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Il ponte sul Galaso

3/9/2014

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    I posti che mi hanno formato sono, pur se nella terra più arida d'Italia, la Puglia, fra due fiumi: il Gàlaso e il Galèso (esiste in Mediterraneo, o almeno dalle nostre parti, un radicale “g-l”, pre-greco, che significhi “fiume”, “acqua”?).
    I fiumi scorrono dalla sorgente alla foce e per questo sono metafora della vita; ma per me la costruzione della coscienza cominciò alla foce del Gàlaso, e il percorso dell'infanzia si concluse con un rito di passaggio nella sorgente del Galèso. All'incontrario, come la memoria. Naturalmente, con questa limpidezza lo vedo adesso, a distanza, guardando al me che fui, come fosse un altro.
    Il Gàlaso sfocia a Ginosa Marina, nel Tarantino, affiorando quattro chilometri a monte, dove lo zoccolo carsico della Murgia si abbassa per scendere nello Jonio. Eravamo poche decine di persone, a Ginosa Marina (allora chiamata Venticinque, dal numero di casello ferroviario), quando ero bambino, nel Paleolitico superiore: decine di chilometri di pineta a Est, decine a Ovest, qualche chilometro di pineta alle spalle, a Nord, interrotta da coltivi (specie carote, “i past'nache”), su terra salmastra che era stata palude e fu bonificata da mio nonno materno, di cui porto il nome. E davanti, a Sud, il mare, con una spiaggia profonda, che si alza in lente dune, su cui radi cespi s'infittiscono, sino all'infestante miseria (che però è grassa...), al sottobosco, al bosco.
    Alla foce, il Gàlaso rallenta, si allarga e si fa poco profondo: guadabile anche da un bambino. Ma io non lo feci mai, perché mi convinsi che il fiume segnasse la fine del mondo e tutto quello che vedevo dall'altra parte, sulla sponda destra, fosse immateriale, fatto di aria: piante, mare, radi uomini inclusi. Spiavo, giornate e giornate, affascinato e impaurito, quel mondo di nulla ma così simile, uguale al vero, per coglierne il segreto. Ho raccontato questa storia in "Elogio dell'errore".

    C'era un amico di mio padre che veniva a trovarci a casa, i pomeriggi d'estate e, mentre conversava con papà, sbucciava e ci porgeva fichi d'india che traeva da una vaschetta di latta, in cui erano stati messi a galleggiare, per nettarli dalle spine. Quell'uomo giungeva dall'altra riva, ma lo toccavi, non era apparenza. Così capii che le persone fatte di aria sulla sponda destra si materializzavano sulla sponda sinistra del Gàlaso; a produrre il cambio di stato (lasciando immutata la loro vera natura, si capisce: non  erano come noi) era il ponte sul Gàlaso, il cui attraversamento segnava il passaggio da un mondo a un altro.
    Avevo cinque anni, quando da Ginosa Marina ci trasferimmo a Taranto. E fu un trauma: io sapevo chi erano gli esseri d'aria, nel nostro villaggio: quelli che venivano dall'altra parte del fiume. Ma a Taranto? Fra tutta quella gente, in una città, come riconoscerli? Scrutavo, spiavo, cercando di non far scoprire che sapevo.
    Non ricordo quando questa idea mi abbandonò, si perse. Ma so quando superai il limite postomi dal fiume: ero appena adolescente e, dal rione Tamburi, dove ci eravamo stabiliti, noi ragazzini facevamo i bagni a Mar Piccolo. I più grandi, invece, segnavano la differenza di età e capacità, optando per la sorgente del Galèso, uno dei fiumi più piccoli del mondo: 900 metri di lunghezza, ma una portata enorme, quattromila litri al secondo (un angolo di paradiso ora violentato: le palme, la pineta, gli eucalipti; cantato dai maggiori poeti, dall'antichità a oggi). Il Galèso erompe gelido, dopo il lungo e ignoto percorso sotterraneo, l'acqua innervata da tremuli filetti come di ghiaccio, d'un colore elettrico.
    Andavamo a piedi, dai Tamburi al mare, al fiume. Si arrivava ansanti e sudati. E i “grandi” si sfidavano: il più audace è “colui che primamente” si tuffa accaldato nella sorgente. Choc termico che era costato la vita a qualcuno, si raccontava («Un amico di mio cugino...»). Altri ne vedemmo soccorsi, in difficoltà, a mordere l'aria.
    Noi piccolini commentavamo, fra ammirazione e giudizioso rimprovero (come da istruzioni, alle quali ci faceva comodo attenerci). Finché un giorno cacciai un urlo e mi buttai nella sorgente. Entrò in acqua un adolescente sudato; riemerse, con qualche momentaneo problema di respirazione, la promessa di un uomo. Per “quelli dei Tamburi”, era un rito di iniziazione.
    Circa venticinque anni dopo, tornai alla foce del Gàlaso. Fui colto da violenta, inspiegabile paura; cominciai a tremare sempre più forte e non capivo perché. Poi, mano a mano che mi calmavo, cominciò a riaffiorare il ricordo degli esseri d'aria, che avevo perduto.
    Iniziai, da lì, una ricerca. Dalla foce alla sorgente, all'indietro, come la memoria.

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PINO APRILE
www.pinoaprile.it

#pinoaprile #terroni
#inchiostrodipuglia #vivilapuglia #leggereèrespirare


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Peschici: per un picchetto di felicità

3/3/2014

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Saranno stati sessanta gradi. Forse settanta. Di certo l’aria, quella mattina, era rarefatta. Il sole, entrava dalle fessure e si andava a posare, o meglio a spiaccicare, proprio lì, sul tuo volto. Dolce e invadente, di sicuro prepotente. Ti giri dalla parte opposta, con un movimento acrobatico inverti la posizione della testa con quella dei piedi. Assaggi un sorso d’ombra finché l’istinto di sopravvivenza ti costringe ad uscire da quella tenda. Ti stiracchi, guardi i volti dei tuoi amici, cerchi una giustificazione convincente. Che non trovi.
“Ma come cazzo farai a dormire la dentro? Ti avrei svegliato a pugni per il nervoso”
“Che ore sono?” chiedi con innocenza, eludendo la risposta.
“Le undici e mezza. E io sono sveglio dalle 7” risponde Francesco.
“Mattutino”
“Coglione” non alza nemmeno lo sguardo, intento com’è a inzuppare biscotti nel latteecaffè. 
“Ho provato a resistere, ma l’aria là dentro è rarefatta, tu non sei umano”.
“Vado a farmi una doccia”.
Ogni anno la stessa storia: il sole non si sposta mai da lì. Se c’è una cosa di cui puoi andare certo è che se vai nello stesso posto per cinque anni di fila il sole sorgerà alla stessa ora, nello stesso punto e con la stessa intensità dell’anno precedente. E altresì che voi, campeggiatori improvvisati (e sì, perché improvvisati si nasce), monterete una tenda nel punto più assolato del globo. Ritorni assonnato e bagnato, ma già fresco, pronto per sentire l’ebbrezza di una nuova giornata. 
“Dovremmo spostare la tenda” quello di Francesco sembra un ordine, più che un consiglio.
“Magari più tardi, andiamo a mare prima”
“Non torneremo mai e stasera non ci sarà il sole”
“Tra un paio d’ore torniamo. Promesso”
Sembri aver convinto Francesco, un po’ meno te. Imbracci la chitarra e ti avvii verso la spiaggia. Ognuno di voi porta qualcosa con sé: chi un pallone, chi uno strumento musicale, chi una bottiglia di Peroni. Le ragazze vi guardano, magari per via di accessori discutibili. A sinistra c’è l’accampamento dei tedeschi, a destra quello dei polacchi, una ragazzina ti sorride e stasera le chiederai di ballare con te. Se solo riuscissi a strapparle un bacio. Pensieri pudici, in fondo. Davanti a te le case bianche di Peschici. La bellezza, un po’ tracotante, di una città affacciata sul mare. Non vi dite niente, perché non c’è bisogno di dire nulla davanti a tanto fascino. Ti lasci sedurre dai tornanti che dal mare portano in paese. Li hai percorsi in macchina e a piedi, salite e discese, cosa non si fa per una ragazza. Hai venti anni e nulla può intaccare la tua felicità. Non in quel posto almeno. Non al Parco degli Ulivi. Non a Peschici. Per arrivare in spiaggia devi attraversare la strada e passare attraverso un sentiero polveroso e assolato, ma il caldo è solo l’ultimo gradito ostacolo, quello che rende ancora più bello il primo tuffo
della giornata. E il desiderio di accelerare il passo verso il mare cresce. Occupate uno spazio a caso. Niente ombrelloni, niente sedie, niente lettini. Qualcuno non tira fuori neanche il telo dallo zaino. Il vostro paradiso è fatto di baci rubati e labbra salate. Di palloni e pallonate, di panini farciti fino all’impossibile.
Prosciutto, provolone, melanzane e pomodori secchi sott’olio del Gargano, grazie. Posi la chitarra sulla sabbia come un moderno Re Artù, controlli che l’accordatura sia a posto passando le dita sul capotasto misisolrelami e via, correndo, verso l’acqua. Uno, due, tre balzi sicuri, poi lasciare che siano le onde a farti inciampare dolcemente sull’onda che arriva. L’acqua non è fredda, ti protegge e ti accoglie; ti rassicura come quelle case bianche sulla destra. Sollevi la testa e la giri in direzione  di posti conosciuti: la pizzeria La Vampa, Derby, il vicolo che porta da Mario, l’enoteca degli artisti. Decidi in quel preciso momento che Peschici sarà il tuo posto nel mondo, quello dove un giorno comprerai una casa. Lo prometti ben sapendo che le promesse valgono anche a vent’anni. Chiudi gli occhi e ti lasci accarezzare da quel vento così cortese. Pensi, e ne sei sicuro, che il clima perfetto esista. Non nella tua tenda ovviamente. 
“Te la senti” chiedi, ancora bagnato, a Francesco.
“No, ma non mi sveglio anche domani alle sette per colpa tua”.
“Veramente sei stato tu a dire di montarla lì perché stavolta eri sicuro, Copernico”
“E sì, perché tanto a te che te ne frega, tu dormi pure sui chianconi”
Ripercorrete il sentiero, stavolta con le case bianche a sinistra e gli ulivi a destra. Cercate di portare i vostri pensieri all’ombra prima di arrivare nel punto più torrido del campeggio: la vostra piazzola. Smontate la tenda con la sicurezza di chi dovrebbe poi rimontarla con la stessa autorevolezza da campeggiatore esperto. E invece no: un ferro di troppo, un laccio legato male e un picchetto che non ne vuole proprio sapere di andare giù nel terreno. Inizi a martellare tirando i fili di quella che sarebbe stata la vostra casa per le successive due settimane. Un picchetto qua, un altro là, un sorriso ad una bella straniera, una bestemmia al faidate. Dovevate metterci mezz’ora, se ne vanno tre ore. E avanzano sempre un picchetto e un bastone di ferro, chissà perché. 
“Saranno di riserva” dice Francesco per liquidare la questione
“Sì, sarà così” lo assecondi, ben sapendo che nessuno mette dei ferri e dei picchetti di riserva nelle tende. Ma Peschici è lì che vi guarda e vi aspetta per raccontarvi un’altra storia. Lasciate il martello per terra e riprendete la strada per il mare. Il giorno è ancora lungo e la felicità è lì, a pochi metri da voi. Pensi a come sarebbe bello se avanzasse anche un po’ di questa felicità. Quella dei tuoi vent’anni a Peschici. 

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CRISTIANO CARRIERO
cristianocarriero.me


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Specchia, la migliore estate

2/24/2014

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Mio cugino non sospettava che quella sarebbe stata l’estate migliore. Ero l’unica a saperlo. Sono figlia unica, un solo cugino, un solo amore e una sola terra. Lo capisco sempre quando una storia è importante. Oggi mi pare che i ricordi di quei giorni si coagulino fino a diventare uno solo. Il migliore. La casa dei miei nonni materni si trovava nei pressi della chiesa dell’Assunta. La processione con gli incappucciati bianchi sfilava a luglio sotto il nostro balcone. Arrivavano al tramonto e cantavano male. Potevamo guardarli prima di cena e dirci che facevano paura. Era importante avere paura quell’estate, ma non ci bastavano la processione, gli incappucciati e le donne che cantavano latrando. Non erano abbastanza spaventosi per noi. Volevamo di più, per questo eravamo costretti a guardare i film del terrore quando i grandi andavano a letto. Era una specie di segreto. Mio cugino ed io aspettavamo che si facesse l’ora, spalancavamo finestre e porte e accendevamo la tivù in bianco e nero, con il volume talmente basso che lo scirocco lo confondeva con l’aria. Faceva più paura in bianco e nero. Faceva più paura se tutti gli altri in casa dormivano. È un ricordo bellissimo adesso, quella paura là, tanto grande e morbida da sembrare un letto. Specchia è il paese dei miei nonni e per quanto oggi se ne parli come di un miracolo o un gioiello, per noi era la terra dello spavento. Una terra in bianco e nero. Dario Argento ci stava dentro alla perfezione. Metti Suspiria, per esempio. A sentir mio cugino, l’accademia in cui le ragazze del film imparavano a ballare, con tutta la sua pioggia e la notte nera e le vetrate dai colori acidi, somigliava a Palazzo Ripa. C’era una storia dietro quel palazzo a Specchia, con i lampioncini di ferro, i cornicioni merlati, il tufo giallo. Una storia di lontani parenti truffati, vendite irregolari, eredità tristi e cattivo vicinato. Cosicché, ogni volta che mio cugino ed io ci passavamo accanto, per andare a comprare i fumetti in edicola, sghignazzavamo contro le finestre serrate e i catenacci arrugginiti. Un luogo dannato, pensavamo, tanto alla fine va a fuoco tutto, proprio come nel film di Dario Argento. Anche qui, a Specchia, di casa nostra ne resterà solo cenere. Lo pensavamo per avere più paura. Ci piaceva parlare delle cose che scomparivano, tipo catastrofi nucleari, oppure fantasmi foschi, cimiteri pieni, campi di guerra. Specchia e le sue storie antiche che raccontavano di giorno i nonni e gli zii erano perfette. In quelle tutto sembrava sul punto di scomparire per sempre. Persino le mura intorno al centro abitato. Quelle tirate su nel IX secolo - se ne vedevano ancora frammenti in giro - dai primi coloni, accampatisi in questo lembo di terra per sfuggire alle incursioni piratesche che infestavano le coste salentine. Lo zio, il padre di mio cugino, diceva che alcuni segni nello stemma territoriale rimandavano a una matrona, Lucrezia Amendolara. Anche se non esistevano documenti ufficiali che potessero confermare l’esistenza di questo personaggio, a Specchia erano stati comunque trovati dei resti di un’abitazione romana. Si sussurrava che là avesse vissuto la famiglia Amendolara, il cui capostipite, Giovanni, era stato un potente feudatario. A star concentrati, si poteva ancora sentire il fantasma di Giovanni ululare in cima alle mura di cinta. O il suo o quello di qualcun altro, poco importava. La matrona era per noi come la strega di Suspiria. Uguale a lei. Mio cugino ed io, dopo la visione dei film, correvamo giù per le scale fino all’ortale. Sfidavamo il buio. Chi arrivava per primo in fondo, nei pressi del pozzo, era il più coraggioso. Vinceva sempre lui. A me piaceva aver paura, ma percorrevo le scale troppo lentamente, guardandomi le spalle, uno scalino per volta, a piedi nudi. Tremavo e ridevo. Lasciavo che il sapore della paura come polvere di pietra mi riempisse la bocca. Non a caso, gli specchiesi fifoni come me, li chiamano ancora mendulari da quelle parti, per colpa della strega matrona Amendolara, il cui pensiero doveva essere più amaro di quello delle mandorle. Oppure li chiamano: gente di scurlisci, perché questa terra è costruita sopra una serra, tutta salite e discese, e se non ti tieni saldo, finisci che cadi malamente. Cadi dalla paura. Davanti alla tele o giù per le scale, di notte, facevamo il verso dell’Amendola e del suo Giovanni che si buttavano giù dalle mura di cinta e si rompevano tutte le ossa. Certe sere, già di ritorno dal ristorante, pregustavamo il momento in cui saremmo stati da soli, mio cugino ed io, davanti ai segreti di Dario Argento, e, nella macchina dello zio, facevamo lo stesso verso stridulo. Tutta la famiglia, stretta sul sedile dietro, urlava insieme a noi. Persino lo zio. A noi, in famiglia, piaceva molto avere paura d’estate, con caldo umido, anche se nessuno, nessuno oltre me, lo aveva capito che quella sarebbe stata la nostra estate migliore.

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ELISABETTA LIGUORI
www.mannieditori.it/autore/elisabetta-liguori

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Ostuni: la città arancione

2/17/2014

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A circa dieci kilometri da Ostuni si trova Bari. O meglio un pezzo di Bari. O, per essere ancora più precisi, Rosamarina.
Rosamarina è un villaggio turistico sorto sulla costa adriatica  durante gli anni ’70 che ha subito un destino, dal punto di vista civico, atroce. 
Fondato da un apolide, Rosamarina nacque come villaggio turistico per soli stranieri – tedeschi, inglesi, svedesi, insomma per tutti quei popoli che oggi prendiamo a spietato metro di paragone per misurare la nostra qualità della vita – ma ora, a parte qualche sparuta minoranza di altre città, è diventato il ritrovo estivo dei baresi.    
Anzi, dei baresi della Bari-bene. Tanto che sulla sempiterna “Gazzetta del Mezzogiorno” si è soliti riferirsi a Rosamarina come il villaggio dei vip. Dove e quali siano esattamente questi vip nessuno lo sa. Ma ai baresi, questo invece si sa, piace cantarsela e suonarsela da soli.     
E dunque.      
A circa dieci kilometri da Ostuni si trova Rosamarina e, conseguentemente, un po’ di Bari. Ora, dovete sapere che a Bari esistono due postulati eterni, un paio di mantra che ripetiamo in continuazione, più volte al giorno, più giorni alla settimana.       
Uno: a Bari non c’è  mai niente da fare.         
Due: Bari è bella, il problema sono i baresi. 
Per la proprietà transitiva queste due verità universali, a luglio e agosto, fanno i bagagli e si trasferiscono con i loro sostenitori a Rosamarina.       
E quindi.         
Uno: a Rosamarina non c’è mai niente da fare.        
Due: Rosamarina è bella, il problema sono i baresi (dire i “rosamarinesi” sarebbe oggettivamente troppo).          
Così, quando arriva sera e il mare non è più un’opzione per affogare la noia, Ostuni – a circa dieci kilometri di distanza – si staglia come borgo ove trovare un possibile rifugio, un’auspicata novità, una dolcissima salvezza. Ove trovare, insomma, qualcosa da fare.  

Ostuni, comunemente nota come la città bianca per via del colore delle sue case arroccate l’una sull’altra, per me è invece sempre stata la città arancione. Infatti, andandoci sempre la sera, la vedo sempre trasformata dalle illuminazioni pubbliche che mutano la calce bianca dei suoi muri in un arancio slavato. Il che mi spinge ogni volta a domandarmi perché il comune non compri dei neon bianchi invece di quelle lampadine  che oltretutto sembrano pure ad alto consumo energetico: ma avranno le loro buone ragioni. Comunque sia, di giorno bianca, di sera arancione, Ostuni rimane una bella città, almeno d’estate che è l’unico momento dell’anno di cui io ne abbia esperienza.
Negli altri mesi, non so.       
Ma d’estate Ostuni ha qualcosa di speciale, qualcosa che non riesco a capire nonostante siano ventisei anni che la sera, d’estate, mi reco laggiù, o meglio lassù, dato che Ostuni è pur sempre in collina: duecentodiciotto metri sul livello del mare, secondo wikipedia, dieci minuti di cammino, secondo i miei piedi, dopo che lascio l’auto dalle parti del parcheggio degli autobus (non dentro le strisce blu, ma da qualche altra parte, in vacanza resto comunque un barese). Dieci minuti a meno di non fermarsi da “Impasto Napoletano” (la migliore pizzeria napoletana non a Napoli che abbia provato), dieci minuti e via su Corso Mazzini, direzione centro storico poiché la sera, non importa dove ci si trovi, si va in centro. Cammini sul viale alberato, senti qualche tedesco parlare, vedi la pizzeria rustica con i polli al girarrosto in bella mostra, butti un occhio alla Bottega del Libro perché, nonostante Amazon e megastore, le piccole librerie conservano sempre un loro fascino, e sfoci nella piazza principale. Santo Oronzo c’è sempre e ti guarda dall’alto. Sulla sinistra la salita che conduce alla cattedrale, fatta migliaia di volte per vedere migliaia di volte il panorama dal belvedere, metti mai che qualcosa è cambiato durante l’inverno. Più in là il “Gatto Rosso”, sempre sulla sinistra, e con quel colore non poteva essere altrimenti: coperto assente e puccia ben riempita, e ti scende una lacrima nello scoprire che anche quest’anno ha resistito alle sirene del turbocapitalismo. E poi la “Cremeria alla Scala” e la sua coda. “Ciccinedda Bistrot” e ti sembra di assistere all’incarnazione del sogno americano: da bancherella di angurie a
fruit bar alla moda. I mille localetti in cui non entri mai perché sei sempre stato o troppo giovane o troppo vecchio. La folla di gente vestita malissimo ma d’estate, diciamolo pure, seguire la moda è roba da professionisti. La bancherella che, con 35 gradi all’ombra e da 35 anni, vende la cupeta calda presentandola sempre come la novità del momento. I vigili urbani che non si capisce cosa fanno. Gli artisti di strada che impressionano i bambini. La zingara tarocca che fa i tarocchi. E la gente che ci va.
E, in mezzo a tutto questo spettacolo di vita quotidiana, ci sei pure tu. Sempre. Da anni. Tanto che, a Ferragosto, sapresti muoverti nella Sagra degli antichi mestieri anche con una benda sugli occhi. Tanto che i menu, nei vari locali, manco li guardi perché li sai a memoria. Tanto che cammini senza prestare attenzione alla strada, perché ormai i piedi hanno già capito tutto.
E allora capisci cos’ha Ostuni di speciale, almeno d’estate. È una città che ti accoglie da straniero e ti fa sentire in vacanza a casa o, meglio, a casa in vacanza, che è bellissimo.          
Così, tra fine luglio e inizio agosto, mentre sei seduto sui gradini della piazza, mentre stai aspettando che arrivino gli altri, mente ti guardi attorno per capire dove è più facile trovare subito posto, ecco, in un momento qualunque di questi, senza accorgertene, senza volerlo, ti sentirai così a casa che ti rivolgerai all’amico che ti sta a fianco e affermerai sconsolato:
oh a Ostuni non c’è mai niente da fare.

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RENATO NICASSIO
ilblogstruggentediunformidabilegenio.com

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Paduli: Quartino

2/10/2014

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Passavo ore a fissare lo spazio tra una pietra e l’altra. Poggiate con arte e pazienza, quella che mio padre non aveva mai avuto, adagiate una sull’altra con una cura che il tempo non avrebbe rovinato. Ammassate in un luogo come la gente nei paesi, impilate come le persone nelle  grandi città. Una ferita sembrava quella fessura tra pezzi grezzi, sottratti alla natura per diventare muri, guerrieri a combattere la tramontana e arginare le poche piogge. Cercavano di creare confini in un’età in cui non ne sentivamo, in un luogo che non ne aveva bisogno, talmente lontano dal mondo che sembrava lo avesse dimenticato. 
E noi guardavamo le nostre madri piangere al buio e volevamo solo morire, lontani da qualsiasi cosa somigliasse alla vita. A quella in tv, ai ragazzi che nel mondo si divertivano mentre a noi ci avevano lasciato in un buco di culo così piccolo e stretto che non ci avrebbero mai trovato. Alcuni dei più grandi ce l’avevano fatta, erano andati via. Li vedevi tornare solo per le feste e i funerali, con l’aria di chi con quel posto non c’entra più un cazzo. Ma questo posto non lo puoi cancellare, lo porti nella carne, nel cognome, nelle sopracciglia folte, nelle mani grandi e i piedi piccoli. Qui tutti sanno chi sei, a chi appartieni. Al di qua di questi muri i segreti rimbalzano di porta in porta. 
Tutti sapevamo che la mamma di Rocco era pazza, la notte la sentivamo gridare, ululare. Durante il giorno ne scorgevamo la sagoma dietro le persiane. Ma non gli dicevamo niente. 
Ognuno di noi aveva vergogne, nei paesi possono diventare giganti, soprannomi attaccati alla tua famiglia per sempre. Il mio era Quartino, per via di mio padre.
Dopo il lavoro lo potevi trovare al circolo. Sedeva sempre alla stessa sedia, prendeva sempre un quartino di rosato fresco, fumava lento, ne prendeva altri tre, poi si alzava e tornava barcollando verso casa, lì si sedeva a tavola, mangiava in silenzio, beveva un litro di rosso e andava a dormire. 
Il padre di Francesco aveva una fabbrica poco fuori il paese, dava da lavorare a un sacco di gente. Un giorno sono entrati e gli hanno chiesto dei soldi. Lui ha pagato finché ha potuto, poi tutto è cambiato, il mondo ha cominciato a girare in un altro senso, tanto forte che anche quel paese se n’è accorto. E così un giorno sono arrivati con i fucili, hanno sparato a cazzo e hanno disintegrato la gamba di Francesco. Da quel giorno è zoppo, ma nessuno di noi lo prende in giro. 
La nostra amicizia era fatta di silenzio. Quelle degli altri sono fatte di confidenze, segreti, di lunghe passeggiate e chiacchierate.
Noi ci incontravamo qui ai Paduli, sotto questo ulivo non ci dicevamo niente.
Imparammo a odiare. Cominciammo con noi stessi. Pensavamo che farci del male ci avrebbe salvato o ucciso prima, pensavamo di essere fascisti, poi satanisti, poi nichilisti. 
Eravamo solo dei piccoli vandali. Prima delle fabbriche c’erano i cantieri delle nuove case. Noi ci spingevamo fin laggiù con le ceste piene di cuccioli e li buttavamo nel cemento fresco per vederli morire sicuri di fargli un favore. Ma forse solo i randagi erano felici dalle nostre parti. Quelli che non danno un nome al posto in cui si trovano. Gli animali non sentono il vociare del paese, non lo comprendono e nella loro ignoranza trovano la pace. Vedere i gattini lottare per la vita ci sembrava assurdo, noi che ci muovevamo in direzione ostinata a contraria, c’era nella loro disperata ricerca d’aria qualcosa che ancora non avevamo capito. Eppure anche noi ci sentivamo soffocare, ma da altro, da mani callose e anziane, da una morsa invisibile. 
Io non lo odiavo mio padre, mi faceva pena e questo mi faceva sentire in colpa. Decisi un giorno che non potevo sottrarmi al mio nome e presi a bere senza senso. Scoprì presto di essere allergico ai solfiti dell’alcol, me lo disse un medico dopo che mi trovarono privo di sensi ai Paduli. Lo presi come un regalo, qualsiasi cosa avrei fatto nella vita, qualsiasi errore, non sarei mai stato come mio padre, magari un fallito, ma diverso. 
Ci piaceva il fuoco, specialmente l’estate. Mettevamo da parte qualche spicciolo, ci spingevamo in bici fino al benzinaio, prendevamo una bottiglia di super e poi sceglievamo una campagna. Bastavano pochi istanti per vederla scomparire. Le stoppie prendevano il volo velocissime, le spighe accarezzate dalla tramontana erano un’onda di fuoco che neanche gli alberi fermavano. Sedevamo sul muro e guardavamo ardere quella parte di terra sperando di cancellarla o di trovare al suo posto, il giorno dopo, qualcosa di migliore. 
Avevamo fatto la scelta più difficile: cambiare il mondo intorno a noi. Non come i sognatori, come i disillusi. Facevamo cazzate per non ammettere di avere paura. Perché alla fine quello schifo ci faceva sentire protetti, ci sentivamo parte di qualcosa che odiavamo ma di cui non potevamo fare a meno.
Una sera, mentre guardavo la tv, mio padre prese posto accanto a me sul divano, rannicchiò le ginocchia, poggiò la testa sulle mie cosce e si addormentò. Passammo la notte lì, dopo poco mi addormentai carezzandogli i capelli, quando mi svegliai era seduto in cucina. Se prima pensavo bevesse per se stesso da quel momento capì che lo faceva anche a causa mia. Forse perché non era in grado di darmi abbastanza, forse perché non si sentiva abbastanza. E così non aveva il coraggio di guardarci negli occhi. A me, a mia madre, a tutto il paese. 
Però un tempo mi abbracciava forte, mi portava sulle spalle fino in piazza per comprarmi il gelato. Poi qualcosa ha rotto tutto dentro di lui, ha fatto crollare il muretto a secco che lo teneva su. 
Quando io e gli altri non sparavamo con il fucile del nonno di Francesco ci chiudevamo in saletta a fumare e a sparare alle astronavi aliene.  Mentre noi giocavamo ai videogiochi i più grandi si facevano di eroina nel cortile del retro. Il proprietario della sala giochi aveva capito che investire sui giovani significava offrirgli qualsiasi cosa. Era il porto franco dove trovare e provare tutto. 
Fu lì che un giorno comprai un coltello. Lo portavo sempre con me, mi piaceva sentire il suo peso in tasca, la lama fredda quando ci passavo sopra le dita.
Un giorno incidemmo i nostri nomi sul tronco di un fico, era come se sapessimo che niente sarebbe più stato come quel pomeriggio, fu come il testamento della nostra giovinezza. Quella sera accoltellai un uomo, in piazza, al petto, lo uccisi. Davanti a tutti. Era in piedi, di fronte al tavolo dove mio padre beveva ogni giorno. Lo sbeffeggiava, mio padre ubriaco farfugliava risposte che nessuno capiva e che facevano ridere un gruppetto di curiosi. E io non ci pensai due volte, presi la rincorsa e quando gli fui sopra mirai al cuore. Quando sentii il sangue caldo imbrattarmi le mani non provai paura ma conforto. Si oppose solo per poco, poi fu silenzio, lasciai cadere il coltello. I ragazzi mi allontanarono dal corpo, mi tennero in saletta per un tempo che mi sembrò eterno.
Quando tornai a casa mio padre dormiva e mia madre piangeva in cucina. La mattina quando mi svegliai trovai il coltello posato sul comodino, pulito. Quando scesi in strada era ancora silenzio, nessuno denunciò l’omicidio, avevo 13 anni. Alcuni dicono che lo seppellirono ai Paduli. Da quel giorno niente fu uguale, ora il paese intero custodiva un unico, grande segreto e tutti per un giorno ci sentimmo uniti. Il morto non l’avrebbe pianto nessuno, un vedovo senza figli con troppi soldi e troppo tempo libero.
Quella morte ci liberò da quel male che ci consumava, quella rabbia silenziosa che ci faceva odiare cose piccole.
Fu così che me ne andai di lì a poco, in un altrove che avevo sempre sognato e che da quel momento in poi vidi come un esilio, a casa di una zia che fece finta di volermi bene come mia madre. Ed è così, forse, che sono diventato un uomo e ho ricominciato ad amare mio padre. I miei fratelli gli hanno dato i nipoti. Io gli ho restituito il coraggio. Non ha mai smesso di bere ma da quel giorno accanto al suo bicchiere ne faceva portare sempre un altro mezzo pieno. Ho ancora il coltello anche adesso che sono tornato per il suo funerale. Quello che ho perso per sempre furono Rocco e Francesco e quella strana amicizia. Cammino per i Paduli, sono diversi oggi ma hanno conservato quel silenzio che tanto mi mancava.  Ho trovato posto sotto il solito ulivo, di fronte il muretto a secco. Oggi non ho più amici con cui non parlare.

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OSVALDO PILIEGO
LupoEditore.it


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Bari: la libertà di Mia

2/3/2014

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Mia è una serpe nera, una ragazza sinuosa che si muove nel quartiere Libertà quando smonta – letteralmente – dal lavoro, sul lungomare di Torre Quetta o sotto gli archi del ponte di San Giorgio. Lei, nigeriana, vive di quelle poche lire che le lascia il suo pappone, dopo aver trascorso la notte con cinque, sei baresi. Ma soprattutto Mia è giovane e intelligente, curiosa, vivace. Le piacerebbe guardare la città, se ne avesse il tempo, e invece si divide tra un autobus e  una passeggiata a piedi dalla stazione a casa sua, sotto lo sguardo impertinente dei ragazzacci in scooter, degl’impiegati cinquantenni, delle massaie imbestialite e invidiose.

 Oggi il cielo è grigio, spuntano gli ombrelli e le buste di plastica sulle scarpe delle signore del Libertà. Mia è stanca. S’è svegliata presto, ha dormito un paio d’ore. S’accende una sigaretta, si prepara un caffè, si guarda intorno. Vive in un basso freddo e umido; dorme su una branda da campo; respira i miasmi dei suoi vicini e l’alito dei suoi clienti. Oggi ha voglia di uscire, non andrà a lavorare, perché fortunatamente piove. Mia non ha mai visto la città sotto il sole. Sa che c’è un teatro, il Petruzzelli, una spiaggia, Pane e Pomodoro, una città vecchia, una basilica, un santo patrono. Per lei, percorrere due, tre chilometri a piedi, è sottoporsi al linciaggio degli occhi, al vituperio dei ragazzi. Allora esce di casa, si ferma davanti a un bar, s’un marciapiede sgangherato di via Ravanas, saluta un vecchio ebanista innamorato di lei. Raggiunge un TaxiPhone, chiama casa. Sua madre sta bene, la ringrazia per il denaro ricevuto, anche sua figlia sta bene, cresce sana nella miseria e nell’umiltà. Poi chiama il suo ex ragazzo, quello che l’ha portata in Italia. Lo insulta, lo offende, gli urla contro: vorrebbe piangere, ma non ha più lacrime, le si è essiccato il cuore. Infine chiama un ginecologo italiano e fissa un appuntamento: sono centocinquanta euro, a nero, senza fattura, nottetempo, quando non ci sono più italiane in sala d’attesa.

 Mia adesso cammina nel quartiere, non può allontanarsi da queste quattro vie dove le vecchie capoclan baresi siedono tutto il giorno davanti ai loro portoni, chiacchierando del più e del meno mentre i loro figli si dividono i proventi della droga e delle mignotte. Mia le saluta, ne riceve un cenno del capo, passa oltre, si ferma in un bar, prende il suo secondo caffè. Dai palazzi sulla sua testa sgocciola acqua mista a guano di colombi, il cielo grigio si allunga come una bava di disperazione tra i tetti delle cadenti palazzine del quartiere. In via Quintino Sella Mia compera un paio di ballerine da un cinese indaffarato, le calza, le stanno bene: le ricordano le corse a piedi nudi nelle strade della sua città. Quindi esce dal negozio e torna nel Libertà, nome assurdo per un quartiere che è il suo carcere. Ha smesso di piovere, quindi s’affretta a rincasare perché tra un’ora o poco più dovrà tornare sulla statale 96 a soddisfar le voglie di chi vorrà comprarla.

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LEONARDO PALMISANO
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Castellaneta: il colore dell'anima

1/28/2014

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E' la luce che fa la differenza. 
Sulla terra, intendo.
Ogni luogo del mondo ne ha una sua propria, e non occorre spostarsi di molto: qualche decina di chilometri e tutto cambia.
In realtà non saprei dire se capita a qualsiasi latitudine, ma di certo in Puglia è così che funziona.
Specie nelle mattine d'estate. Specie se ti capita di andare da Bari verso Taranto percorrendo la vecchia e ritorta statale, alla ricerca di qualcuno che ben conosci e che non incontri da tanto. 
Tutte queste riflessioni si erano affacciate appena superata Gioia del Colle. Con il finestrino abbassato lasciavo entrare l'aria e riempivo così l'abitacolo di vento e di essenze intense di campagna: sui jeans lisi, sulla camicia bianca, sui capelli scompigliati e sui miei imprecisati anni. E anche sulla musica a tutta manetta e sulla borsa in tela poggiata sul sedile con dentro asciugamano, olio solare e un vecchio libro. 
Vecchio si fa per dire, perché i libri non invecchiano mai: al più possono essere classificati tra i letti, o tra i riletti, o tra quelli da leggere o da ri-leggere.
O forse da leggere più in là, quando sarà il momento: si, perché ogni libro ha il suo, che viene stabilito da coincidenze astrali in tacito accordo tra l'essere cartaceo detto testo e l'essere umano che lo leggerà, forse, prima o poi. 
Invero, comunque, ogni libro che una persona non ha ancora letto è per quest'ultima ancora 'nuovo', e lo sarà per sempre fin quando non lo leggerà.
Questa è l'unica certezza, sull'argomento.
La temperatura era già elevata, intanto. Il cielo senza una nuvola, e il sole che picchiava duro. Si. D'estate il sole brucia, ma non qui. Non se vai verso Taranto percorrendo la 100, e ancora meno se ad un certo punto, a San Basilio, giri a destra. La prima cosa che notai fu proprio la luce. Aveva iniziato a cambiare già da qualche chilometro, ed anche il sole si era fatto più gentile. Non era solo impressione, pensai: intorno a me cambiava anche la vegetazione. E questa ne era la prova vivente.
Il paesaggio mi avvolse completamente nei suoi colori: giallo del grano sfumato al rosso scuro della terra, verde dell'erba fresca e azzurro cielo sullo sfondo. Percorrendo la provinciale, sui lati della strada ondeggiavano lenti i canneti. Sinuosi danzavano alla brezza lieve inondando l'aria di un profumo intenso, e i pensieri si fecero ancor più diradati, lasciando via via spazio alle sensazioni. 
Un viaggio che stava iniziando adesso. Questo il segnale: cominciavo a dimenticare tutto per essere quel che ero, e basta, in quel momento. 
La strada si era fatta una striscia d'asfalto che attraversava campagne e campi piani, e a tratti alberi a boscaglia. Poi, d'improvviso, tagliava quasi in due Castellaneta. Un paese gentile, dalla luce tenue, e a quell'ora praticamente deserto. 
Sulla destra una figura immobile che indossava una tunica. Una leggenda: Rodolfo Valentino, con i suoi sogni Hollywoodiani e una fantasmagorica esistenza. Poi una curva e ancora la strada, fattasi un contorto filo nero steso sulla campagna incantata. Come perle, intorno, distese di angurie pronte per essere colte.
In fondo la sabbia bianca fine, ed alla fine il mare.
Raggiunsi la riva, e mi guardai intorno: acqua e sole a perdita d'occhio. Un paradiso in terra.
A piedi nudi ritrovai pace, e respirai piano.
Forse, dissi tra me, da qui non tornerò mai indietro.
Qui, su questa sabbia, passo dopo passo ho finalmente ritrovato me stesso: blu oltremare il colore dell'anima, ora. E lasciai prendere il largo al mondo intero, ai ricordi e ai miei imprecisati anni, che d'un tratto non avevo più.  
Il mio viaggio era finito. Potevo sedermi, finalmente, incrociare le gambe e restare così, per sempre, a sognare.
Aprii il mio libro. 
Un libro di poesie, nuovo, dei primi novecento: di tal Rodolfo Guglielmi, in arte Valentino, che sognava ad occhi aperti. 
E nel mare delle pagine, in me mi persi.
 
Italia.
"La terra è solo terra per i piedi
per gli uomini che camminano
ad occhi bassi.
Ma tutto è la terra
per l 'anima che cerca.
Chi la chiama casa,
chi cuore, chi possesso,
io che amo il sole
la chiamo Italia.”

(Rodolfo Valentino)

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NICKY PERSICO
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Taranto vecchia

1/16/2014

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Non sono ancora le tre e Giovanni è già sul mare, che aspetta. Cammina in bilico sull’orlo della banchina di pietra bianca, sale e scende dagli scheletri delle panchine comunali, si mette a correre in tondo sulla piattaforma di legno galleggiante, imita gli strilli dei gabbiani, borbotta goffi ordini marinareschi e li esegue in fretta e furia, neanche avesse un aguzzino alle spalle, tirando reti e mollando ancore. La sua città è vuota a quest’ora, tutta per lui. Il pavimento sbucciato che calpesta è posato su una lingua di terra lunga pochi chilometri che ritaglia un pezzetto di mare fatto a sua misura, riesce a prenderlo tutto con uno sguardo. Una fitta serie di palazzine basse aggrappate le une alle altre, nude file di larghi mattoni di tufo ingiallito imbiancati di calce qua e là, nascondono metà dell’orizzonte. È convinto che volendo avrebbe potuto  abbatterle a testate ma, anche se a guardarle una per una fanno pena, viste tutte assieme gli piacciono le facciate allineate di quelle case, sembrano un corpo solo, la carcassa di un vecchissimo animale. Aria calda sferruzza sulla superficie del mare sollevando soffi di vapore sottile che gli si fermano sul viso sotto forma di un velo umidiccio e polveroso di acqua e sale. Lo sente proprio il sapore del sale, se si lecca le labbra. Come sempre il sole è salito in alto, in una fetta di cielo sgombro, senza che riuscisse a sorprenderlo in movimento. I bidoni bucherellati dalla ruggine e gli scarti di reti marce gli sembrano persino belli illuminati così, un tesoro di colori puliti senza sbavature, è come se il sole avesse deciso di ingranare la quinta e rendere per qualche ora ogni cosa scintillante. A intervalli di cinque-sei secondi Giovanni alza la testa e getta uno sguardo lontano, verso l’orlo del mare ritagliato da palazzi a quattro piani verniciati con un marrone che nessuno sceglierebbe per la propria casa e le tapparelle verdi abbassate, palazzi dai cui tetti spuntano tubi a sonagli, lunghi e stretti. Quando vede comparire la prua rotonda della sua barca, l’agitazione diventa frenesia: su, giù, avanti, indietro, alza le braccia, le abbassa, salta, come un naufrago che vede passare una nave all’orizzonte.

 La paranza, né grande né piccola, non ha ancora attraccato che lo zio si sporge e gli passa una cassetta di plastica viola con dentro il pesce migliore della giornata. Giovanni la porta all’ombra, in un angolo dove ha già preparato tutte le sue cose, di fronte ad un edificio con assi di legno inchiodate alla finestre e l’ingresso murato alla meglio, e comincia a lavorare con gesti rapidi e precisi: suddivide il pesce in parti uguali, come non riuscirebbe mai a fare con le pere e le mele dei problemini che gli danno a scuola, e lo avvolge prima in fogli di carta oleata e poi dentro le pagine rosa di un quotidiano. Se non è possibile fare le parti uguali usa un sistema tutto suo di equivalenze: tre triglie valgono quanto un’orata, quattro gamberi quanto una spigola, una spigola almeno quanto cinque  polpi, una aragosta basta da sola per due giorni. Ne vengono fuori quindici pacchettini perfetti che sistema di nuovo dentro la cassetta e ricopre con del ghiaccio triturato nella cucina di casa sua con una centrifuga a manovella.

 Si alza e via, a tutta velocità: oggi la cassetta è leggera leggera, il suo lavoro sarà facile. Portare il pesce migliore alle famiglie che lo comprano direttamente dalla barca e a quelle che il pesce migliore devono averlo, questo è il suo compito. In cambio guadagna spiccioli per un Twister e una Fanta, ma per lui conta soltanto la manona grata del papà fra i capelli e le pacche dei cugini più grandi. Conta stare in un posto vero, giocare con la barca e le reti vere, per questo corre più veloce che può, vuole tornare al molo in tempo per le ultime faccende. Gli basta pensare a suo padre che tende una cima e a tutti quelli che gli orbitano attorno per sentire il cuore battere più forte e i piedi muoversi più rapidamente, si sente letteralmente trascinato in avanti.  
 
 Conosce l’isola come fosse il pianerottolo di casa sua e ha studiato il percorso più breve. Passa davanti alle facciate delle case agonizzanti ammassate su tutto l’arco della marina mentre le prime saracinesche cominciano ad aprirsi sputando fuori canzoni napoletane, supera degli operai impegnati a far funzionare con metodi sbrigativi una betoniera, attraversa un muro di panni ancora gocciolanti, arriva sino ai palazzi rimessi a nuovo sopra ai giardini sant’Egidio e si tuffa nel budello di pietra della città vecchia. La sedia di paglia di zia Rosa, scalette lunghe e piatte che non c’è modo di salirle due per volta, la sala giochi senza giochi, l’afoso sgabuzzino dei carabinieri. Sa già chi a quell’ora sta dormendo e dove lasciare il relativo pacco, chi preferisce che appoggi il pesce sul banco della salumeria sotto casa e chi basterà chiamare ad alta voce per vederlo uscire sul balcone per prendere la sua parte. Dice “ciao” a tutti ma non si ferma a parlare con nessuno, rifiuta l’aranciata fresca offertagli dalla signora Maria e ignora i bambini che perdono il loro tempo seduti su biciclette scassate.

 Quando ritorna sulla banchina si ferma per la prima volta a rifiatare e sorride: sono ancora tutti lì. Si intrufola tra i corpi sudati dei suoi compagni di lavoro a testa alta, prova a tirare in fuori tutto il petto che ha e indurisce lo sguardo. Osserva, fa qualche domanda di cui conosce già la risposta, cerca un galleggiante dimenticato in un angolo, il lembo di una rete da tener teso, un buco da ricucire. Il padre, lo zio, i cugini e tutti gli altri oggi lo ignorano; anzi, sembrano sforzarsi di dargli le spalle e cominciano a brontolare: “Vattinn’” “Livt a nnanz” “Giuà, tu non c’ha sta’ a qua”. Appena comincia a sentire odore di mazzate, Giovanni si allontana, sa qual è l’umiliazione a cui va incontro: qualcuno lo avrebbe preso alle spalle, afferrandolo dalle ascelle, e lo avrebbe portato via di peso senza fare alcuno sforzo, mentre lui agitava le gambe come un moccioso qualsiasi; lo schiaffo sarebbe stato la parte meno dolorosa della scena. Va a sedersi sotto la vecchia pensilina Cariati e si mette a guardarli da lontano. Lì osserva con le sopracciglia aggrottate, lavorano l’uno per l’altro, senza dover chiedere nulla, senza fare commenti. Alcuni gesti sono minuti, da sarto, invisibili; altri richiedono una forza bruta che lui non avrà per moltissimi anni ancora, oppure sembrano parte di una lunga catena che proprio non riesce a intuire da dove cominci e come possa concludersi. Il solo immaginare di dover maneggiare i fiumi vorticosi delle reti sospese tra la barca e la piattaforma gli fa venire il fiato corto.

 Giovanni osserva le schiene dei suoi pescatori che si piegano, le dita callose che si stringono su corde sottili, i denti serrati, gli occhi assonnati, le smorfie. Loro lavorano ancora per circa un’ora - in silenzio, senza guadarsi nemmeno - e poi, uno alla volta, tornano alle loro case per chiudersi dietro le tapparelle e provare a dormire. Il padre si asciuga le fronte con uno straccio grigio, lo getta sul ponte della barca e gli viene incontro: è bellissimo, con la sua folta barba nera, le braccia solide, il petto ampio, le larghe placche d’oro giallo che gli circondano il collo perfetto, pare un dio antico. Gli si avvicina e lo fissa con i suoi occhi perennemente abbagliati dal sole: “Giuà, nu t’fa vdè chiù a qua. E no tu dic’ chiù”.

 Giovanni preme la labbra superiori su quelle inferiori e fa ‘sì’ con la testa. Quando tutti sono andati via si alza, va a sedersi vicino alla paranza della sua famiglia, sull’orlo di pietra della banchina, e stringe forte forte le palpebre. Presto un vento robusto comincia a soffiare sul suo viso, l’odore di legno bagnato diventa pungente, le urla dei gabbiani si fanno voci umane e le pietre su cui è seduto si mettono a dondolare, al ritmo delle onde. La chiglia della sua nave si solleva e ricade rumorosamente sull’acqua, mentre lui la conduce verso il mare aperto.

 Riapre gli occhi e  tutto è immobile: i larghi banconi di alluminio delle pescherie sono vuoti, la strada di lucido asfalto è deserta, una barca ricoperta di alghe marroni affoga un millimetro sotto il pelo dell’acqua. Dei vecchi magrissimi affollano le panchine, piegati sui loro bastoni. Giovanni si alza in piedi e guarda più  lontano che può. Nuvoloni di polvere rossastra imbrattano la pancia delle nuvole più basse, lo sfondo del suo mondo ha i colori del ferro arrugginito. Il suo futuro è già vecchio.

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MAURIZIO COTRONA
buonafede.wordpress.com

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"Il sud è un Ape Car"

1/11/2014

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Il  sud è un Ape car. Un trerrote.
Avanza, sballonzola, sbuffa. Fa pena, fa simpatia, fa ridere. Meticcio e  inadeguato: manubrio e meccanica da motorino; telaio obeso, sgraziato,  eccessivo. Grosso ma incompiuto, incongruo, asimmetrico. Tre ruote: troppo o troppo poco, vorrei ma non posso, potrei ma non oso. 

Eppure  cammina. Coi suoi tempi, per carità, non dategli fretta, ma cammina. E arriva  sempre. 

L’autostrada è roba da coupé, la città, al limite, da utilitaria. Il trerrote l’autostrada non sa manco cos’è, e in città ci va di rado e malvolentieri. Lui preferisce  giocare fra le mura amiche, dove può far valere il fattore campo. Fattore  e campo: parole rurali, come rurale è il mondo del trerrote. Niente guard rail, qui, niente strade a due corsie. Qui solo asfalti sbiaditi e crepati, cosparsi di gobbe e crateri. Se va bene. Sennò sono sterrati, viottoli, tratturi, nomi aspri, pieni di t, e ogni t è un attentato ai  semiassi, a ogni metro sassi assetati che bramano di bere alle coppe dell’olio. 

E allora tenetevelo pure, il vostro coupé, se proprio volete, ma sappiate che nessun ACI verrà a salvarvi, qui, e che il primo meccanico è a venti chilometri e probabilmente oggi non teneva voglia di aprire. 

(Da "13 sotto il lenzuolo" di Giuliano Pavone, Marsilio, 2012)

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GIULIANO PAVONE
www.giulianopavone.it

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