di sensi ai Paduli. Lo presi come un regalo, qualsiasi cosa avrei fatto nella vita, qualsiasi errore, non sarei mai stato come mio padre, magari un fallito, ma diverso. Ci piaceva il fuoco, specialmente l’estate. Mettevamo da parte qualche spicciolo, ci spingevamo in bici fino al benzinaio, prendevamo una bottiglia di super e poi sceglievamo una campagna. Bastavano pochi istanti per vederla scomparire. Le stoppie prendevano il volo velocissime, le spighe accarezzate dalla tramontana erano un’onda di fuoco che neanche gli alberi fermavano. Sedevamo sul muro e guardavamo ardere quella parte di terra sperando di cancellarla o di trovare al suo posto, il giorno dopo, qualcosa di migliore. Avevamo fatto la scelta più difficile: cambiare il mondo intorno a noi. Non come i sognatori, come i disillusi. Facevamo cazzate per non ammettere di avere paura. Perché alla fine quello schifo ci faceva sentire protetti, ci sentivamo parte di qualcosa che odiavamo ma di cui non potevamo fare a meno. Una sera, mentre guardavo la tv, mio padre prese posto accanto a me sul divano, rannicchiò le ginocchia, poggiò la testa sulle mie cosce e si addormentò. Passammo la notte lì, dopo poco mi addormentai carezzandogli i capelli, quando mi svegliai era seduto in cucina. Se prima pensavo bevesse per se stesso da quel momento capì che lo faceva anche a causa mia. Forse perché non era in grado di darmi abbastanza, forse perché non si sentiva abbastanza. E così non aveva il coraggio di guardarci negli occhi. A me, a mia madre, a tutto il paese. Però un tempo mi abbracciava forte, mi portava sulle spalle fino in piazza per comprarmi il gelato. Poi qualcosa ha rotto tutto dentro di lui, ha fatto crollare il muretto a secco che lo teneva su. Quando io e gli altri non sparavamo con il fucile del nonno di Francesco ci chiudevamo in saletta a fumare e a sparare alle astronavi aliene. Mentre noi giocavamo ai videogiochi i più grandi si facevano di eroina nel cortile del retro. Il proprietario della sala giochi aveva capito che investire sui giovani significava offrirgli qualsiasi cosa. Era il porto franco dove trovare e provare tutto. Fu lì che un giorno comprai un coltello. Lo portavo sempre con me, mi piaceva sentire il suo peso in tasca, la lama fredda quando ci passavo sopra le dita. Un giorno incidemmo i nostri nomi sul tronco di un fico, era come se sapessimo che niente sarebbe più stato come quel pomeriggio, fu come il testamento della nostra giovinezza. Quella sera accoltellai un uomo, in piazza, al petto, lo uccisi. Davanti a tutti. Era in piedi, di fronte al tavolo dove mio padre beveva ogni giorno. Lo sbeffeggiava, mio padre ubriaco farfugliava risposte che nessuno capiva e che facevano ridere un gruppetto di curiosi. E io non ci pensai due volte, presi la rincorsa e quando gli fui sopra mirai al cuore. Quando sentii il sangue caldo imbrattarmi le mani non provai paura ma conforto. Si oppose solo per poco, poi fu silenzio, lasciai cadere il coltello. I ragazzi mi allontanarono dal corpo, mi tennero in saletta per un tempo che mi sembrò eterno. Quando tornai a casa mio padre dormiva e mia madre piangeva in cucina. La mattina quando mi svegliai trovai il coltello posato sul comodino, pulito. Quando scesi in strada era ancora silenzio, nessuno denunciò l’omicidio, avevo 13 anni. Alcuni dicono che lo seppellirono ai Paduli. Da quel giorno niente fu uguale, ora il paese intero custodiva un unico, grande segreto e tutti per un giorno ci sentimmo uniti. Il morto non l’avrebbe pianto nessuno, un vedovo senza figli con troppi soldi e troppo tempo libero. Quella morte ci liberò da quel male che ci consumava, quella rabbia silenziosa che ci faceva odiare cose piccole. Fu così che me ne andai di lì a poco, in un altrove che avevo sempre sognato e che da quel momento in poi vidi come un esilio, a casa di una zia che fece finta di volermi bene come mia madre. Ed è così, forse, che sono diventato un uomo e ho ricominciato ad amare mio padre. I miei fratelli gli hanno dato i nipoti. Io gli ho restituito il coraggio. Non ha mai smesso di bere ma da quel giorno accanto al suo bicchiere ne faceva portare sempre un altro mezzo pieno. Ho ancora il coltello anche adesso che sono tornato per il suo funerale. Quello che ho perso per sempre furono Rocco e Francesco e quella strana amicizia. Cammino per i Paduli, sono diversi oggi ma hanno conservato quel silenzio che tanto mi mancava. Ho trovato posto sotto il solito ulivo, di fronte il muretto a secco. Oggi non ho più amici con cui non parlare. ![]() OSVALDO PILIEGO LupoEditore.it #osvaldopiliego #finoallafinedelgiorno #inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare > Per non perdere nessuno dei Racconti d'Autore di Inchiostro di Puglia clicca "Mi Piace" sulla nostra Pagina Facebook
2 Comments
Nicky Persico
2/10/2014 06:13:34 pm
Bellissimo
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2/17/2014 12:27:06 am
Foto di Millenari di Puglia, scattata da Enzo Suma. Ci fa piacere che abbia ispirato questa storia.
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