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Barletta: Rino, il ragazzo della carne

6/9/2014

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1982. Quell’estate Barletta scottava come un ferro da stiro bollente, il caldo inzuppava le ossa e si stava soffocati come pulcini dentro una scatola di scarpe. Se provavi a tirare su la testa per respirare, il mondo appariva in una luce zafferano come uno scatto fuori fuoco. Paolo Rossi avrebbe infilato tre pappine al Brasile di Falcao e pertanto, le sbombardate dei ragazzi contro il portone della Cattedrale Maggiore, avevano tutti i nomi della nazionale e di quella indimenticabile stagione.

Nel quartiere vecchio di Santa Maria, le donne della Marina comunicavano da un balcone all’altro infilzando le mollette nei panni stesi all’aria, si raccontavano i fatti
loro e  loro, così dicevano,  mentre il profumo del ragù della domenica sbuffava da ogni pertugio come un treno a vapore. La povertà del quartiere in quegli anni cariava i sogni di chiunque, e l’eroina, proprio come l’acqua, si infilava dappertutto. I ‘uagnon  si facevano nei vicoli della chiesa di Sant’Andrea tra il piscio dei gatti e il ronzio delle zanzare, collassavano con le spalle al muro del carcere mandamentale oppure a dorso nudo, sopra i basolati nei pressi delle scalinate. Stavano con il naso all’insù ad ammirare le stelle, ma visti da vicino erano soltanto merce avariata. Santa Maria era il regno dei pescatori e quelli del centro non si erano ancora comprati tutti gli appartamenti del borgo antico. Il Fornaricchio, scaldava tranquillamente le teglie di pasta al forno per il popolo con gli zoccoli e nessuno, proprio nessuno, si immaginava che trent’anni dopo, da quelle parti, qualcuno avrebbe aperto un sushi bar e sarebbe andato pure bene. Tra quelle sacche gengivali viveva Rino, quattordici anni a maggio di cui tre, passati a fare il ragazzo della carne per conto della macelleria Capasso. Come un Supersantos schizzava da una parte all’altra della città per sentirsi dire più o meno la stessa cosa, “Sali, terzo piano!”, o  semplicemente, “scendo io, aspetta!” Consegnava così salsiccia di cavallo, filetto tagliato sottile  e chissà quante spangelle nei condomini della Barletta City. L’obiettivo da raggiungere era sempre uguale e valeva tutta la sua libertà: la mancia! Tra i clienti di Capasso c’erano anche i genitori dei suoi compagni di scuola, quelli della terza B Giuseppe De Nittis, gente che apriva la porta e consegnava frettolosamente il resto senza una parola. Ma Rino se ne fotteva di  tutti, lui correva e portava, portava e correva. “Signo’, a che piano?” E poi via a scorazzare con la sua bici senza freni lungo la litoranea di ponente in mezzo a pini marini, palme avvelenate e  fogna rotta. Magro come un fil di ferro e nero nero come un vermetto, se ne stava dentro la sua divisa fissa: jeans tagliati corti del fratello grande e maglietta lisa. La bici invece puzzava di ruggine sgretolata, di usato, proprio come i suoi mocassini di due taglie più in là e dalle suole logore per le mille frenate coi piedi. Sotto le ruote, uno ad uno,  i chilometri di lacrime controvento se ne andavano via veloci in una splendida passerella dinanzi al Paraticchio. Adorava rompere i coglioni a chiunque Rino, zompava il cappello ai vecchi e sputava ai rari turisti di passaggio. Ma la cosa che gli piaceva di più, era andare sul Braccio del Porto, tuffarsi dal Trabucco e restare con le mutande bagnate sugli scogli imporporati dal sole. Aveva gli esami di terza media quell’anno Rino, una meta raggiunta grazie all’influenza miracolosa della Madonna sotto al campanale, “quella con le mani alzate”, come diceva zia Rosaria, “quella che quando interviene, se interviene, lo fa in silenzio e si cuce poi la bocca!”Insieme alla Madonnina, una grossa mano a Rino era arrivata anche dal professor Spadaro, il quale non aveva mai smesso di stargli vicino e di passargli poesie. Erano versi che Rino fingeva di rifiutare ma che segretamente, riportava sulla carta della carne. Il poeta preferito dal professore era Bodini del quale Rino conosceva ogni verso a memoria, versi che Rino però, ripeteva a voce bassa, tanto per non farsi dare del ricchione dagli amici di scorribande. “Cade a pezzi a quest’ora nelle terre del sud un tramonto di bestia macellata, l’aria è piena di sangue”. Gli ricordavano il suo lavoro, forse per questo li amava così tanto. Si presentò agli esami in perfetto ritardo, con il look di sempre e il solito fare da bullo strafottente, infilò il culo stretto nel banco e con la penna poggiata sull’orecchio sinistro, si mise a fissare la commissione come si fissa un plotone d’esecuzione. Traccia: descrivete le bellezze storico artistiche della vostra città con precisi riferimenti e metafore. Partirono tutti tranne Rino. Il professor Spadaro allora, sfidò lo sguardo del ragazzo della
carne come in un film western di Sergio Leone e sparò per primo, “muoviti, che aspetti!” Per Rino fu lo start.
 
Svolgimento: 
Le bellezze storico artistiche della mia città sono assai. La cattedrale di Santa Maria Maggiore per esempio, è bianca bianca come un filetto di pollo arrostito, il gigante invece, Eraclio per
capirci,  è tutto di bronzo, durissimo come le ossa delle spangelle. Molto bella è pure la chiesa del Santo Sepolcro, so che apparteneva ai Templari. I Templari sono anche il nome del ristorante dove abbiamo festeggiato la comunione di mia sorella piccola. Davanti, la chiesa è un poco sporca devo dire, sembra lardo di colonnato affumicato. Infine sta palazzo della Marra, quello che abbiamo visto alla gita istruttiva: tiene il balcone al centro tutto riccioluto, assomiglia al macinato quando esce dalla macchinetta della salsiccia. Ma la cosa che mi piace di più della mia città è il tramonto, cade a pezzi ad una certa ora sulla terra del sud e sembra una bestia macellata. L’aria diventa piena di sangue. Fine. 

Fu una bocciatura senza appello quella che si beccò Rino, “cattivo gusto”, la sentenza della professoressa Sciancalepore, presidente di commissione che ignorò, per ignoranza, il fatto che quel figlio di puttana di Rino si fosse appropriato dei versi di Bodini senza nemmeno citarlo. Quell’anno però la scuola bocciò non soltanto Rino e le speranze del professor Spadaro, bocciò anche Bodini, di cui, evidentemente, non conosceva nemmeno l’esistenza. Ma la scuola è così, se non le assomigli ti respinge. Pochi giorni dopo, al pian terreno dell’istituto Giuseppe De Nittis di via Libertà, furono  appesi ai muri i quadri per l’ammissione agli orali. Rino, in mezzo a quella calca, riuscì a leggere appena il suo NON AMMESSO, nient’altro. Si sentì perdere fiato, svuotato di ossa e muscoli, incapace di muovere qualunque arto e immobilizzato come un moscerino dentro colla bollente.
La sera stessa il padre lo avrebbe stroppiato di mazzate col classico menù: cinghiate dalla parte della fibbia e anelli delle mani rivoltati. Quando la cosa accadde però, Rino trovò per ogni colpo, la forza di stamparsi addosso un sorriso malandrino e beffardo. I lividi in fondo, li stava spartendo con Bodini!

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TOMMY DIBARI
NonHoTempoDaPerdere

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Molfetta: Sleeping Beauty

6/2/2014

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All’una Attilio si piegò in due sul terriccio bollente, accanto ai fichi d’India. Tossì e quasi vomitò le pillole che aveva appena infilato in gola. Un fumo azzurro e denso si innalzò dalla campagna, in direzione del mare, poi arrivarono le modelle. 
Il Suv dell’agenzia le aveva caricate all’aeroporto mezz’ora prima, per poi buttarsi sulla tangenziale e imboccare l’uscita per Molfetta. Sulla strada interna, in direzione di Terlizzi, Hilde si era sporta dal finestrino per sentire più forte l’odore di catrame. Era apparsa un’edicola sul bordo della carreggiata, una Madonna fiorita dai colori incendiari, un totem – pensò Hilde– nel deserto messicano. 
Il Suv aveva voltato a destra, abbandonando l’asfalto per barcollare incerto sul sentiero sconnesso e petroso che conduceva a Torre Marcello, nella contrada di Mino. Il sobbalzare dell’auto aveva scosso Sue e Lena dal breve sonno in cui si erano assopite.
All’ingresso del casale, un cancello di ferro tenuto in piedi da un immenso muro a secco, il driver frenò di scatto e invitò le ragazze a scendere. Attilio si avvicinò continuando a tossire, il pugno sudato e grinzoso contro le labbra ritratte nel ceruleo del viso. Le osservò uscire una alla volta: il caschetto nero di Sue, le lentiggini ramate sulla pelle di Lena, il sole accecante dei capelli di Hilde. Tutte e tre pallide e prive di forme, a malapena maggiorenni. Era quello che aveva richiesto.
«È un piacere conoscerla», fece Sue tendendogli la mano, «Siamo onorate di poter lavorare con lei».
«Un grande onore», aggiunse Lena, togliendo gli occhiali scuri.
Attilio fece un passo indietro, come a volerle inquadrare tutte e tre assieme, poi chiese: «Da quanto non dormite?».
«Ventotto ore, come d’accordo».
«Bene».
Liquidò il driver e invitò le ragazze a seguirlo.
 
«Sono malato», disse, «È evidente. Sono anche vecchio, ma la vecchiaia in sé non ha importanza». 
Questo posto, Torre Marcello, apparteneva a mio padre e prima di lui a mio nonno, quando non era altro che terra, ulivi e un cumulo di sassi dove conservare il raccolto.
È esattamente quello che sto cercando di fare adesso.
Le mie foto sono state esposte a New York, Londra, Parigi, Tokyo. Sono stato premiato, gratificato, conteso, omaggiato in ogni lingua esistente. Non ricordo nemmeno i nomi di tutti i luoghi in cui ho dormito. Ma ora che sta per finire, sono tornato. Non ho avuto scelta, è qualcosa che dovevo fare. Tornare. Riderete forse, ma c’è una specie di destino, di congiura, chiamatela come volete.
Questo è l’ultimo servizio che faccio».

Le ragazze rimasero immobili a fissarlo. Non lo capivano, forse non potevano. Erano parte di un mondo in cui tutto era ancora possibile. Tanto meglio, pensò Attilio, e distolse lo sguardo, poi sfiorò col suo quello di Hilde, dietro le altre, e allora si accorse di quegli occhi nordici, disumani, impastati col ghiaccio. Due rocce fredde in cui l' incomprensione assumeva le forme terribili del rifiuto. 
«Perché ha chiesto che non dormissimo da più di ventiquattr’ore?», domandò Sue accendendosi una sigaretta.
«Vi ho pagato abbastanza».
«Oh, sì», sbadigliò lei.
«Mettiamola in questo modo: ho comprato il vostro sonno. Ora dovrete dormire per me. 
La villa è vostra. È vostro il giardino, il frutteto, il campo di ulivi oltre la recinzione. Vagate e addormentatevi dove volete. Da sole, insieme, come vi viene. Vi darò degli abiti bianchi e li indosserete, qualcosa d’impalpabile, di trasparente, i capelli sciolti. Dovrete cadere dal sonno, morire dal sonno, e io vi fotograferò allora, svenute, prima che venga sera».
«Perché?»– chiese Hilde, e furono le sue sole parole – «Cosa ha bisogno di dimostrare?».
 
Fu semplice per Sue e Lena addormentarsi nel torpore del pomeriggio. Attilio le sorprese supine accanto all’albero delle prugne, poggiate l’una sulle gambe dell’altra fra le spine dei fichi, stese sulle scale di pietra bianca alle porte del casale. Ogni foto che scattava sembrava allungargli il respiro, sollevarlo dal peso del corpo che muore, dalla paura del corpo che muore. Era questo che voleva. Sue e Lena erano così giovani e inermi, sembrava avessero disimparato il respiro. Attilio provò un brivido di eccitazione sessuale. Desiderava porre fine al proliferare inesausto di tutta quella bellezza, eternarla, guardare la morte in faccia prima che fosse lei a guardare lui, e fermarla.
Fece per accarezzare la testa di Lena, i capelli sparsi come albicocche sulla pietra, quando si rese conto che il segreto di quell’eternità rubata dimorava altrove. Hilde era in cima alle scale e lo guardava, grave. Si mise a correre verso il muro di recinzione, poi in aperta campagna, scalza, sul terreno rosso degli ulivi. Attilio la seguì a fatica, col fiato corto. La perse di vista, per poi ritrovarla piegata nella cavità di un tronco millenario, a occhi chiusi. Il segreto era Hilde.
Attilio pensò che se fosse riuscito a fotografarla in quell’istante – mentre immobile e stanca riparava la pelle bianca, cresciuta nel buio d’inverni senza fine, dal sole implacabile del Sud – solo allora si sarebbe potuto salvare.
Impugnò la Canon con la mano che tremava, la puntò verso l’albero, ma non fece in tempo a inquadrarlo. Hilde spalancò gli occhi.
«Non riesco a dormire. Non ci riesco. Mi dispiace».

L’insonnia di Hilde si prolungò fino a sera. La ragazza vagò come uno spettro finché venne il buio e Attilio continuò a inseguirla, disperato. A volte, preso dalla stanchezza e dal caldo, si sedeva su di una panchina e mandava giù una pillola dopo averla leccata, come fosse zucchero. 
Dopo cena, le modelle si chiusero ognuna nella propria stanza. Hilde era in trappola, pensò Attilio, sentendola sbattere la porta in cima alle scale. Avrebbe solo dovuto aspettare la prima luce del giorno. Sarebbe rimasto in piedi a vegliare per non correre alcun rischio, poi, all’alba, avrebbe salito  in silenzio i gradini, aggrappato alla ringhiera arancione. Sarebbe entrato  nella camera di Hilde mentre lei ancora dormiva – la finestra spalancata, i raggi polverosi del mattino – e l’avrebbe immortalata, priva di sensi e vinta, per sempre. In quell’angolo di terra, lui l’avrebbe fatta sua.
Sedette sulla poltrona, si versò del whisky da una vecchia bottiglia e aspettò, ma dovette trattarsi di una combinazione cattiva perché presto cadde in un sonno ottuso. Quando riaprì gli occhi erano quasi le cinque. Il sole cominciava a premere contro i vetri di Torre Marcello. 
Attilio infilò al collo la macchina fotografica e si precipitò al piano superiore.  
Hilde non c’era. Il letto stretto in ferro battuto, alto contro la parete scrostata, era vuoto e intonso. Le lenzuola bianche tirate sul cuscino e nessuna traccia di lei. 
Attilio tremò e guardò fuori dalla finestra, la distesa dei papaveri in fiamme. Poi si voltò. Vide le sue foto appese ai muri, foto dal valore inestimabile, incorniciate di nero ed esposte lì in fila come un crudele gioco di specchi. Le strappò dalle pareti, una alla volta, si mise a gettarle per terra, a calpestarle furioso, e più si abbatteva contro quel succedersi inesausto di memorie, più se ne sentiva circondato e oppresso, incapace di accettare la grandezza del proprio fallimento.
Se ne accorse solo alla fine, quando i frammenti di vetro avevano coperto ogni angolo della stanza. Accanto all’armadio c’era una porta murata, una di quelle porte che forse da piccolo Attilio avrebbe aperto, ma che da quando era tornato non aveva avuto nemmeno la forza di notare.
Era socchiusa. La spalancò e una scala ripidissima e buia lo condusse verso l’alto, verso un’altra porta nera. Fece molta fatica a salire fino in cima. Quando finalmente raggiunse la seconda porta, capì. La torre. Era lassù che avrebbe trovato Hilde.
 
La vide stesa, bianca, inondata dal sole. Indossava la sottoveste a fiori e le sneakers, un braccio teso sopra la testa, l’altro a sfiorare le cosce nude. La campagna di Molfetta, dall’alto, brillava nel silenzio come un mare verde. Hilde dormiva.
Attilio, accecato, rimase immobile ai piedi della ragazza. Impugnò la Canon privo di forze, poi la sfilò e la poggiò sul pavimento. Non poteva. La morte non era mai stata così tangibile. Eppure non sarebbe mai riuscito ad afferrarla, a fermare quel tempo, quel corpo, quella bellezza.
Che importa, si disse, e avvertì un dolore al petto. Tutto ciò che desiderava era stendersi accanto a Hilde e chiudere gli occhi al contatto con la sua pelle fredda.     

Quando Hilde si svegliò era ormai l’una. Le voci di Sue e Lena chiamavano il suo nome dal giardino.
Si stiracchiò e pettinò i capelli con le dita. Solo dopo si accorse di Attilio, immobile, rannicchiato come un bambino accanto a lei. Sorrise. 
Prese la Canon abbandonata sul pavimento e gli scattò una foto, inquadrandogli il viso.

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GIULIANA ALTAMURA
CorpiDiGloria Marsilio

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"Brindisi" ... per una nuova vita!

5/26/2014

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Non mi è mai piaciuto il mare. Quella massa violenta e cupa. Quel vetro azzurro che nasconde abissi muti, insidie pennellate di colori arditi. Perché sono nato in un luogo dove i monti ti abbracciano con il loro manto caldo e ti cullano intonando una nenia di foglie e di rami. 
Sono nato in un rudere incastonato fra rocce e muschio odoroso di fresco. E dall’unica finestra, ogni mattina, vedevo affacciarsi un sole timido sulla cresta scura. Quella luce polverosa e pallida sapeva scaldare il mio cuore solitario. Il profumo del latte di capra, appena munto, nella scodella sul tavolo era il mirëdita, il “buon dì”, che il mio babagjysh, mio nonno, dedicava a me ogni nuovo giorno.
Babagjysh!  Babagjysh è una parola che giunge dall’esterno e ti entra dentro saltellando leggera sulle
labbra. Poi la lingua si arrotola, la cattura, e la ingoia per condurla al cuore. Ba-ba-giysh.

A quel tempo io e il mio babagjysh eravamo una famiglia sulla Malissia in Albania. Sì, in Shqipëria, così sia chiama la mia terra d’origine e significa “Paese delle aquile”. 
Ne ho viste tante di aquile sulle mie montagne e ogni volta mi domandavo com’era vedere il mondo da lassù, con gli occhi acuti delle aquile. Chissà come si vede la mia piccola casa arroccata sul costone della collina - mi domandavo. Quella casupola fatta di pietre grigie e di legno di rovere scavata nelle rocce maculate. Quell’unico locale con due lettini, un tavolo e il camino quasi sempre acceso, doveva
apparire alle aquile come un piccolo nido a loro familiare, e noi due come due uccelli spauriti.
Addossata, sul fianco destro della casa, c’era la stalla. Un piccolo capanno improvvisato realizzato dal mio babagjysh con vecchie assi di legno. Lì dentro si rifugiavano quattro capre e due galline: l’unica ricchezza di babagjysh.
Lui mi diceva sempre – Se vuoi vivere bene, devi far vivere bene le capre. Va’, portale a spasso! – e io eseguivo. Portavo al pascolo le capre tutti i giorni. Percorrevo un sentiero accidentato per giungere ad una piccola radura attraversata da un torrente impetuoso. Mi sedevo su una pietra sull’argine del fiume e ascoltavo la voce prepotente delle acque. Consumavo il mio solito pasto, pane e formaggio, e aspettavo che il sole tramontasse prima di tornare a casa insieme al mio cane, che chiamavo qeni, cane, perché quando c’è povertà non si sprecano neanche le parole.
Quando la luce colorava di azzurro il profilo dei monti, tornavo a casa e lungo la via vedevo il fumo del camino disegnare volute nivee nel cielo bruno e sentivo il profumo della minzetra uligne me bath, la frittata con fave secche e olive che il mio babagjysh preparava. Quell’effluvio, unito all’odore intenso di legna bruciata e di stallatico, marcava la nostra dimora, ed io l’avrei riconosciuta fra mille.

Non so che mestiere facesse il mio babagjysh e se ha mai praticato un mestiere. E non so con quali mezzi vivessimo allora e se per vivere a quel modo servissero dei soldi. So solo che di tanto in tanto babagjysh scendeva al villaggio, a piedi con il suo bastone attraversando prima il bosco e poi la lunga e tortuosa mulattiera, per aiutare Donjet e la sua famiglia a impastare il pane o a uccidere il maiale. Per questo motivo in casa nostra non mancava il pane e il fërgesë, un piatto composto da carne macinata di maiale fritta e servita con formaggio e aglio, nei giorni di festa, i quali erano uguali agli altri giorni tranne il fatto che babagjysh diceva che era festa e che la nostra pietanza subiva variazioni.
La mia gjyshe, mia nonna, era morta, prima che io nascessi, di una morte sconosciuta, e babagjysh era rimasto solo con la sua unica figlia: Serina, la mia nënë, mia madre.
Serina, aveva sposato un uomo che babagjysh definiva una “testa calda” perché era un sovversivo contro il regime comunista di Enver Hoxha e con mia madre non aveva mai vissuto, ad accezione di quel frammento di tempo utile a concepirmi. Poi chissà dove lo portarono le sue idee di libertà.
C’era chi diceva che era prigioniero ... o che era morto ... o che era combattente nella ex Jugoslavia
... Certo è che nënë aveva paura della dittatura, temeva ripercussioni e un giorno decise di partire anche lei. Mi schioccò un bacio sulla fronte dicendomi - Paç fat ! - Buona fortuna!

Il giorno in cui mia madre mi abbandonò sparirono altre due persone del villaggio. Tutti, si vociferava, fuggiti in Italia.
L’Italia, come l’America, dispensatrice di sogni.
Alcuni anni dopo Donjet salì su per la montagna per consegnarci una lettera proveniente proprio dal “Bel Paese”: era di mia madre. Babagjysh leggeva che la mia nënë lavorava come cameriera in un locale di Brindisi, una calda città affacciata su un mare cobalto proprio di fronte alla nostra “Terra delle aquile”. Leggeva che nelle giornate luminose la mia nënë si recava sulla riva per vedere all’orizzonte l’Albania. Leggeva che la mia nënë riusciva a scorgere il contorno delle vette della Malissia e che, a volte, riusciva perfino a discernere la nostra casa posata sui rupi. Leggeva che in quei giorni la mia nënë mi salutava con la mano e mi inviava baci trainati dal vento. Non so se quelle parole fossero davvero impresse sulla carta di quella missiva. Non so se quella lettera provenisse davvero dall’Italia e non so nemmeno se babagjysh conoscesse i misteri della lettura. So solo che da quel giorno, con il sole con la pioggia con la neve e con il maestrale, mi arrampicavo sui colli, sulle pietre più impervie e aguzze, per urlare a mia madre - Mirëmëngjes nënë! -Buongiorno madre!
Una mattina babagjysh mi disse: - Oggi diventerai uomo.
Avevo otto anni il giorno in cui babagjysh decise di separarsi da me.
Ci incamminammo giù per il sentiero verso il villaggio e mentre scendevamo io percepivo il pericolo incombente, come i gatti prima di essere abbandonati. Babagjysh devo portare le capre al pascolo! Se non escono non fanno il latte! – dicevo, ma babagjysh non dava voce ai suoi pensieri e non dava risposta alle mie parole.
A casa di Donjet c’era un giovane proveniente da un altro villaggio, diretto in Italia, proprio a Brindisi, quella misteriosa città che nascondeva mia madre dalla paura e dalla povertà.
E la nascondeva anche a me.
Il ragazzo aveva il compito di portarmi con lui in quel viaggio di fortuna, e aveva il compito di fare di me un uomo coraggioso. Ma io non ero ancora un uomo. E non ero coraggioso. Io avrei dovuto essere felice, avrei rivisto la mia nënë e invece piangevo di un pianto inconsolabile, tanto che babagjysh fu costretto a prendermi a schiaffi.
Budella! Budella!  Stupido! Stupido! – gridava – Vuoi fare la mia fine? In un Paese senza libertà non ci può essere ricchezza e in un Paese senza cultura non ci può essere futuro. Va’, e non ti voltare indietro. Questo posto non merita rimpianti e non pensare a me che sono vecchio. Pensa a te e ricordati Zoti vonon por nuk harron!  Dio tarda ma non dimentica!
Era la prima volta che babagjysh pronunciava il nome di Dio. Non era mai entrata la preghiera in casa nostra perché prima, quando c’era il regime, era vietato pregare, poi la gente si era dimenticata di farlo e aveva lasciato i Santi fuori dalla porta di casa.

Camminammo per giorni, io e Mikan, attraversando tutta l’Albania da nord a sud a piedi o con qualche passaggio di fortuna su furgoni iperaffollati. Conobbi mondi a me estranei. Vidi miseria, disperazione, fame, dolore, fucili, polizia, morti, mutilati, ladri, donne, vecchi, bambini. Dormimmo di giorno nascosti in bunker abbandonati e pieni di escrementi di ogni genere e viaggiammo di notte seguendo rotaie infinite.
A quel tempo non c’era dittatura ma era comunque vietato lasciare il Paese.
Poi, lo vidi.
Eravamo appena scesi da un camion e ci eravamo nascosti dietro un casolare disabitato ad aspettare.
Prima ne sentii l’odore forte che mi bruciava le narici, sembrava il piscio di un animale di grossa taglia. Poi, quando una luce in lontananza iniziò ad accendersi e a spegnersi ad intermittenza, Mikan mi afferrò per la maglia e mi trascinò fra rovi proprio di fronte a lui.
Era immenso, cupo, e tossiva con una voce roca da far paura. Cos’è? – domandai.
-Budella, è il mare!

In quel momento dai cespugli uscirono centinaia di ombre, corpi bui che si spingevano e scontravano imprecando. Salimmo tutti su una barca che ci portò al largo dove braccia e mani ci afferrarono per accoglierci su un grosso peschereccio sgangherato.
Mi voltai verso la spiaggia e con lo sguardo abbracciai la mia Shqipëria perché sentivo che da quel viaggio non avrei più fatto ritorno. Non avrei più rivisto il ventre gonfio e rugoso delle mie montagne e non avrei più sentito il fiato fresco dei boschi soffiarmi sulla ciglia come faceva il mio babagjysh quando piangevo: fffffff...
All’alba una terra dal ventre piatto mi attendeva. La bianca città ridente di sole mi avrebbe offerto il suo seno per farmi rinascere una seconda volta. Forse. O forse, mi attendeva, la culla perenne degli abissi muti del mare.

(Nel 1991 iniziarono i primi sbarchi di albanesi sulle coste pugliesi e da quella data per oltre tre anni la Puglia fu terra di speranza, di pace, di libertà e di fratellanza. Una moltitudine di giovani volontari accolse per un lungo periodo i fratelli albanesi portando loro cibo, abiti e un caloroso benvenuto).

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ANTONELLA CAPRIO
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L'amaranto Speziale

5/19/2014

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La terra rossa e le foglie di ulivo verdi.
Fin da bambino giocavo con la scatola dei colori e usavo l’amaranto per disegnare la terra, poi lasciavo una sospensione bianca e quindi in alto sul foglio usavo il celeste per colorare il cielo.
Ma terra e cielo si toccano, mi faceva notare la maestra dell’asilo, un luogo in cui misi piede per errore solo una manciata di giorni.
No, in mezzo ci sono gli alberi e la campagna, rispondevo. E c’è anche il mare, mi affrettavo a aggiungere.
Certo, ribatteva lei, però tu non li hai disegnati.
Non c’è spazio sul foglio, chiudevo la discussione e restavo a fissare l’amaranto.
E poi la terra non è così rossa, insisteva la maestra mentre mi allungava un marrone spento.
Amaranto, la correggevo io che avevo imparato quel colore da mia nonna.

Ancora oggi quando percorro la provinciale 9 che scende da Cisternino fino a incrociare la vecchia statale 16 ho un sussulto: vorrei chiamare la maestra d’asilo e mostrarle che la terra non è marrone, non ha quel colore smorto tipico dell’argilla, che tende a ingrigire come il passare del tempo. No, è di sicuro amaranto, o rossa? Non sono mai stato capace di scegliere Pantone o Rgb corretti o di definire con precisione colori e sfumature cromatiche. Per esempio alla parola “indaco” di solito ho un capogiro, poi penso che azzurro andrebbe benissimo e mi riprendo.
Eppure la terra che mi circonda mentre scendo in macchina verso il mare è amaranto, o perlomeno a me piace definirla tale: terra amaranto. Il verde di quegli ulivi che si aggrovigliano imponenti su quelle campagne danno una combinazione di colori che persino Gucci impallidisce. Quando splende il sole il riverbero e l’intensità della luce sul parabrezza tendono a accecare, e servono occhiali e parasole.
Arrivo alla curva che immette sulla vecchia statale 16, lascio a destra il bivio per Speziale e giro a sinistra. Percorro immerso nell’amaranto un breve tratto di statale, poi prendo la provinciale 7 e attraverso Pozzo Guacito o Faceto o come lo si vuole chiamare. Quattro case sui lati della strada, un benzinaio e poi la chiesa della Madonna di Pozzo Guacito o Faceto. Quella chiesa la chiamo da sempre “la messicana”, o se si preferisce la “californiana” – è uno spiazzo perfetto per girare un vecchio spaghetti western, il sole a picco a mezzogiorno, il bianco che domina la scena, la campana a vista, il nulla intorno.
Poi tornano gli ulivi, e la terra.
Abbasso il finestrino dell’auto perché il sole ha riscaldato troppo l’abitacolo e non ho voglia di accendere l’aria condizionata. Su questa strada che andrà a incrociare la via Appia antica, che costeggia il mare, ho ambientato il mio primo romanzo, esordio di terra di origine. E oggi ripasso da questa strada dove Francesco cercava disperato Giulia.
Avevo costretto Francesco su questa strada, in pieno maggio, lo avevo fatto scendere fino al mare, a cercare la sua donna sparita nel nulla fra la Taverna di Santos appena fuori Torre Canne e la Forcatella. E oggi percorro io ancora quella strada, fra la terra amaranto, gli ulivi imponenti, attorcigliati come Pier delle Vigne, e il blu intenso del mare (o si deve dire indaco?), quell’Adriatico porta di Levante, la mia costa orientale.

Forse sarà per questo, sarà colpa dell’Oriente, del sole che da qui sorge che la terra si è macchiata  rossa.

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FERNANDO CORATELLI
"La resa" PaginaFB

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Caterina va a Martina

5/12/2014

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Non sappiamo mai quali sono i giorni cruciali della nostra vita, quelli che cambieranno per sempre il corso degli eventi: per fortuna o purtroppo, è sempre così.
Caterina camminava per Martina Franca, da sola, gli occhi levati al cielo e la sua Reflex nella mano destra. Era salita sul primo treno in partenza, spinta dalla volontà di lasciarsi tutto alle spalle almeno per un giorno ed in quel momento Piazza Plebiscito era l’unico posto al mondo in cui ebbe la sensazione di sentirsi accolta e protetta.
Voleva trovare qualcosa da ricordare, da portare con sé e custodire con cura: qualcuno, un giorno, le aveva detto che il bene più prezioso che possediamo è noi stessi e Caterina sapeva che quel “qualcuno” le voleva bene.
Passeggiava per i vicoli del centro storico di Martina Franca e il silenzio di quelle strade la rapì: il mondo parve essersi fermato tra i suoni e gli odori di quella vita semplice, cristallizzato nei sorrisi dei bambini e nei bonari rimproveri delle loro mamme, nei balconi fioriti e nelle case imbiancate a calce.
Aveva da poco superato il più vecchio bar della città, catturata dal bacio passionale di due giovani amanti e fece attenzione a non indugiare troppo con lo sguardo.
I baci sono così complicati: a volte sono promesse, altre volte sono addii.
Si dovrebbe essere sempre pronti a partire, per risparmiare le presentazioni e non rischiare di perdere il lieto fine: questo, almeno, era ciò che pensava in quel momento.
Immortalò i due giovani ragazzi con la sua Reflex e proseguì verso la Basilica di San Martino: altri due scatti, altri due momenti rubati al Tempo e al Domani.

Lui era in piedi, la suola della scarpa destra aderente al muro, un buffo cappello di lana grigio e la sua Marlboro stretta tra l’indice e il medio della mano sinistra.
Caterina sfuggì il suo sguardo, lui trattenne a stento un sorriso abbozzato.
“In vacanza a Martina Franca?” 
“Sì”
Il ragazzo annuì, si morse il labbro inferiore e si fermò ad ammirare la Basilica.
“Abbiamo tante chiese meravigliose:  la Chiesa del Carmine, la Chiesa di San Francesco ... ma questa è la mia preferita!”
Caterina annuì e pensò che un altro scatto potesse servire a mitigare l’imbarazzo.
“Sai, la gente che viene qui non sa mai a quale provincia apparteniamo. Alcuni dicono Brindisi, perché sanno che Cisternino è a due passi, ma la carne qui è molto più buona, te lo assicuro.  Altri, per via dell’accento o del prefisso telefonico, ci scambiano per baresi. A volte qualcuno ci considera persino salentini e la cosa non mi dispiace affatto, adoro quella terra”
"Siete un incidente geografico” commentò Caterina, senza guardarlo
“Già, lo penso anche io. Ma ti assicuro che ovunque tu vada, troverai sempre qualcuno che è passato da qui. Magari per un caffè laggiù al bar Tripoli, forse per uno spiedino di bombette impanate, magari semplicemente per una passeggiata sul Corso ... lo chiamiamo “Lo Stradone”, lo sapevi?”
“No”
“Non preoccuparti. Sapessi quante cose io non so ancora di questa città ... vorrei scappare”
“Perché non lo fai? Non avrai più di venticinque anni”
“Perché poi ritornerei. Succederà anche a te”
Caterina sorrise e realizzò che aveva ripreso la sua camminata da qualche secondo; il giovane era al suo fianco, una presenza che all’inizio le aveva trasmesso inquietudine ma che adesso iniziava ad apprezzare.
Quel ragazzo sapeva di Casa.
Nessuno è felice da solo, lo aveva capito nel corso degli anni.
“Vivi qui?” 
“Sì. Sono cresciuto fuori città, ma poi mi sono trasferito nel centro urbano. Meglio così, le campagne martinesi sono infestate dai Lauri, non lo sapevi? E poi, non c’è mai un  parcheggio. Sono sempre tutti in macchina, corrono da una parte all’altra senza una meta”
“Più una persona va di fretta, più non ha alcun posto dove andare”
“Dici sul serio?”
“Certo. Chi passeggia lentamente, come te, lo fa perché è sereno. Ha un posto dove andare. Ha qualcuno che lo aspetta a casa ... o perlomeno, in un luogo che può definire così”
Il ragazzo sorrise e tacque.
“Dove vanno tutti quelli che non sono in macchina?” domandò Caterina
Il ragazzo si strinse nelle spalle, gettò la sigaretta ed infilò le mani in tasca
“Molti adorano correre” rispose infine, guardando davanti a sé la Porta di Santo Stefano.
“Ho letto da qualche parte che spesso la gente ama correre per colmare un vuoto nel petto, la sensazione di aver perso qualcosa ... o qualcuno”
“Può darsi. Qui solitamente lo fanno in zona Pergolo, dove ci sono le scuole, i Residence e i centri commerciali; le macchine sfrecciano ad una velocità così elevata che spesso chi rischia di perdere qualcuno sono i familiari dei corridori”
“Ognuno fa ciò che ritiene opportuno per cercare di essere felice”
“Già”
Caterina si fermò accanto alla fontana in Piazza Roma e cercò una monetina nella pochette.
Tutti hanno sempre un desiderio da esprimere.
Il suo accompagnatore salutò distrattamente qualche giovane diretto alla biblioteca comunale, guardò
l’orologio sul display del suo Iphone e si chiese quanto potesse risultare invadente proporre un caffè a quella misteriosa sconosciuta.
Lei non si curò di lui e proseguì con le sue fotografie.
Oltrepassarono l’Arco e Caterina si fermò proprio al centro della piazza. Fotografò i quattro angoli e non fece caso alle prime gocce di pioggia; il giovane accanto a lei fissò il cielo terso e rifletté sulle parole giuste da usare.
Proprio quando ritenne di aver selezionato con cura gli estremi della sua proposta, Caterina gli scattò una foto.
“Ehi ..! Ma ... che fai?”
“Volevo ricordarmi di te”
Per la prima volta da quando i loro avversi destini si erano sfiorati, Caterina sorrise.
Quel sorriso portava con sé qualcosa di buono, un’immagine calda e familiare: il giovane replicò goffamente, una smorfia disorientata ed incerta.
“Adesso devo andare. Grazie per la tua breve compagnia”
“Io ... non so neanche come ti chiami ..."
“Meglio evitare le presentazioni. Si risparmia sugli addii”
Non ebbe tempo di ribattere, ma non sarebbe stato in grado di formulare un pensiero di senso compiuto.

La giovane turista riprese il cammino e si diresse verso la Villa Comunale, senza mai voltarsi ma sapendo di avere gli occhi di quel ragazzo puntati su di lei. 
Poco dopo, i suoi occhi si sarebbero persi nella bellezza sconfinata della Valle D’Itria : Martina Franca ne avrebbe ospitato il Festival annuale e, forse, lei vi avrebbe fatto ritorno.
Venne la sera e le trattorie del centro si affollarono di turisti ed avventori di tutte le età, mentre un giovane uomo cercava se stesso negli occhi verdi di una misteriosa ragazza. 
Prima o poi, ne era certo, lei sarebbe tornata.

* FOTO: Carlo Carbotti

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DAVIDE SIMEONE
Davide Simeone FB

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Taranto all'alba

5/5/2014

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Le cinque e quindici. Settembre pieno. All’apice, sul Ponte che Punta una Penna ad arco come bilancia sugli eventi, un uomo, sprofondato nei suoi settantacinque anni, fa sfera al suo e al tempo del giorno che comincia.     
Ritto, con le mani strette al ferro della balaustra, sente l’odore amico del mare salire a commuoverlo negli occhi. I rintocchi dei secondi non trovano spazio nella testa libera dagli affanni.
Era stato un bell’uomo, e lo è ancora malgrado la stupida età, insignificante particolare che non incrina il suo amore per la vita la cui essenza sono state le donne. Aveva passeggiato nei letti come sui marciapiedi; con eleganza, gentilezza, talento e, soprattutto, rispetto. Aveva esercitato l’amore dove il sentimento si faceva carne, riuscendo a renderlo credibile. Si specchiava negli occhi provati delle amanti e vi lasciava la propria immagine. Le salutava col gesto usuale di una carezza sulla fronte per scostare una ciocca di capelli. “Au revoir” sussurrava arrotando la erre.
Il francese, lo chiamavano. 
Era nato in un bordello, nella città femmina per natura, posseduta dalla storia. Amante. Adesso era sdraiata davanti allo sguardo profondo del francese. Lo aspettava.     
L’uomo si era accorto che avevano abusato di lei, non le avevano usato la misura minima di una carezza sulla fronte, anzi, l’avevano stuprata. Anche i facili costumi possono essere strappati e fatti a brandelli dall’insulso coito di un ignorante e rozzo cercatore d’amore. E molti lo avevano fatto impunemente, lasciandola svilita nel fisico e nell’anima. Da tempo, ormai.
L’aria rasata di fresco deterge la faccia del francese, praticata dal tempo, in ogni lembo. Umana. L’uomo guarda la città nella sua interezza, da ponte a ponte, da luce a luce. La vede tremolare e spegnersi a sfumature di buio nel giogo capace dell’aurora. Alba, come le tante ammirate dopo le notti spese a curare il piacere remoto nel corpo di una donna. Alba, ora, respirata con la rassegnata disperazione dell’ineluttabile.  
Si volta. A est il sole sta arrampicandosi all’orizzonte. Lo sente ansimante nella salita, stordito da un’inusitata timidezza. L’uomo ritiene esista un esempio d’umanità nell’infinito, ma gli individui mortali della sua città non erano stati attenti alla lezione.
Lui sì, l’aveva imparata, a modo suo, la lezione, scegliendo il ventre di una donna come alveo di estrema umanità. Le donne gli avevano insegnato la vita e il rispetto che questa comporta. L’essere nato in un bordello aveva mutato in blu il suo sangue. Ossimoro, più che paradosso. Era riuscito nella strenua alchimia che fa della bellezza un bene completo, duraturo.     
Ormai, la città era animata da figli, figliastri, figli illegittimi, amanti che dell’ambiente respiravano l’aria viziata. Individui, la cui fatiscenza di pensiero si aggrappava al piacere istantaneo, che perseguivano la
noncuranza verso se stessi e gli altri, che adottavano l’egoismo e la mancanza di rispetto in un qualsiasi rapporto.     
Si calpestava l’amore. L’amore, anche lo spicciolo, veniva privato del residuo valore a cui, volendo, col minimo sforzo, si poteva dare consistenza. Ecco cosa erano diventati i concittadini del francese; fruitori dell’effimero, rassegnati al respiro corto di un amplesso sbrigativo e volgare.  
Non contemplavano la disperazione, non ci arrivavano col pensiero ampio. Erano rotti al centro e ci passava aria senza valore, infetta, tutt’al più.  
Pensa, il francese, che neppure un bordello, nell’accezione più spregiativa, sarebbe stato così moralmente malato come la sua città. Stringe i pugni con forza al ferro della balaustra che argina il vuoto sopra il mare. Respira profondo nell’intento di acquietare la disperazione limpida dei suoi occhi. Si volta ancora a guardare l’ombra chiara al seno di mare più piccolo del Piccolo. 
Il francese è sospeso tra nascita e morte. Sta all’alba.     
Alba dichiarata che va a scalare, nei due versi contrastanti, ogni santo giorno, le speranze degli uomini di buona e cattiva volontà. Alba sovrana a cui il francese aveva sempre fatto da giullare divertendola coi giochi essenziali dell’esistenza. Le rendeva onore. Alba.
C’era stata scarsa volontà di emergere, nell’indole, assuefatta al minimo, dei suoi concittadini portati di natura a scegliersi il versante a decrescere dello scalare. In pratica, si lasciavano vivere, immobili, indolenti.
Il francese avverte un calore soffuso alle spalle e sa che l’opera sta ricominciando con l’abbaglio del Riflettore. Non gli rimane molto tempo per mettere in atto ciò che ha in mente. Sarà un atto unico da rappresentare in totale solitudine per la regale spettatrice; la sua città.
Il congruo silenzio sta riducendosi a manciata spicciola, corroso dal rumore delle macchine che a brevi intervalli scorrono sul ponte. Dai finestrini spuntano occhi curiosi e titubanti nell’ammirare il francese al limite dell’universo. Il calore si alza di un tono e dà spinta all’attore. L’uomo si accosta alla balaustra, ma lo sguardo è perso nell’attenzione massima volta alla spettatrice sonnacchiosa scossa da sussulti di risveglio nelle arterie. Si spengono le luci. Tutte. E salgono i respiri velenosi esalati da chi le sta attorno e continua a offenderla.
L’ombra del sole scalda il rimasuglio della notte agli angoli delle periferie dove i Tamburi si fanno lamentosi nel cupo battere delle ore a crescere. Sale costante, nell’uomo, la voglia di piangere nel pensare ai pascoli sterminati della sua verde età, al blu cobalto del suo mare, al profumo della vita che si camuffava d’eterno. Sale il dolore, si scioglie negli occhi celesti.   
Nitidi nella memoria riappaiono i vicoli, le viuzze della città vecchia dove ha imparato l’amore e se l’è fatto spiegare dalla manualità acerba e saggia delle donne, nell’umidità di salsedine affissa ai muri. Sente, nel respiro fattosi acuto, le suggestioni e il suo proposito vacilla.    
Rivede, oltre il Ponte che gira, le strade nuove di fresco e i suoi vestiti dal taglio scelto, sempre di bianco, posati con estrema cura nei salotti di classe, prima di entrare nelle camere da letto. Rammenta quando, nelle sere di malinconia, si incaponiva nel visitare i quattro punti cardinali della città, sulla sua vezzosa 850 coupé bianca. Ci andava per delimitarne i confini e sognare un mondo da costruire, presago di affascinanti scoperte. La città gli sembrava appesa all’infinito e lui ne faceva il fulcro.    
Se la sentiva addosso e dentro, la visitava, la possedeva, la percorreva, l’amava, ne conosceva ogni angolo, anche il più remoto. Era il bordello che frequentava onorandolo con la propria classe. Il suo bordello.    
Adesso, dall’ultimo Ponte nato dopo di lui, non riconosce il posto. Si sente estraneo all’andazzo sudicio del tempo attuale. La città non è più sua, e se ne andrà indisturbato prima di vederla agonizzare. Ma è ancora bella. Molto. Là, stesa ad aspettare che il sole la scopra nuda per farsi amare ancora e nonostante tutto.     
Sale sulla balaustra, a fatica per raggiungere un equilibrio serio che non guasti la sua ultima rappresentazione in onore della spettatrice massima, col vento di mare a soffiargli la vita, mentre, alle sue spalle, il sole sta per staccarsi dall’orizzonte.     
Sente voci vicine, vede navi, sotto, ormeggiate, nessuno lo piangerà, nessuno si accorgerà della sua mancanza. Il volo, poi l’acqua, il freddo, il niente. Sarà così a galleggiare prima di essere ripescato e ricondotto agli uomini.     

E’ pronto. L’ultimo sguardo alla sua martoriata città. Se ne vuole andare con quell’unica immagine affissa agli occhi celesti. “Mamma” mormora. La parola che non ha mai detto, né mai conosciuto. La prima e l’ultima. L’unica per tutti. Mamma. Stringe le palpebre così forte che le lacrime gli schizzano al vento. Respira e sente due mani delicate e forti afferrargli le caviglie. Si volta e  scontra, già sconfitto, lo sguardo di una donna. Ha gli occhi di miele e i capelli di  grano.
“Scenda, per cortesia, scenda.” Dice con tutta la dolcezza possibile.
Il francese resta a fissarla, incredulo. Pensa che la donna è la speranza dell’umanità, lui le conosce bene, le donne. C’è speranza, dunque. Si capacita e scende sostenuto da altre mani protese. Ci sono tutti; uomini e donne che lo accarezzano, lo rincuorano strappandogli un sorriso.    
Spalle alla balaustra, incontra gli occhi di miele che sembrano chiedergli: perché!?
Non risponde, ma è felice. E lei lo sa. 
Il francese sente la speranza nell’alba nuova accesa dal sole ormai libero.

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PIETRO FRENTA
IlLabileEqulibrioDellaPedina

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Sulle sabbie della Murgia

4/7/2014

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Oggi, 5 luglio 2026, compio tredici anni e mio padre mi  ha promesso un regalo “insolito”.
Gli avevo chiesto una collana elettronica. L’ultimo modello della MicroShift pesa solo venti grammi ed è un gioiello hightech: microcamere al plasma e nano-computer quantistico, comandi vocali e collegamenti immediati via Internet, anche con la stazione spaziale e la Base sulla Luna. Può prenotarmi per un dialogo con gli astronauti in volo verso Marte, materializzarmi sulla retina immagini tv o dati di archivio e pagine di testo, improvvisare per me videogiochi ottici casuali, crearmi finte identità, e così via. Costa un tantino, ma papà... 

La porta si apre, dev’essere lui! 
— Giulio, alzati — dice papà abbracciandomi. — Auguri, oggi andiamo a prendere un regalo speciale. 
Mi bacia anche Tecla, la mia giovane madre adottiva che è un clone della mia vera madre quarantenne, divorziata da papà. Tecla è identica a mamma però la considero più un’amica. Mi preparo e usciamo, tutti e tre. 
— Sarà una vera sorpresa — dice papà. 
Tecla ride, forse sa già. Io fingo indifferenza. Entriamo nella mini-auto, papà imposta il tragitto, la vettura parte con un leggero scatto. Sono sorpreso: 
— Come mai andiamo fuori Bari?
Silenzio. 
La temperatura esterna è sui 50 gradi, come al solito. È domenica e la città sembra un deserto. 
In silenzio, trascinata dal mono-binario magnetico sotto l’asfalto, l’auto sparata supera la periferia, siamo sui 170 orari. La temperatura aumenta e i vetri si auto-opacizzano, è il minischermo a mostrarci l’esterno. 

Arriviamo alle pendici della Murgia e cominciamo a salire. Le colline sono totalmente spoglie, con rari alberi rinsecchiti qua e là e nessuno si decide ancora a tagliarli. Il terreno è scuro, pietroso, solcato da crepe. Poco dopo in fondo al nastro d’asfalto intravvedo le cupole e il minareto di Zawilah, il paesino costruito da una delle comunità arabe pugliesi.
So che ne creeranno altri, in Africa la temperatura ormai arriva a sfiorare i 70 centigradi. Parcheggiamo in una piazzetta con palme e un minareto, scendiamo e ci inoltriamo fra case basse in un dedalo di viuzze, finché papà si ferma davanti a un grande ingresso ad arco. 
— Vai. 
Entro, e vedo un dromedario. 
— È tuo. — Papà parla in arabo con un certo signor Maliq, immagino contrattino costi e il parcheggio dell’animale. Ma accidenti! La collana-computer sognata da tanto tempo...
— Sali! — mi dice Maliq ridendo. 
Mi ritrovo a cavalcioni sulla bestia e con la mente sono già... via! Lanciato sulle sabbie e le dune desertiche della Murgia, verso l’interno, ricco di strane avventure e di mistero.

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VITTORIO CATANI
www.fantascienza.com/blog/vikkor

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Ultima fermata Japigia

3/31/2014

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“U' giò uè fà app'ccià?”. 
La voce e il botto sul finestrino mi arrivano talmente all'improvviso da farmi saltare sul sedile. Pure la sigaretta un altro po' mi vola dalla bocca. Al semaforo di via Caldarola staranno quindici macchine incolonnate. Più la mia Seicento. Che poi non è mia. E' di mia madre. Ma a quella mica glie l'ho detto che la prendevo. Figurati. Da quando ho avuto il tamponamento quest'estate sulla complanare, è diventata petulante. Lo fa per farmi sentire in colpa, io lo so. Ma tanto mò ho imparato. Aspetto le sette, la faccio cenare, poi le accendo Radio Maria e non appena si addormenta, zitto zitto me ne esco. Perciò quando ho sentito quella voce mi sono preso uno spavento. Mica ché poteva essere lei che mi sgamava a fumare nella sua macchina. No, quella, poveretta, sta allettata. Non si può manco muovere per andare al bagno. Fortuna che ha me che la posso aiutare. Però lo stesso a sentire sbattere sul finestrino in quel modo, mi sono preso paura. Mi volto appena per vedere con la coda dell'occhio l'ombra che mi si è affiancata a chi appartiene. E' quasi buio, ma sotto il giallo dei lampioni vedo comunque due figure agitarsi su uno scooter. Che cazzo vogliono? Mi stanno attaccati. Mi aggiusto il cappellino a visiera sulla testa pelata e faccio finta di niente. “Auè, capellon'. E c' si 'nghiummat?”, sento gridare più forte. Guardo il semaforo. Ancora rosso. Una leggera pioggerellina sta iniziando a coprire il parabrezza. Accendo i tergicristalli. Ma quelli insistono. "Oh, maccaron', a te stong a disce...".
Quello seduto dietro si continua a sganasciare dalle risate e sbatte pacche sulle spalle di quello che è alla guida. Poi un'esplosione sorda e una pioggia di vetri mi scoppia addosso. Il semaforo è diventato verde. Tutti ripartono. Quelli schiamazzano. Io sento il cuore che mi schizza in gola. Madò la macchina di mamma. Scendo.
 
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“Và, fusce tr'mon'... Pass' che iè giall'”. Urlo tirando le maniche del giubbotto di Balotè mentre si mette a fare lo slalom fra le macchine che si vanno fermando al semaforo oramai rosso. Ma quello per tutta risposta inchioda, al posto di accelerare. Nella frenata gli frano addosso. Gli tiro una calata sulla nuca. “L' murt d' mamt'. Mo' ma da fà cadè”. E scoppiamo a ridere con le lacrime. E' da stamattina che stiamo a ridere. Mò, oggi stiamo stonati di brutto. Il fratello di Balotelli sta accavallato, se la fa con quelli di San Pasquale e tiene certa roba che te ne devi scappare. L'altro giorno a Japigia pure gli olandesi stavano da lui a comprala. Oh, gli olandesi, non so se mi spiego. Balotelli si chiama Nicola in realtà ma a Bari lo conoscono tutti come Balotè perché c'ha la pelle talmente scura che pare un negro. E poi è malamente, proprio come a Balotelli. “Oh, aspit. Di folla vai?'”mi fa. “Famm' app'ccià na sigaretta”. Si fruga nelle tasche. Niente. “A te 'u so dat'?”, fa sganasciandosi dalla ridarella dopo due secondi che mi fissa. C'ha gli occhi rossi rossi che pure se è sera pare che s'appicciano. Non ce la faccio a vederlo combinato così. Gli esplodo a ridere in faccia pure io. “Eh, rid 'mbacc' o' cazz!”, mi fa lui con le lacrime. “Uè dà l'accendino?”, prova a dirmi serio prima di scattare con la testa in avanti fermandosi solo a due centimetri dalla mia fronte “Mò ti 'a dà nu tuzz'”. Ricominciamo a spintonarci che un altro po' ci cappottiamo col motorino. “Oh, e non u' teng'”. Mi giro. Accanto a noi c'è una Seicento color merda. Il cristiano dentro sta fumando. “Auè”faccio a Balotelli, “Add’mann' a cud', sta a fum u vì?”. Balotelli si gira e bussa al vetro della macchina. “U' giò uè fà app'ccià'?”.  
Quello fa come se non ci vede. “Balotè, surd iè” faccio a sfottere, nell'orecchio a Nicola. Quello manco a dirlo subito si appiccia. “Auè, capellon' e c' si 'nghiummat?”, fa subito facendomi quasi pisciare sotto dalle risate. Quello dentro s'aggiusta il cappello e ci caca a spruzzo. “Oh, maccaron', a te stog a disc'...”. Balotelli già con la faccia impicciosa che non è più tanto da scherzare s'è abbassato per guardarlo bene dentro la macchina. Poi tira all'improvviso un cazzotto al vetro mandandolo in frantumi. Sento l'esplosione del finestrino che scoppia. Mudù, penso mentre la scossa di adrenalina mi arriva di botto dietro alle orecchie. Il cristiano col cappellino esce dalla macchina.

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Mi vien da piangere. Sento i vetri in frantumi sotto le scarpe e l'aria fresca avvolgermi le narici. C'è odore di frittura che viene dai condomini vicini. Madò, e mò chi glielo deve andare a dire. Guardo il buco nel vetro e mi prendo la faccia tra le mani. Che abbiamo pure litigato stasera che quella è capa tosta e sta sempre a dire che a quarantadue anni mi vuol vedere sistemato, che mi devo trovare una brava femmina, un lavoro. See, che altro? Ho detto io,
e se me ne vado io a te chi ti deve venire a pulire il sedere? Tua figlia che non t'ha mai acchiamendato in faccia?. Non l'avessi mai detto. S'è offesa e ha cominciato a dire che io a quella manco la devo nominare che tiene i guai suoi. Lei tiene i guai suoi?, ho detto. E i guai miei, mà? I guai miei chi cazzo se li deve piangere? Poi, per non far vedere che mi stavano a uscire le lacrime, ho preso e sono sceso. Che io poi una femmina l'avevo pure trovata. Carmela si chiamava. Faceva la barista al bar Iorio, quello pieno di rimmati che giocano alle slot. Ma mamma non tanto la poteva vedere. Diceva che non era seria a lavorare fino alla notte tarda, sempre in mezzo ai maschi. Che qualcosa prima o poi vedevo se non usciva fuori. Oh, mica glielo avevo detto a mamma che aveva avuto ragione. Che l'avevo sgamataun pomeriggio a fare la scocchiata con quell'avanzo di galera di Mincuccio. Non l'avevo portata più a casa e lei non m'aveva chiesto più niente. Così era finita la storia con Carmela. Ma mò... 'sti due trimoni, la macchina di mamma, vedi un poco alla madonna, vedi.
 
4 
 
“Balotè, l' murt tu. C' cazz' si c'mbnat?” Faccio subito veleno pensando a tutta la roba che teniamo addosso. “Avessa chiamà la madama mò, cud”. Stavamo tanto belli e in grazia di dio oggi. Mocca a Balotelli e a quanto jè n'rvus. E l'ho fatto pure chiavare a bestia stamattina. Che la Rossa stava come alla cagna. Gnuc gnuc gnuc. Mò, uagliò che servizio che c'ha fatto. Forse che a lui l'aveva fatto fare subito e per quello gli era salita un poco la nervatura. Cud' fasce u' uà uà ma la ciola non è che la tiene grossa come a quella mia. Che a me la Rossa me l'ha detto che pure che lui è il boss, a chiavare sono meglio io. Mica però che a Balotelli glielo sono andato a dire. See. Quello capace che la prendeva alla Rossa e la sfraganava di mazzate, sana sana. E dopo pure a me. Ma mò, dico io occorreva a fà tutt' stu casin'?. Co tutta 'sta cazzo di roba addosso che c'abbiamo. N'cul alla razza so'!
“Balotè. Sciamanin'. Fusce. Sint' a mè. Lassa perd' a cud. Mò appena diventa verde, piglia e scappiamo!” 
  
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“Uagnù e mò, come la mettiamo col finestrino?” 
Quello seduto davanti è alto e c'ha la faccia cattiva. Forse manco diciott'anni tiene. Ma questi sono addestrati come le bestie. C'ha la testa appuntita come quella di un dobermann, tutta rasata ai lati e la cresta come si usa mo'. Sopra due occhialoni da sole enormi bianchi. Sta fuori di brutto, da qua si vede. Non appena mi alluma si gonfia come un pavone. Sta per aprire quella fogna di bocca ma non glie ne do il tempo. La spranga che ho dietro il sedile l'ho presa prima di scendere, nascosta dietro l'avambraccio. Gliela cavo nell'occhio, così, dritto per dritto, e mò vediamo chi cazzo è il cattivo qua dentro. Ecco a che cosa serve mà, che ogni volta che viaggiavamo mi dovevi fare una testa così. E a che ti serve st'arnese mò? Vedi se ti dovesse fermare la polizia e te la trova nella macchina. Nella mia macchina. Ecco mà. A questo serve. Mò l'hai capito? E intanto sento la mia voce rimbombarmi nel petto e nelle tempie. “E mò? E mò? E mòòòò? T''è passata la voglia eh? T'è passaaata??”, glielo grido in testa, con tutto il fiato che c'ho in corpo. “Che la macchina non è mia... è di mia madre, si capit? E' di mia maaadreeee”.Quello dietro intanto con la coda dell'occhio l'ho visto schizzare via dal motorino e dalla mia vita come una zoccola di fogna e sparire sotto la pioggia. E intanto caccio la spranga da dentro l'occhio e gliela riconficco fino in fondo. Una, due, tre, cento volte. Sento la materia vischiosa che mi imbratta la mano, il polso, un unguento caldo come maionese che mi schizza in faccia. Ma io mò si che mi sento finalmente bene. Attorno gira tutto, le urla, le macchine che passano, e io sono un martello pneumatico, un fottuto, cazzutissimo stramaledettissimo martello compressore che annienta e spappola. Finché non sento il corpo di quello accartocciarsi come una marionetta floscia ai miei piedi e il polso farmi male. Butto la spranga per terra e m'infilo in macchina, il semaforo è rosso. Mille occhi mi scrutano, bocche spalancate, mani sulla labbra. Accelero e mi butto a capofitto nel flusso di macchine che attraversano la via, tra i clacson impazziti e le urla e le frenate. Ma io accelero e finalmente non sento più niente, non vedo più niente. Solo i bagliori delle luci che si accendono sulla sera che viene, quelle di un’indimenticabile serata che non tornerà mai più. 

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RAFFAELLO FERRANTE
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Campi Salentina: casu friddu

3/24/2014

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Campi Salentina, 15 Km a nord-ovest da Lecce, a metà strada fra Ionio e Adriatico, più vicina a Tunisi che a Milano. Mercoledì 17 agosto, le tre del pomeriggio. Il termometro fisso sui 45 gradi all’ombra. Asfalto molle, strade deserte, silenzio da catastrofe naturale. 
Per fortuna che l’aria condizionata l’avevano appena riparata. Poi squillò il telefono a incrinare l’immobilismo della controra.
Rispose Paolini, 25 anni, appena arrivato da Bastia Umbra.
«Prondo?»
Cardascia sollevò un sopracciglio, sale e pepe al pari del resto della peluria.
Paolini arrossì. E subito dopo assicurò «Arriviamo!»
«Un omicidio» spiegò al suo superiore. E intanto tremava. 
In quel paesone di case bianche dell’entroterra salentino ci era arrivato quasi per punizione. Gliene avevano parlato malissimo e invece lui si era trovato bene: il mare vicino, l’olio buono, le belle ragazze. Nulla di cruento, in quei due mesi. Pareva quasi impossibile credere a una Campi al centro dei regolamenti di conti della Sacra corona unita, negli anni Novanta. 
«Omicidio?» Cardascia gli rimbalzò la parola, senza fare neanche il verso di alzarsi dalla sedia. Aveva 54 anni, di cui più di trenta passati nei carabinieri. 
«Sì. Ha chiamato un testimone oculare. Ha parlato di una ragazza nuda... accoltellata su un tetto».
Malgrado il caldo, Cardascia rabbrividì. Poi scattò in piedi e: «Presto!»
Erano passati vent’anni. Un’altra estate torrida. La ragazza era appena maggiorenne. Ora, forse, sarebbe stata moglie e madre. Se qualcuno, allora, non l’avesse sgozzata in mezzo ai panni stesi.
L’auto filava veloce. Niente sirena: in giro non c’era nessuno da far spostare e il rumore avrebbe disturbato il sonno di onesti cittadini. Arrivarono in un pugno di minuti. Suonarono. La porta si aprì.
«Professore!» esclamò Cardascia. 
Tommaso Maci, maestro elementare ormai in pensione, era quel che si dice una brava persona. Si era sposato giovane con Anna Bianco,
’na bona vagnona. Di figli non ne erano arrivati. Coppia unitissima: sempre insieme in chiesa la domenica e alla festa di san Pompilio. Lei era morta due anni prima. Da allora, il professore – come lo chiamavano in paese - non era stato più in sé. Il gran dolore, avevano pensato tutti. L’Alzheimer, avevano diagnosticato i medici. Una forma precoce, a poco più di sessant’anni, ma tant’è.
«Venite: la sta ammazzando!» esclamò l’uomo. Aveva radi capelli ondulati troppo lunghi per la sua età, una camicia bianca lisa e macchiata, il viso solcato da venuzze rosse.
«Si calmi» lo invitò Cardascia.
«Andiamo!» esclamò invece Paolini.
«
Nu a capitu nienti!» gli ringhiò Cardascia. Poi gli fece segno che l’uomo sragionava. Ma quello insisteva, battendo il piede e indicando il retro.
«Assecondiamolo» sussurrò alla fine Cardascia.
I tre uomini attraversarono una casa fresca e buia, piena di tavolini polverosi, cuscini fiorati e foto di persone che non c’erano più. In una, loro due: Anna scarna e felice, Tommaso con baffetti spavaldi.
Poi uscirono nel giardino. Muri di calce, luce accecante, qualche pianta assetata. Il maestro in pensione imboccò di slancio le scale che portavano “alle terrazze”. 
Una volta lì, Cardascia fissò l’orizzonte. Divisa in basso da porte e muretti, la città in alto era unita dai tetti. Si passava da uno all’altro, agevolmente. Lui stesso ricordava di averlo fatto più volte, da ragazzo, quando aveva dimenticato le chiavi.
«Là».
Il più giovane vide solo i tetti della casa accanto. 
Il più vecchio vide altro, con gli occhi della memoria. All’epoca era già carabiniere, ma nel comando di Lecce. Del delitto, però, se ne era parlato parecchio. La bella ragazza in topless, l’asciugamano colorato e poi uno di quei cartoni riflettenti per abbronzarsi di più. Poi dettagli: occhiali da sole, un libro. La gola squarciata. Era stata uccisa nel sonno, o nel torpore. Qualcuno si era avvicinato di soppiatto, con un coltello.
«Eccolo, è là, lo vedete?» il maestro Maci indicò il punto esatto in cui “la milanese” era stata giustiziata, vent’anni prima.
«Io non vedo niende» puntualizzò Paolini.
Anche allora nessuno aveva visto né sentito niente. Tutti riposavano, in giro neanche una mosca. 
La ragazza viveva a Milano e passava lì le vacanze a casa di una zia (quel pomeriggio in visita a una parente). Aveva fama di essere un tipo piuttosto disinvolto. na bella fruscula si diceva in paese. All’epoca erano stati sospettati, interrogati e scagionati il cugino e un paio di filarini, tra Campi e Squinzano. Tutti i vicini erano stati sentiti come possibili testimoni. 
Tra di loro, anche il maestro Maci. Aveva detto che stava facendo la sua solita pennichella e la moglie aveva confermato. E aveva aggiunto: «Io non mi permetto, ma nei giorni prima, da queste parti, si erano visti degli albanesi...»
Di loro si erano perse le tracce prima che i carabinieri potessero interrogarli. Per la maggior parte dei campioti, la milanese era stata ammazzata proprio da quei furastieri.
Il maestro Maci sgranò gli occhi. Poi sembrò tornare in sé.
«Scusatemi. Non c’è niente là».
«Sarà colpa del caldo» buttò là Paolini, per smorzare l’imbarazzo.
«Già, lo stesso caldo di allora. Un caldo da strapparsi la pelle di dosso» mormorò il maestro. Improvvisamente malfermo sulle gambe, si appoggiò ai due, per scendere le scale.
La frescura della casa portò loro un immediato sollievo.
«Perdonatemi: è questa malattia maledetta. Un po’sono qui e un po’ chissà...»
Cardascia sospirò: sua suocera era stata uccisa dall’Alzheimer. Non che fosse morta, non ancora. Però, come diceva Maci, era altrove. 
Una teoria voleva che i malati tornassero a un’età in cui erano stati felici. E se quell’età era precedente alla nascita dei figli, neanche li riconoscevano. Così era capitato alla suocera, che ora la figlia la chiamava mamma.
Cardascia non raccolse e ripensò alla “visione” di Maci. Forse aveva davvero visto qualcosa, dopo tutto. E ora la malattia glielo stava riportando alla memoria.
«Professore, ma lei ha visto chi ha ucciso la stria?»
«Chi, la milanese?»
Cardascia annuì e aspettò.
«Sì, l’ho visto».
«Era un uomo?»
Maci fece segno di sì con la testa.
«Ce lo descrive?»
L’anziano scosse la testa. «Non saprei da dove cominciare, con le parole. Ma con il disegno sono rimasto bravino. Il medico quasi non ci crede a come tengo ancora la penna. A scuola facevo fare tanti disegni ai miei bambini».
La mano cominciò subito a correre veloce sul foglio bianco, abbozzando una forma con la biro nera.
Paolini e Cardascia erano muti, alle sue spalle. Piano piano, il volto emerse. Era quello di un uomo con capelli ricci disciplinati dal gel, occhi scuri e baffi sottili.
Cardascia escluse subito i sospettati d’allora. Quello nel disegno non era un ragazzo: aveva almeno quarant’anni.
Poi i due capirono.
«E’ un autoritratto» sussurrò il ragazzo, all’orecchio del suo superiore. 
Cardascia assentì, e chiese a Maci: «Dove ha visto quel volto, professore?»
L’indice si alzò, tremante, in direzione della casa accanto.
«Laggiù».
Oltre i muri spessi, la scena di allora riprendeva di nuovo vita, nei loro occhi.
I due carabinieri si scambiarono uno sguardo muto.
«Perché lo ha fatto?» gli chiese allora Cardascia.
Come se la domanda lo avesse svuotato dalle sue ultime energie, Maci si lasciò cadere su una sedia.  Fu allora che Cardascia provò una grande rabbia. Non solo per quello che Maci aveva fatto allora. Ma perché considerasse la sua età più felice – e forse la sua memoria più dolce – quella in cui aveva massacrato la milanese.
Forse non ne condivideva i comportamenti leggeri. Forse ci aveva provato con lei e ne era stato respinto. Quello non lo avrebbero probabilmente mai saputo. Ma, tutto sommato, era un dettaglio.
Qualche ora dopo, quando la vicenda si trovava nel pieno del suo clamore, Paolini si affacciò nell’ufficio del suo capo.
«Ha un momendo?»
Nonostante il casino, Cardascia sorrise: trovava quell’accento divertente. 
«’ieni, trasi» lo invitò allora. Giocava in casa e poteva permettersi di parlare come cazzo
voleva, lui.
«Capirei la confessione, ma perché fingersi un testimone del delitto che ha commesso lui?»
Cardascia, in principio, si limitò a un piccolo sospiro: il ragazzo non era intuitivo, ma compensava con lo scrupolo. Tra i vari mix, quello non era dei peggiori.
«Ma lui non ha fatto finta!»
Paolini scosse la testa. «Ma è assurdo: come fa ad aver visto se stesso che uccideva la ragazza?»
Aveva un vantaggio, Cardascia, conosceva la scena del crimine.
Quindi volle mettere Paolini al suo livello. E gli raccontò che cosa venne trovato sul tetto accanto alla ragazza accoltellata. Nessuna traccia dell’arma, ma vari oggetti. E Paolini ancora non ci arrivava.
«Non hai capito qual è la chiave di tutto?» gli domandò alla fine Cardascia, con un italiano da telefilm poliziesco.
Paolini sospirò e scosse ancora la testa. E poi tentò: «Tracce di Dna?»
Cardascia sbuffò. «All’epoca non si parlava di Dna. All’epoca i casi si risolvevano con le indagini e la logica!»
Breve silenzio, tra i due. 
«Il cartone argentato» rivelò Cardascia.
«Eh?»
«Massì, quello che la ragazza usava per abbronzarsi più velocemente».
Paolini incurvò le labbra a manifestare una totale ignoranza.
«Non va più di moda fra voi ragazzi? Forse oggi si usa solo per non far riscaldare la macchina».
Un lampo di comprensione illuminò il volto di Paolini.
«Capisci? Maci si è avvicinato alla ragazza per ucciderla e si è visto riflesso in quel cartone. Poi l’ha uccisa. Nel tempo, la malattia – e forse anche il rimorso – ha riportato a galla quel ricordo, e quell’immagine».
«Questo vuol dire che magari, mentre faceva quell’identikit, non si rendeva conto di incolpare se stesso?»
Cardascia annuì.
«Che storia. Vado subito a scriverlo su Twitter!»
Cardascia cercò di fermarlo. Ma era tardi. Per Twitter e per molto altro.
 
Fine.

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LUCIA TILDE INGROSSO
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I suoni di Taranto

3/17/2014

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Ecco il nuovo barattolo. Aldo sale in piedi sul letto e ripone il vasetto sulla lunga mensola. Lo sistema tra decine di altri contenitori tutti uguali e sistemati in fila ordinata. 

Stac-Staaaaac. Si sente un suono vibrare tra le sottili pareti di vetro del recipiente. Il bambino attacca in bella vista un’etichetta rossa: “Occhi neri”.

— Cataldo, vieni a mangiare.
— Un attimo, ma’. Arrivo subito.
— Stai perdendo ancora tempo con quei barattoli?
— No, ma’.
— Vieni che la cena si fredda.
— Ma papà non è tornato, ma’.
— Non tornerà, stasera. In fabbrica c’è assemblea. Vieni a mangiare.
Il bambino scende dal letto. Guarda un’ultima volta i suoi barattoli e corre in cucina. Si lava le mani e si siede a tavola. Aldo è piccolo, ma molto preciso e ubbidiente.
— Mamma, ma papà rischia di perdere il lavoro?
— E che ne vuoi capire tu, che hai dieci anni.
— Le maestre ne hanno parlato a scuola.
La mamma abbassa la testa nel piatto e perde lo sguardo tra gli spaghetti al sugo, quando finisce Cataldo è lì a guardarla dritta negli occhi, con la forchetta rimasta a mezz’aria.
— Aldino, non ti preoccupare. C’è stato un brutto sequestro della magistratura e la proprietà minaccia licenziamenti e mobilità all’Ilva, ma i Riva non li affonda nessuno. Bisognerà stringere i denti per un po’ e poi passata la buriana loro torneranno a produrre come prima e più di prima e noi a cenare a un orario normale...tutti insieme. 
Cataldo non fa più domande, finisce il suo piatto di spaghetti, aiuta la mamma a sparecchiare la tavola e aspetta per asciugare i piatti. Lei poi si accende una sigaretta e si piazza davanti alla tv e lui torna in camera sua.

I barattoli sono divisi in due file. Sulla prima linea le etichette rosse. Lungo la seconda quelle blu.
Cataldo si mette il pigiama. Poi apre un barattolo.
Strach. Ssssstracccch. E lo richiude. Sull’etichetta si legge: “Corde di canapa”.
Un altro.
Toc. Toc. Sssstooc. “Troccola”.
Uiu. Uiu. Uiiiiiiu. “Gabbiani”.
Flll. Flll. Flll. “Papaveri”.
Sclash. Sclash. Scaaaalsh. “Onde”.
Ole. Yiuppi. Yeah. Uahhh. “Bambini”
Stac. Stac. Stac. “Occhi neri”. E Cataldo, che ha la mania della precisione, aggiunge sull’etichetta: “Cozze”.
Vrrr. Vrrrr. Vrrrr. “Libellula piccola”. 
Cataldo continua ad aprire e chiudere i suoi barattoli. Solo quelli con le etichette rosse, però. 
Quelli con le etichette blu, li scansa, li evita. Sulle etichette blu si legge: “Telegiornale”. “Manifestazione”. “Macchine”. “Motore”. “Caldaia”. “Forno”. “Parole”. “Fumo”. “Paura”. “Lacrime”. “Mamma”.

— Perché su quel barattolo c’è scritto lacrime?
Cataldo si volta di scatto. È suo padre. È tornato a casa. E il piccolo gli va incontro sulla soglia della sua
camera.
— Sei stanco pa’?
— Un po’.
— Sei triste?
— Un po’.
— Ma perderai il lavoro?
— Credo di no, ma tu non ti devi preoccupare sei solo un bambino.
 
Il papà di Cataldo è un ragazzo. Può avere poco più di trent’anni. Capelli ricci e faccia abbronzata. È un operaio specializzato dell’Ilva. È entrato in azienda cinque anni fa, quando suo padre, il nonno del piccolo Cataldo, è andato in pensione. E anche Cataldo, quando il mese scorso la maestra di Italiano gli ha chiesto di scrivere un tema dal titolo
Che farai da grande, ha scritto:“L’operaio Ilva, come il nonno e papà”. Anche se a Cataldo la grande industria che produce acciaio fa molta paura. La maestra a scuola ha spiegato a tutti cosa è l’inquinamento e quali sono i rischi per la salute, ha usato una frase che fa davvero fifa: “Emergenza sanitaria”. Ma a Cataldo l’Ilva fa venire la tremarella soprattutto perché faceva paura a sua nonna Maria. 

— Non saremo mai ricchi, ma papà ha uno stipendio certo ogni fine mese e tu, piccolo mio, non ti devi preoccupare di niente. Il nostro padrone è molto forte e anche se sui giornali leggi che è tutto bloccato, non è vero. Noi produciamo come prima e più di prima. L’Ilva non si ferma mai. 
Il papà abbraccia Cataldo, la sua piccola testa, le sue piccole mani, le sue guance paffute e lo mette a letto. Gli rimbocca le coperte, proprio come si vede che i papà fanno nei film.
— Non hai risposto alla mia domanda, però? 
Il papà prende in mano il barattolo con la scritta azzurra:“Lacrime”. Lo apre. Non succede niente. E lo richiude.
— Papà, lo sai che è un segreto.
— Sì, un segreto tuo e di nonna Maria.
— Bravo.
— La nonna era una mezza matta, piccolo mio.
— A me la nonna piaceva e poi gliel’ho promesso.
 Il papà spegne la luce e Cataldo affonda la testa nel cuscino. In cucina sente i suoi genitori prima parlare un po’, poi darsi un bacio ...e una porta chiudersi. Poi più nulla. 
 
Quando in casa non sente più rumori Cataldo si alza in piedi sul letto e guarda la sua collezione. Il primo barattolo glielo ha regalato nonna Maria, poco prima di morire. Sopra c’è una scritta rossa:
“Fresie”. Sono il suo fiore preferito.
- Aldo, piccolo Aldo mio, questa città era una città allegra, colorata, viva. Quando nonna era una bambina come te c’erano i pescatori che ogni venerdì sera tornavano in porto con le barche cariche di pesce e si faceva festa, si cenava tutti insieme e si beveva vino primitivo. Mangiavamo pagnottelle e merluzzo fresco come il mare. E c’erano gli allevamenti di cozze, quelle piccole, nere e pelose che ci hanno resi famosi in tutto il mondo. C’erano gli artigiani e i pastori. Noi eravamo una famiglia di contadini. Coltivavamo pomodori e carciofi, avevamo le galline e pure una capra. L’aria era sottile e pulita e si sentivano i profumi di ogni cosa. 
Aldo adorava ascoltare i racconti della nonna. Passava insieme a lei lunghi pomeriggi, soprattutto l’estate quando prendevano il “15” per andare a mare a Lido Azzurro e poi si facevano l’ultimo tratto, dalla stazione casa, a piedi.
- Ma poi sono arrivati i camini e tutto e cambiato.
La nonna non chiamava mai l’Ilva con il suo nome, diceva sempre i “camini”. Come chiamava la polvere nera che si poggiava ogni sera sui balconi e sui panni stesi ad asciugare semplicemente “il minerale”.

La nonna si è ammalata di “un brutto male”, come tutti lo  hanno chiamato. Aldo non ha capito molto. Sa solo che un’estate la nonna non lo ha accompagnato più a mare, a settembre gli ha regalato il barattolo e a dicembre è morta.
— Taranto è una città piena di suoni e di voci. Raccogli tutte le voci di Taranto e conservale, perché presto spariranno. E prima delle altre spariranno le più belle. 
Gli ha detto la nonna, quando gli ha affidato il barattolo delle “Fresie”.

Aldo ha iniziato la sua collezione quando aveva otto anni. Ha diviso i suoni belli da quelli che gli fanno paura. Etichette rosse ed etichette blu. All’inizio i suoni con le etichette rosse erano molti di più. Ma ora, stanno diminuendo e aumentano le etichette blu. Sono tutti suoni legati ai camini: “fiammata”, “lavoro”, “sirena”, “marcatempo”, “manifestazione”, “blocco stradale”, “elettrocardiogramma”, “ecografia”, “studio medico”, “busta paga”. 
Spesso quando suo padre va al lavoro Aldo gli infila un barattolo nello zaino, con il coperchio aperto, e la sera lo recupera di nascosto, sente il rumore che è finito nel barattolo e lo etichetta. È riuscito così a catalogare rumori molto preziosi. 
 
Aldo prende il barattolo “Fresie” e lo poggia sul cuscino. Lo apre un po’. Sottile esce la voce della sua nonna.
— Conserva le voci della Taranto bella.
Aldo chiude il barattolo e si addormenta. 
Domani vuole prendere il bus numero 15 ed andare al mare, per catturare il suono del tramonto, quello a strisce gialle e rosse che solo Taranto ha.

* Questo  racconto è dedicato a Maria Carmen Morese del Goethe Institut, ad Alessandra Eramo e ai cinque artisti berlinesi che sono venuti a Taranto nell’ottobre 2013 per raccogliere i suoni della città e trasformarli in un percorso artistico dal nome “Correnti seduttive”. A loro che mi hanno insegnato ad ascoltare la voce di Taranto.

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CRISTINA ZAGARIA
www.cristinazagaria.it

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